Sindrome da astinenza post-acuta – L’ultima fase del processo di guarigione è diventata l’ultima fase della vita.

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Laura Guerra

Ringraziamo la nostra collega Monique Timmermans di Mad in the Netherlands per aver condiviso con noi la sua toccante intervista ad Anniek Lemmens, rilasciata prima di morire per eutanasia, in cui spiega il perché della sua drammatica scelta.

Anniek ha scelto l’eutanasia non perché volesse morire, ma perché non poteva più vivere.

Anniek racconta di non essere stata sostenuta adeguatamente nella sospensione degli psicofarmaci dal suo psichiatra, come succede a molte persone, e i sintomi di astinenza sono stati sottovaluti, scambiati per una “ricaduta” del disturbo che le aveva fatto intraprendere l’uso degli psicofarmaci e trattati con nuovi psicofarmaci, con il peggioramento del suo stato di sofferenza estrema.

Va chiarito che effetti di astinenza così importanti e devastanti non sono la regola quando si sospendono gli psicofarmaci, ma possono verificarsi, specialmente quando il processo di sospensione non è condotto in modo appropriato.

Le testimonianze delle persone che denunciano questo tipo di problemi, riferiscono che i medici prescrittori non sono ancora adeguatamente informati e preparati per gestire il processo di sospensione degli psicofarmaci in modo sicuro.

Le persone si trovano quindi in assoluta solitudine ad affrontare i sintomi di astinenza non riconosciuti dai curanti, e altri terribili sintomi come le reazioni di kindling, supersensibiltà, acatisia e altro ancora, causati da trattamenti inopportuni.

Molte di queste situazioni sono spiegate nel nostro libro SOSPENDERE GLI PSICOFARMACI: COME E PERCHE, uscito a marzo, insieme all’esposizione di metodi di sospensione degli psicofarmaci che permettono di evitare questi problemi.

Sindrome da astinenza post-acuta (PAWS, Post Acute Withdrawal Syndrome) – L’ultima fase del processo di guarigione è diventata l’ultima fase della vita.

By Monique Timmermans di Mad in the Netherlands 

In che modo la persistente e insopportabile sofferenza dovuta all’astinenza prolungata da farmaci antipsicotici per il sonno ha portato all’eutanasia

Sono felice di rivedere Anniek (40 anni). Sembra più fragile della scorsa primavera. Vedo che sta soffrendo. Quando la abbraccio, sento che i nostri sistemi nervosi reagiscono con un profondo sospiro di rilassamento dato dal reciproco riconoscimento. Avrei potuto esserci io al posto suo e lei al posto mio.

Quattro anni fa ci trovavamo nello stesso punto in una situazione di orrore disumano a causa della riduzione graduale (forse troppo repentina) di un antipsicotico e, nel caso di Anniek, anche di un antidepressivo. Oggi, da redattrice di Mad in the Netherlands, senza fare più ricorso ai farmaci, con ancora un discreto numero di disturbi da astinenza ma anche con una buona qualità della vita, mi trovo in compagnia di una cara amica alle prese con la riduzione graduale di farmaci per scrivere di lei prima della sua morte per eutanasia a causa delle continue sofferenze a cui è sottoposta.

È importante sottolineare che non morirà perché vuole morire. Morirà perché non può più vivere così.

Questa storia parla di come indicazioni errate nel percorso di riduzione graduale dei farmaci e una rappresentazione errata della realtà possano causare enormi danni alle persone. È una storia di natura conciliante ed è un invito ad agire insieme, nonostante vi siano senza alcun dubbio dei fatti contestabili ai medici prescrittori.

Perché le conseguenze per Anniek e i suoi cari, con la sua morte imminente saranno più gravi di quelle per i medici prescrittori che dovranno fare i conti con la sensazione di non essere stati adeguatamente informati e quindi di aver troppo spesso fornito ai pazienti informazioni errate e di non averli curati con sufficiente attenzione.

Possiamo affermare che tutti noi facciamo parte dello stesso sistema soffocante in cui siamo intrappolati e continueremo ad esserlo finché non avremo il coraggio di decidere insieme di fare le cose diversamente. Per Anniek, tutte le vittime degli psicofarmaci prescritti e i loro cari.

Monique Timmermans – 1° febbraio 2024

Monique Timmermans: Ti conosco da quando la riduzione graduale dei farmaci è iniziata ad andare di male in peggio. Com’era stata la tua vita prima di allora?

