Aborto: giudicare é sempre ferire

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Maria Quarato

 Aborto: giudicare é sempre ferire

di Maria Quarato
Illustrazione di Georg Pruscha

Il mese scorso é arrivata nel mio studio una giovane Donna, con un dolore straziante che poche volte mi è capitato di vedere, pur facendo questo lavoro da anni.

Una di quelle storie spesso taciute e delle quali, invece, bisognerebbe parlarne il più possibile, perché possano diventare patrimonio per altre donne che come la donna di cui vi parlo, si trovano a dover affrontare la terribile scelta di dare un senso al sentimento in crescita che giace nel suo ventre.  Si è affacciata nel mio studio, in punta di piedi, sul terreno franante della rinuncia momentanea al dono e alla responsabilità che come donne abbiamo ricevuto: quello di usare il grembo per dare sostanza ad una nuova biografia da raccontare. E speriamo sempre si tratti di un racconto di vita, e non di sfida con la morte.

Ma alcune volte ospitiamo nel nostro grembo una combinazione di DNA per cui è chiaro che madre natura si sia distratta ed abbia sbagliato a mescolare gli ingredienti.

Non è raro che madre natura se ne accorga per tempo della propria disattenzione, e richiami a sé un seme destinato a giungere al mondo sotto l’ombra della morte. Tanti gli aborti spontanei taciuti che sottraggono i genitori in divenire alla precarietà esistenziale del figlio che avrebbero tanto voluto.

Ma cosa fare quando madre natura si è distratta per la seconda volta e non corre in aiuto della futura mamma, lasciandole il peso amaro della decisione di un aborto terapeutico ad opera di una mano medica e del cuore in frantumi di chi deve decidere per la vita di qualcun altro?

Conoscevo già questa giovane donna, perché le ero stata vicina quando a 27 anni sceglieva di porre fine a un matrimonio che brillava per convenzione sociale, ma che le faceva intravedere un futuro vuoto di sentimenti. Con un amore nel cuore per un altro uomo si era affacciata nel mio studio perché potessi sostenere con lei il peso dei suoi sogni, rinunciando ad essere brava agli occhi di tutti per poter essere libera di amare uno stalliere che non veniva dal suo stesso mondo borghese, istruito, patinato, ma che parlava la sua stessa lingua dei sentimenti e sapeva starle accanto offrendole una relazione in cui entrambi si sentivano a casa e non uno status sociale per ricevere l’approvazione del mondo. Questa giovane donna mi stava chiedendo allora di tenerle la mano mentre sceglieva l’autenticità del sentire lasciando ad altri il luccichio tarocco del possedere. Tra la paura del giudizio sociale e l’urlo della libertà del suo cuore, pressato dalle convenzioni, l’ho vista prendersi la sua felicità in un volo di libertà. Come non tifare per la nostra eroina dell’amore?!

Ed ecco che ancora una volta, tre anni dopo, l’amore le offre una prova dura da superare nella solitudine di una vita da migrante a Vienna, lontana dalle amicizie e dagli affetti di sempre, ma con accanto l’uomo che tutte sogniamo, ma che spesso non abbiamo il coraggio di scegliere, diventando anime in prestito alle pressioni socio culturali, ed ai valori più beceri che il nostro mondo ci sta offrendo e ci illudiamo che la felicità sia quella di cui parlano negli spot pubblicitari.

Si siede sul divano tra lacrime, singhiozzi e disperazione e mi chiede di raccogliere con lei queste lacrime di piombo che pesano sul suo ventre che presto potrebbe svuotarsi, dopo averle portato gioia per tre mesi. So benissimo che noi psicoqualcosa non possiamo scegliere per i nostri interlocutori e non possiamo usare i nostri valori personali per guidare il sentire di chi ci parla nei nostri studi. Chi lavora in questo modo, si presta al gioco delle scienze psicologiche e psichiatriche come braccio normalizzatore della società. Ma io ho scelto di lavorare al servizio delle persone che soffrono, tutelandone l’unicità, non al servizio di un sistema culturale che chiede sempre più di ridurci tutti a cinque emozioni di base e a biografie replicate dalla televisione.

Lei non ha solo 5 emozioni, e la sua vita è tutta all’insegna dell’autenticità e scegliere è sempre difficile per chi non si affida al già fatto, già detto, già sentito. Parla 5 lingue, è italiana, vive a Vienna, sposa un uomo cresciuto in un altro continente, lavora per un’organizzazione internazionale che tenta di rendere le persone più umane; si sente un ‘assassina per la società e per il suo Dio e un’irresponsabile per i medici che le hanno detto che quel feto non avrà una vita felice, o che forse una vita non l’avrà affatto fuori dal suo ventre. L’incontro smarrita nel tentare di dare un senso coerente al suo stare al mondo. Ha molti punti di vista per leggere il reale. Io non posso scegliere per lei, ma posso starle vicino e crearle intorno il sentimento della condivisione, facendola sentire accolta, compresa, rispettata qualunque sia la sua scelta.

