Armine Harutyunyan: Bella o brutta?

0
598
Maria Quarato

 

di Maria Quarato

Illustrazione di Chiara Aime

Se abbandoniamo il criterio estetico e la osserviamo con gli occhi di chi vede per lavoro ragazzine e donne adulte alimentarsi di briciole, Armine è esattamente come tutte le altre modelle.  A rischio anoressia.
Pensate sia una malattia ed invece quei corpi scarni, smunti, ritoccati per apparire senza segni del tempo e della vita che inevitabilmente scrive sui corpi le imprese compiute, sono scelti, voluti, costruiti. Non ci si ammala di valori, si scelgono.
La predominanza del valore estetico, dell’identità corporea su tutto il resto, è una scelta dotata di senso: il desiderio di accettazione da parte del contesto socio culturale in cui si vive e che ha inventato la magrezza come criterio essenziale di bellezza.
Così incontro donne impelagate nei tentativi di dimostrare al mondo di essere amabili, brave e saper fronteggiare il conflitto tra il piacere del cibo e l’obbligo a costruirsi come belle. Illusioni.
Le belle sanno bene che spesso non si sentono amate, ma usate. Oggetti. Respiri, sospiri, pensieri, menti, interazioni che si solidificato nella forma del corpo, illeggibile se non nell’adesione alle prescrizioni socioculturali che definiscono il bello. Sono esattamente come le vogliono, rinunciando, spesso, al resto delle possibilità che la vita concede.
Rinunce.
Io come potrei avere il ventre piatto dopo tre figli e gravidanza gemellare? Come potrei avere i glutei marmorei dopo aver scritto 200 pagine di un libro che mi è costato 13 anni di studi e ricerche seduta su me stessa e i miei pensieri, incontrando ed ascoltando il prossimo e le sue complicazioni?
Avrei potuto (osteggiata anche da una genetica mediterranea) solo a colpi di morsi della fame che ti mangiano da dentro.
Avrei potuto solo rinunciando ad ore di lettura seduta sul mio fondoschiena che si trasforma in cuscino perché le ossa non pungano.
Avrei potuto passando ore in palestra, scolpendo i muscoli al punto giusto.
Ma sì che ho fatto tutto questo in gioventù, anche subito dopo le mie fulminee maternità, ma poi la fame di vita ha preso il sopravvento, il piacere dello scrivere, di essere nel mondo raccontando quello che i miei occhi hanno visto come psicoterapeuta, fuori dallo specchio. Dentro lo specchio è un’immagine riflessa che ha lo stesso calore e valore umano dello specchio che la riflette.
Anoressia la chiamano, come fosse uno psicovirus che comanda e contro cui la mangiatrice in conflitto con se stessa nulla può. Ed invece può sempre scegliere di mangiarlo quel biscotto, quella pizza tra amici, ma spesso rinuncia per appartenere in modo decoroso al mondo che le ha detto che per sentirsi amata deve essere trasparente e non imporre al prossimo il testo scritto sul corpo della sua fame di vivere o della sua diversità biologica e genetica.
E sceglie di non mangiarlo quel biscotto, per essere sicura che l’amino e la considerino vincente.Come se, in quanto donne, si possa avere un senso sociale e relazionale solo attraverso il corpo.
Ci siamo lasciate fregare di nuovo.
Possiamo studiare, votare, lavorare, rifiutare la maternità, ma non dobbiamo farlo sapere attraverso le smagliature, i cuscinetti adiposi, i capelli spettinati, le rughe. Uguali dobbiamo essere e magre, che nulla si comprenda della nostra libertà e della nostra vita raccontata attraverso le sembianze corporee. Prigioniere dello specchio e dello sguardo di approvazione altrui.
Poca roba, per talune, vivere solo per forgiare il proprio corpo. Per me sicuro. La vita concede molte più possibilità esistenziali. E non intendo dire che magro è brutto, intendo dire che è brutto che le donne possano sentirsi sbagliate se longilinee non sono o se scelgono altre vite, altri corpi, diversi da quelli delle copertine di moda.
Chi ha deciso che la bellezza è separata dalla malattia di appena pochi grammi indicati dalla lancetta di una bilancia che svela spesso la necessità di un ricovero?
La moda, le sfilate, gli abiti alla moda, le copertine patinate, photoshop che ha reso corpi umani umanoidi verso cui tendere.
Donne oggetto: protagonista l’abito, lo stilista, l’economia che ci gira intorno. Scelte commerciali. E se diventano Soggetto, mostrando la propria diversità, piovono le critiche.
“Si ama quello che si vede tutti i giorni” sentenziava qualcuno.
Educazione visiva. Per donne che sono educate sin da piccole a riconoscersi, a sapere che possono esistere solo attraverso gli occhi altrui che misurano centimetri e kilogrammi. Sii bella. Sii composta. Sii educata. Muori di fame, altrimenti non ti vogliono bene.
Sì, perché capita che si finisca per pensare di essere in grado solo di digiunare mostrando il proprio corpo e non si riesca ad immaginare una vita diversa per stare al mondo.
Armine è bella o brutta?
Armine ha sul volto le notti del suo popolo, della sua genetica, della sua cultura diluita nel mondo per un genocidio sussurrato, di uno Stato geograficamente incerto tra Europa e Asia.
Ma chi ha stabilito che la bellezza sia di proprietà solo di alcune etnie?