Anniek Lemmens: Sono di natura un tipo di persona che ama l’avventura. Nonostante le difficoltà incontrate nella vita, mi sono sempre occupata delle attività più disparate. Mi piace avere contatti con gli altri, i cambiamenti e avere un po’ di casino intorno a me.

Nel biennio 2009-2010 ho passato un periodo davvero difficile. Fu allora che, dopo aver provato vari farmaci, mi furono prescritti la quetiapina (Seroquel) e il citalopram (Seropram, Elopram). Ma subito dopo sono riuscita a rimettermi in carreggiata. Mi manca tantissimo la vita che facevo prima di ridurre i farmaci e soprattutto i vari ruoli che ricoprivo. Mi piaceva fare la zia, studiare e lavorare, uscire con gli amici, andare a correre, suonare con altre persone e fare lunghe passeggiate con i cani da compagnia. Amavo cucinare, preparare pietanze al forno e scattare foto…

Abbiamo fatto un collage di ricordi di quel periodo, è in camera. All’inizio era davvero difficile guardarlo. Mi faceva star male vederlo. Mi capita ancora di fare foto. Non posso più fare molte altre cose, anche insignificanti, che rendevano la mia vita degna di essere vissuta come desideravo. Ad esempio, mi è sempre piaciuto lavare i piatti insieme a mio marito. Ora sono costretta a indossare delle cuffie per filtrare i rumori e stare sdraiata in poltrona mentre lui pulisce in cucina.

Monique: La persona che descrivi è davvero diversa dall’Anniek che conoscevo. Ti va di raccontare qualcosa sulla tua esperienza nel settore della salute mentale prima di iniziare la fase di riduzione dei farmaci?

Anniek: A 16 anni fui ricoverata per la prima volta in ospedale dove mi vennero prescritte paroxetina (Sereupin, Daparox) e fluoxetina (Prozac). Non mi fecero bene. Nel caso della fluoxetina, è stato recentemente dimostrato che è l’effetto placebo e non il farmaco in sé ad essere responsabile dell’eventuale guarigione dalla depressione negli adolescenti.

Oggigiorno la paroxetina non viene più prescritta ai più giovani perché questo farmaco può portare al suicidio. E giustamente, perché questi farmaci mi hanno fatto fare cose che non avrei mai fatto. Ad esempio, mi è capitato di attraversare un incrocio trafficato ad occhi chiusi.

Anche il ricovero in quell’istituto non mi fece bene perché non erano in grado (?) di offrire alcuna terapia oltre alla prescrizione di farmaci psicotropi.

Mio padre era gravemente malato e stava per morire e i contatti con mia madre in quel periodo erano ancora difficili. Fu allora che tentai il suicidio. Penso che siano stati i farmaci che assumevo a spingermi a farlo anziché proteggermi. È strano che si presti attenzione agli effetti dell’alcol sul cervello degli adolescenti ancora in via di sviluppo, mentre la prescrizione di questi farmaci non viene quasi messa in discussione.

Dopo il ricovero andai a vivere presso una famiglia adottiva. Quando mio padre morì sei mesi dopo, smisi subito di assumere quel farmaco e per una settimana ebbi sintomi di astinenza. Nel biennio 2009-2010 non stavo bene a causa di un mix di insonnia estrema, una grave diminuzione dell’autostima, battute d’arresto in vari ambiti e una parziale perdita della mia rete di sicurezze. Fu così che finii in un reparto di crisi con l’obiettivo di “adattarmi ai farmaci”.

Date le condizioni e le circostanze in cui mi trovavo all’epoca, sentivo di avere ben poca scelta su ciò che mi veniva prescritto. In quel periodo ho provato vari farmaci, che inizialmente sono riuscita ad eliminare abbastanza facilmente. Fu allora che iniziai a prendere la quetiapina (Seroquel) per dormire meglio, oltre al citalopram.

All’epoca, le benzodiazepine erano sconsigliate per questi casi (a causa del rischio di dipendenza). Ecco perché all’epoca i medici prescrivevano con sempre maggiore frequenza la quetiapina off-label (un antipsicotico in grado di contrastare l’ansia) per i problemi legati al sonno. Ciò che mi rammarica è di non essermi resa conto della gravità di un farmaco del genere e di aver assunto anche 200 mg in 3 giorni.