Io e la collega al mio fianco, la dott. E. Fabbri, le chiediamo di raccontarci delle sue paure e scomponiamo quel dolore per vedere di quali parti è composto tra presente incerto e futuro immaginato. Dentro quel dolore c’è un sogno di maternità infranto che lei vive come eterno, come se la gravidanza in corso fosse la sua unica possibilità; c´è il senso di responsabilità, pur di non rinunciare al diventare madre, a condannare un bambino a subire un’operazione dietro l’altra per cercare di garantirgli salute; c’è la paura di non essere idonea alla capacità di donare la vita; c’è il suo alto livello di istruzione e la sua fede in Dio, che non tratta i corpi come carne, ma anime da rispettare e ora non capisce quale sia la strada per rispettare se stessa, il suo bambino, l’uomo che ama e da cui è amata.

Scomponiamo il macigno che le pesa sul petto in frammenti di dolore più piccoli e riesce a guardarli e dare loro un senso: uno per uno. Si acquieta, la strada è più limpida eppure io l’ho solo ascoltata, accolta, sciolti i nodi intricati della matassa dei suoi pensieri senza farle mai sentire la pressione di dover fare la scelta giusta. Come ci fosse una scelta giusta ed assoluta a priori.

Lei sapeva già cosa fare prima ancora di entrare nel mio studio di ascoltatrice di biografie uniche, non replicabili, sapeva quale era la decisione che riteneva più adeguata a sé e per il bambino, ha solo temuto di non avere il diritto di scegliere per sé stessa e per chi si è affacciato in questo mondo nel suo ventre, senza avere abbastanza forza per fronteggiarlo.

Siamo donne in un mondo nuovo, con l’eredità culturale di chi ci ha precedute, che libertà di scelta ne aveva veramente poca. Guadagnarsi il diritto alla scelta contro un Dio e contro la medicina è cosa ardua e faticosa.

La maternità non è un mero fenomeno biologico, o spirituale, ma l’assunzione di responsabilità della vita di qualcun altro, tentando di dare ai propri figli il maggior numero di possibilità per costruirsi una vita adeguata e compatibile con la serenità, in un mondo sempre più complesso. Si può essere madri responsabili anche rinunciando alla maternità, se si anticipa che non si hanno gli strumenti per farlo e che condanneremmo qualcun altro ad una vita di sofferenza. Così come può capitare di non si riuscire mai a sentirsi madri pur avendo partorito più volte.

Nel suo dolore che appariva privato, un’altra volta c’era il terrore di essere considerata sbagliata, di venir giudicata dagli occhi severi di chi pensa che ci sia un modo unico di stare al mondo e lo impone agli altri. Pensieri assoluti e radicali che serpeggiano nella nostra società, incuranti dell’unicità di ogni vita. Alcune vite sono così non convenzionali e ricche di complessità che la psicologia e la cultura di massa a poco servono per rimanere in equilibrio e non e perdere la fiducia in sé stessi.

Sono passati solo due mesi dalla scoperta a Roma del cimitero dei feti in cui qualcuno ha ritenuto opportuno violare la dignità del dolore privato di un aborto, seppellendo i feti con rito cristiano e riportando sulle croci di sepoltura il nome della donna che aveva scelto di interrompere la gravidanza. Donne trattate non come essere umani che meritano il rispetto delle proprie scelte, ma incubatrici riluttanti o malfunzionanti.

Ecco come un dolore privato è generato da una collettività sempre più pressante e dogmatica che non riesce ancora a proteggere il valore della libertà di scelta e dell’unicità di ogni vita e delle sue ragioni private, alcune volte taciute per vergogna.

In questa storia che vi racconto, l’importante non è che cosa abbia scelto di fare la nostra eroina dell’amore, ma che si sia sentita libera di scegliere senza temere di essere sbagliata, e che abbia colto che l’unica scelta sensata da fare era in funzione delle sue risorse, desideri e valori.

Se solo si imparasse ad accogliere, comprendere e a non giudicare le vite altrui diverse dalle nostre, tendendo una mano, piuttosto che puntare un dito e se solo si insegnasse che sbagliare è parte del nostro percorso per diventare persone migliori, le lacrime versate di tutti, sarebbero d’oro e non di piombo.

 

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La dottoressa Maria Quarato, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta, ha conseguito la laurea in Psicologia Clinica ad indirizzo neuropsicologico a Padova e il titolo di Psicoterapeuta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista. Per anni cultrice della materia ed assistente alla cattedra di Psicologia Clinica e Psicoterapia, dipartimento di Psicologia Generale Università degli Studi di Padova. Ha partecipato ad un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, promosso dal Miur, Ministero Istruzione, Università e Ricerca . Autrice di diversi articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali e nazionali. Membro del comitato Scientifico della rivista " Scienze dell'interazione" Attualmente docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista e Presidente “Ediveria”, Associazione per la ricerca internazionale e la consulenza “dell’udire voci” con sede a Vienna. Da anni si occupa di ricerca e psicoterapia dell’udire voci, di neuropossibilità e complessità esistenziali, di processi migratori e di epistemologia delle scienze cliniche della psiche. www.ediveria.com www.scuolainterazionista.it

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