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di Maria Quarato
Cipriano l’ha chiamato “Esercizi di ego dissoluzione” il suo ultimo libro, ma potremmo anche chiamarlo “solvente di rigidità del pensiero collettivo”, operazione necessaria soprattutto in questo momento in cui il collettivo mina la libertà individuale, con ragioni che non sono chiare a tanti.
L’ha chiamato anche “Il libro bolañiano dei morti ”: sembra essere invece il libro che ci permette ancora di sentirci vivi, e possibili, e umani, pensanti.
Un testo che raccogliere il suo essere, come sempre, riluttante alle logiche mediche convenzionali negli aspetti che riguardano il pensiero umano.
È uno psichiatra, dice, gli hanno detto, quando gli hanno conferito il titolo di specializzazione; ma scrive come uno che delle categorie diagnostiche del pensiero umano, che gli hanno insegnato a medicina, non sappia proprio cosa farsene: più propenso a costruire libertà che norme del pensiero.
In prima linea a contestare il manicomio chimico negli anni scorsi, ancora in prima linea a contestare la dittatura sanitaria che imperversa nel mondo.
Un libro che non ha pretesa di essere soluzione alle prigioni che la scienza sta costruendo intorno alle nostre umanità, ma ci offre la possibilità di aprire finestre dalle quali far prendere aria al pensiero accartocciato da mesi di terrorismo mediatico e scientifico.
Ci parla del paradigma scientifico che afferma di voler proteggere i nostri corpi dal virus, ma ci sta facendo pagare questa protezione con l’amputazione del pensiero, con l’impossibilità a sollevare dubbi, anche fantasiosi alcune volte, ma pur sempre preziosi dubbi.
Con la parola “negazionismo” hanno inventato la castrazione cerebrale. Neanche la lobotomia ambiva ad un’operazione così collettivamente estesa.
Chi smette di dubitare ha smesso di pensare, proporre soluzioni nuove, innovative, forse più utili del pensiero stantio che ha medicalizzato le relazioni interpersonali; questa è una condanna molto più infausta di un virus ad alta trasmissibilità.
Ma la storia ci insegna che, scoperte alcune norme biologiche, garantite dalle prassi mediche, si è tentato di medicalizzare il maggior numero di aspetti umani.
Abbiamo medicalizzato le nascite e non possiamo neanche più partorire in piedi come istinto e leggi della gravità suggeriscono alle puerpere: il medico ci preferisce stese per star comodo.
Abbiamo medicalizzato la sofferenza come non appartenesse all’umano: da campanello d’allarme per cambiare rotta esistenziale è diventata un difetto del quale sbarazzarsi con gli psicofarmaci, silenziandolo. Utile ricordare che se silenzi il dolore, non hai più il sonar per cercare le sinfonie al posto del rumore, ma sicuro non disturbi il prossimo.
Abbiamo medicalizzato il piacere corporeo, dopo averlo reso oggetto delle regole morali, riducendo l’estasi del mescolarsi la carne e gli umori, attivarsi i sensi, scardinare le barriere della pelle, al mero raggiungimento di un orgasmo misurato e funzionale alla riproduzione o a prestazioni da porno divi.
Abbiamo medicalizzato la scuola e i processi di apprendimento, standardizzato i metodi di insegnamento, e chi non apprende con i metodi imposti, viene diagnosticato come “malfunzionante” , grazie ai colleghi che non capiscono le menti complesse, originali e le mettono nel calderone dei “difetti di fabbrica”.
Abbiamo medicalizzato la genitorialità, come ci fosse un solo modo di essere padre e madre.
Abbiamo medicalizzato anche la bellezza, che è un soffio di gioia tra l’occhio e quanto si osserva e l’abbiamo messa al microscopio per cancellare rughe, cellulite, singolarità genetiche che non conoscono regole di educazione visiva.
Abbiamo medicalizzato anche i sentimenti: regno dell’incertezza e della passione, attraverso i manuali psicodiagnostici e le psicopillole.
Avviati su questo panorama di gestione dell’umano, la medicalizzazione dei rapporti interpersonali era una strada già tracciata quando è arrivato il virus, e di umano rimarrà poco fintanto che le persone saranno al servizio della medicina e non il contrario.
Non ho nulla contro la medicina, ho da contestare, invece, che abbia la pretesa di avere risposte adeguate per ogni aspetto umano.
Viviamo ormai con la proposta sociale di costruirci come umanoidi perfettamente funzionanti. Come tanti “uomini di latta “ del Mago di Oz.
È sarà sempre più questo il nostro futuro se non ci concediamo, antropologicamente parlando, anche il diritto di essere imperfetti, morti, instabili, pensanti, brutti, dubbiosi, incerti, inquieti, asimmetrici, volatili, transitori, fragili.
Ecco cosa ci concede il libro di Cipriano, scritto tra le pareti del grande trattamento sanitario obbligatorio: la possibilità di poter volare fuori dalla finestra di stanze con porte sbarrate, aggrappati ad un dubbio costruttivo. Un grande dono quando tutto il mondo urla “state a casa”, dimentichi che per tanti, una casa, non è un posto sicuro.
Anche lo stile narrativo di Cipriano si sgretola per ricomporsi scardinando le regole stilistiche, e ne inventa altre, e se non sei disposto ad andare giù per lo scivolo senza virgole, rimani ancorato all’ultimo gradino della scala rinunciando all’adrenalina dell’incerto, al valore edificante del dubbio e al gusto della lettura.
È un libro che parla anche di medicina e scienza, senza orpelli tecnici, ed è destinato a chi sa che la scienza è solo uno dei tanti modi possibili per leggere la realtà. Chi si concede altre possibilità conoscitive ed esplicative, ed accetta il valore del dubbio, entra nel mondo della libertà di scelta. Responsabilità a cui non rinunciare, per evitare le prigionie del pensiero dogmatico.
Un libro costruito sul paradigma della complessità, e non manca di citare antropologi, chimici, sociologi, sciamani, storici, filosofi, psicoqualcosa, e qualche altro avventuriero del pensiero.
Forse non troverete risposte in questo libro, ma sicuro avrete domande nuove. E come sappiamo le domande aprono al dialogo. Il luogo dell’incontro con l’Altro, che è quello di cui abbiamo veramente bisogno dopo mesi di isolamento sanitario e medicalizzazione dei rapporti interpersonali.