Riuscivo a dormire bene anche quando prendevo ne solo 50 mg il primo giorno, stando a quanto riportato nella mia cartella clinica. Questa dose è stata aumentata come previsto. Con la consapevolezza attuale di quanto sia difficile eliminare gradualmente un farmaco, quei 150 mg in più che non erano necessari fanno ancora più male. Soprattutto perché è ormai noto a tutti che le donne reagiscono agli antipsicotici in modo diverso dagli uomini (de Boer, Brand, Sommer 2022).

Ci tengo però a precisare che non sono affatto contraria all’assistenza psichiatrica. Avendo notato che la mia salute era migliorata, ho sostenuto con convinzione il sistema della salute mentale per anni. Ho fatto esercizi di mindfulness, mi sono sottoposta alla CBT (terapia cognitivo-comportamentale), alla PMT (terapia psicomotoria), alla terapia dell’esposizione, all’EMDR, all’ACT (terapia di accettazione e impegno), alla terapia sistemica, alla terapia dell’esercizio fisico e dello stile di vita, all’attività graduata e al supporto tra pari, compreso il WRAP (Wellness-Recovery-Action-Plan).

Grazie a una serie di terapie e fattori sociali, sono riuscita a sviluppare un’immagine positiva di me stessa e una capacità di recupero che mi hanno permesso di tornare a vivere. Nel corso degli anni, le diagnosi sono scivolate via una dopo l’altra. Quasi tutti i disturbi di cui soffrivo erano in completa remissione. Ma continuavo ad assumere ancora farmaci (quetiapina, citalopram) perché soffrivo di gravi sintomi di astinenza ad ogni tentativo di disintossicarmi. Nonostante il mio stile di vita fosse sano, soffrivo di disturbi fisici. Ho potuto ricondurre questi disturbi agli effetti collaterali dei farmaci indicati nei foglietti illustrativi.

Quando sono riuscita a ridurre un po’ i dosaggi, ho avvertito un miglioramento immediato del mio stato di salute. Per questo motivo, nel 2019, ho deciso di ricominciare a ridurre gradualmente i farmaci. Ho fatto davvero di tutto per rendere la mia situazione il più possibile ottimale per far sì che questa volta funzionasse.

Monique: Come hai affrontato la riduzione graduale dei farmaci?

Anniek: Mi ero data sei mesi di tempo per sottopormi ad automedicazione. Il motivo per cui volevo ridurre gradualmente le dosi di farmaci era chiaro. Avevo anche messo a punto un piano WRAP, cercato un sostegno e creato una specie di mappa per le crisi mentali dovute ai sintomi di astinenza.

Ero super motivata ad iniziare la riduzione graduale dei farmaci. Ero perfettamente consapevole del fatto che non sarebbe stata una passeggiata. Per questo ho anche chiesto al mio psichiatra di non essere “troppo debole” con me ed aiutarmi a perseverare quando le cose sarebbero diventate difficili. Col senno di poi, me ne sono pentita…

Monique: Stai dicendo che non volevi che fossero “troppo deboli” con te durante la fase di riduzione posologica graduale?

Anniek: Esattamente! Tra ottobre 2019 e gennaio 2020 ho ridotto gradualmente il citalopram con le tapering strip. Ho documentato i miei sintomi utilizzando dei moduli di automonitoraggio. Soffrivo di malinconia, stanchezza, dolori, sonno insufficiente e alimentazione incontrollata.

Avevo notato che il mio corpo doveva mettercela tutta per rimanere in equilibrio. Non mi sembrava strano dopo 10 anni di assunzione di farmaci. Mi ha aiutato il fatto di essermi messa in aspettativa durante il periodo di riduzione posologica graduale. Ciò ha reso la progressione relativamente buona.

Il mio psichiatra non mi ha mai chiesto i moduli di automonitoraggio perché pensava che non avessi sintomi di astinenza o recidive di disturbi legati all’ansia o all’umore. Ma li avevo. Ora che so quanto sia importante prendere sul serio questi sintomi, mi rendo conto che forse avrei dovuto prendere l’iniziativa e informare meglio lo psichiatra dei miei sintomi così da poter optare per un programma di riduzione posologica più lento.