Siamo ancora eredi della cultura della razza ariana, dell’uguale, identico a discapito del diverso. Diverso da chi, poi? Portiamo nelle nostre menti il seme marcio di un pensiero politico, sociale, culturale che ha portato alla camera a gas ebrei, omosessuali, Sinti, diversi di altre forge umane.
Armine è bella?
Armine è magra come le altre modelle. Armine è una modella, “manichino muto con il viso parlante” che vi dice che vincente non è solo un viso regolare ed armonico e che questa presunta “razza dominante” dovrebbe un po’ smetterla di dettare le regole visive del bello. La ridondanza del tutto uguale, regolare, che fa apparire l’uguale bello. Ma Armine ha accettato il compromesso dei morsi della fame, per mettere in dubbio le vostre certezze di strascico eugenetico, commercialmente vincenti.
Io non ho prestato attenzione alla bellezza di Armine.
Io penso che Armine sia coraggiosa, perché è lì a prendere insulti, e non si è spostata. Ci sono persone che si rompono per molto meno.
Non lo so se Armine è bella o no, so che il suo corpo serve per mostrare abiti, il suo volto invece per mostrare la sua storia (e questo ha disturbato alcuni). Che non è la nostra storia e ci dice: “ non ci siete solo voi al mondo”.
Le briciole dicevo: la linea sottile tra bellezza e malattia.
Il dopo guerra e i corpi androgeni, le donne che si lasciano costruire come corpi silenziosi, uguali, identici, trasparenti, eterei e diventano il modello attraverso cui far sentire sbagliate le donne che sulle passerelle non ci arriveranno mai perché la genetica ha offerto fianchi opimi: per la maternità o per non pungersi il culo con le ossa quando usano il corpo per il bene proprio, senza temere i vostri sguardi disapprovanti. O perché hanno scelto di vivere una biografia corporea ricca di unicità. Un corpo parlante per chi lo sa leggere.
Gli stilisti hanno una responsabilità che non è solo economica ma è sociale, è culturale, è di cura. Eppure plotoni di donne che hanno dato mandato, a menti che apparivano creative, di creare loro abiti, si sono viste rifiutare, svestire, e criticare se hanno osato mangiare, godere della vita, dichiarare con il loro corpo di aver avuto un lavoro, di non dedicarsi solo al loro corpo, come fosse l’unica cosa che le donne possono offrire all’umanità.
Ancora ci lasciamo dire come dovremmo essere. Prima l’obbligo alla maternità e poi l’obbligo all’omologazione corporea, alla rinuncia alle armonie uniche che i corpi esprimono quando hanno vissuto.
Io non lo so se Armine è bella o brutta.
So che Armine potrebbe combattere contro la sua bilancia se la genetica non le ha offerto di poter mangiare senza ingrassare mai, e combatte anche contro l’idea assurda che esista un bello oggettivo ed universale.
E forse è arrivato il momento di combattere tutte contro case di moda che impongono alle donne il silenzio sul loro desiderio di vivere, di smagliarsi la pelle cambiando corpo, di sedersi su cuscinetti di ore passate a studiare o lavorare, spesso, per la collettività e non per il proprio conto in banca, come le note case di moda.
Ai grandi stilisti (per lo più guarda caso uomini), è sfuggito che la moda serve per valorizzare i corpi attraverso i tessuti, i colori, le forge, ma chi non ha immaginazione e abilità sufficienti per valorizzare la diversità, omologa ed usa i corpi per valorizzare gli abiti.
Dovevano creare abiti per ogni corpo, ma hanno voluto sfidare l’idea di Dio ed hanno creato corpi: smunti, eterei, sulla soglia della sopravvivenza. Ma veramente pensate che la domanda a cui tentare di rispondere è se Armine sia bella o brutta? La domanda che pare più urgente ed utile è: “ Le donne, possono disporre del loro corpo, o sono ancora al servizio del potere altrui sfidando la morte alimentandosi di briciole e rinunciando alla vita?

SHARE
Previous articleDestigmatizzare gli uditori di voci – Intervista di Peter Breggin, John Read e Alison Branitsky
Next article2020 – Verona. Festival della bellezza e dell’eros o un porno?
La dottoressa Maria Quarato, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta, ha conseguito la laurea in Psicologia Clinica ad indirizzo neuropsicologico a Padova e il titolo di Psicoterapeuta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista. Per anni cultrice della materia ed assistente alla cattedra di Psicologia Clinica e Psicoterapia, dipartimento di Psicologia Generale Università degli Studi di Padova. Ha partecipato ad un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, promosso dal Miur, Ministero Istruzione, Università e Ricerca . Autrice di diversi articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali e nazionali. Membro del comitato Scientifico della rivista " Scienze dell'interazione" Attualmente docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista e Presidente “Ediveria”, Associazione per la ricerca internazionale e la consulenza “dell’udire voci” con sede a Vienna. Da anni si occupa di ricerca e psicoterapia dell’udire voci, di neuropossibilità e complessità esistenziali, di processi migratori e di epistemologia delle scienze cliniche della psiche. www.ediveria.com www.scuolainterazionista.it

LEAVE A REPLY