È possibile che, proprio perché ho mantenuto un atteggiamento così forte e non mi sono lamentata più di tanto, alcuni segnali gli siano sfuggiti e non siano stati approfonditi come avrebbero dovuto. Tuttavia, mi chiedo se fosse cambiato qualcosa. Perché quando tra febbraio e aprile ho smesso di assumere la quetiapina (anche con riduzione posologica graduale) e gli dissi che le cose non andavano bene, non vi fu una reazione adeguata.

Nel primo mese soffrivo di stanchezza, sonno insufficiente, incubi, mal di testa, fiacchezza, tristezza e crisi di pianto. La riduzione posologica graduale dell’antipsicotico è stata per me più difficile di quella dell’antidepressivo.

Nel secondo mese si sono aggiunti dolori muscolari, mal di schiena e stanchezza estrema.

Inoltre, nel terzo mese sono diventata facilmente sovrastimolabile, soffrivo di crampi e vertigini, avevo problemi di concentrazione, non vedevo più con la nitidezza di prima e dormivo pochissimo, il che mi rendeva sempre più instabile. Eventi che normalmente riuscivo a gestire bene erano diventati improvvisamente troppo gravosi per me a causa dei gravi sintomi di astinenza.

A un certo punto ho chiesto il ricovero perché stavo troppo male per reggermi in piedi, stare seduta, mangiare o bere. Il mio grido di aiuto non è stato ascoltato. Secondo il mio psichiatra, non potevo essere ricoverata senza motivi validi ed avrei dovuto resistere ancora per un po’. Allora mi sono fatta nuovamente coraggio ignorando tutti i chiari segnali che mi stava inviando il mio corpo.

Sono andata avanti grazie ad un calendario da cui potevo strappare un foglio diverso ogni giorno dando per scontato che dopo quei sessanta giorni terribilmente lunghi la mia qualità di vita sarebbe migliorata. Ho preso la “scienza” del mio psichiatra più seriamente dei segnali che mi inviava il mio corpo. Concentrandosi sulla mia instabilità psicologica, lo psichiatra stava ignorando completamente la causa che mi stava privando della mia capacità di recupero rendendomi sempre meno capace di farcela, vale a dire la sospensione dei farmaci.

Per esempio, secondo lo psichiatra, ero instabile perché il mio gatto era malato. Ma ero talmente scombussolata dai sintomi dell’astinenza che non riuscivo ad affrontare la visita dal veterinario e reagivo in modo estremamente instabile. Non ero in grado di dare al mio gatto ciò di cui aveva bisogno. Questo mi infastidiva e avevo cercato di farglielo capire.

L’aver affrontato l’astinenza “non troppo debolmente” è stato il punto cruciale. I moduli di automonitoraggio servono a garantire che il professionista sanitario possa accorgersi in tempo se durante l’astinenza siano comparsi nuovi sintomi o se quelli esistenti stiano peggiorando. Se ciò accade, si può discutere su quale sia la cosa migliore da fare: ridurre la dose di farmaco più lentamente, stabilizzarsi sulla stessa dose per vedere se i sintomi diminuiscono o scompaiono a sufficienza, passare all’ultima dose con cui le cose andavano bene o non continuare a ridurre ulteriormente il dosaggio.

Se i sintomi peggiorano, la cosa che non si deve fare è continuare comunque a ridurre la dose. E ciò che non va bene è che il medico cada nella trappola di pensare “ho a che fare con una persona psicologicamente instabile, quindi la causa dei disturbi è questa e non l’astinenza”.

Ciò che giustifica la personalizzazione del processo di sospensione di un farmaco è offrire la possibilità di una riduzione del dosaggio più tranquilla perché è noto che è proprio alle dosi più basse che la riduzione risulta più difficile. Le probabilità di successo di una riduzione del farmaco graduale aumentano se si possono ridurre le dosi in un periodo di tempo più lungo.

Mi sono sentita in colpa per molto tempo. Pensavo che ero stata io a dire che non volevo che mi si trattasse “troppo debolmente” e pertanto era colpa mia se non riuscivo più riprendermi.

Monique: Non sei stata forse un po’ troppo dura con te stessa? Non è forse normale dare per scontato che uno psichiatra che sa come prescrivere delle pillole sappia anche come smettere di prenderle in modo sicuro? Ti hanno prescritto la quetiapina off-label, cioè non perché fossi incline alla psicosi ma per poter dormire. Non si tratta di una cosa che avresti fatto per il resto della vita, no? A mio parere, è per questo motivo che non si dovrebbe prescrivere ripetutamente un farmaco del genere. Soprattutto se non sai come ridurne il dosaggio in modo sicuro e tempestivo per il paziente.

Anniek: Non voglio essere così categorica. Naturalmente, non tutti hanno disturbi così estremi come quelli che ho io ora. Avevo pianificato ogni cosa affinché tutto andasse nel miglior modo possibile e ho alzato troppo l’asticella. Ero disposta ad andare fino in fondo per superare l’astinenza. Il mio psichiatra mi aveva spiegato che i sintomi dell’astinenza durano solo per poco tempo. Ecco perché continuavo a pensare che dovevo tenere duro e resistere.

A posteriori, è stata la cosa più stupida che potessi fare. Quei sintomi di astinenza erano effettivamente rilevanti. A posteriori do la colpa al mio psichiatra, che si è nascosto dietro delle linee guida basate su una “scienza” datata per cui l’astinenza alla fine viene dipinta come un qualcosa che non è poi così grave. Come medico prescrittore, nel momento in cui i miei sintomi erano così gravi, avrebbe potuto agire fuori dalle linee guida cercando in prima persona informazioni che in effetti erano già disponibili allora.

Affidandosi completamente alle linee guida, si rischia di non prendere sufficientemente sul serio i casi in cui le cose non vanno per il verso giusto, come il mio caso. Il mio psichiatra sembrava particolarmente attento ai disturbi psicologici che sarebbero potuti riapparire con la sospensione graduale dei farmaci perché in precedenza questi disturbi erano stati soppressi.

Il fatto che non avessi tendenze suicide o che non avessi sviluppato alcuna psicosi erano dei segnali più importanti dei disturbi fisici manifestati. Non ho mai avuto psicosi, il farmaco mi era stato prescritto per dormire. Il fatto che non abbia avuto ricadute nella psicosi non deve pertanto sorprendere. I disturbi di cui soffrivo erano considerati fastidiosi ma insignificanti. Venivano annoverati tra i disturbi somatici che in precedenza avevo addotto come motivo per interrompere la terapia. Ma le cose non erano affatto paragonabili.

I sintomi (fisici) dell’astinenza erano davvero molto diversi e intensi. Il fatto che io sia riuscita a resistere dimostra più la mia forza di volontà che l’intensità di quei sintomi. Pertanto ci tengo a sottolineare quanto sia importante prendere molto sul serio questo tipo di indicazioni.

Se si reagisce in tempo, ci sono buone probabilità che, con un adeguamento minimo del programma di riduzione graduale del farmaco, ci si possa ristabilizzare completamente. È una responsabilità congiunta di chi prescrive il farmaco, della persona in fase di distacco graduale dal farmaco e dei suoi familiari.

È importante che tutte le parti siano coinvolte. Da professionista sanitario, il medico prescrittore assume un ruolo di primo piano.

Monique: In tutti i blog, in tutti gli articoli e in tutti i video dedicati alla riduzione graduale dei farmaci e all’astinenza, si consiglia di non interrompere mai la terapia senza aver prima consultato il proprio medico curante. Data la gravità dei tuoi e dei miei sintomi di astinenza, non posso che essere d’accordo.

Ovviamente, è importante che i medici prescrittori si informino sulle informazioni recenti disponibili e non si affidino ciecamente alle linee guida, soprattutto quando queste non seguono le ultime scoperte scientifiche, come argomentato dalla Stichting Pill nella sua risposta al documento multidisciplinare del 2023 intitolato “Afbouwen Overige Antidepressiva” (La riduzione graduale di altri antidepressivi).

Ad esempio, i siti www.theinnercompass.org e www.survivingantidepressants.org contengono una grande quantità di informazioni preziose accumulate tramite l’esperienza diretta. Sul nostro sito è disponibile un video informativo molto chiaro dell’IIPDW su come ridurre gradualmente la dose di farmaci in tutta sicurezza e sui sintomi dell’astinenza realizzato dal ricercatore clinico ed esperto dott. Mark Horowitz. La Vereniging Afbouwmedicatie (Associazione per la riduzione graduale dei farmaci) ha prodotto un documento in cui sono elencate le varie opzioni per ricevere dei farmaci personalizzati (www.taperingstrip.it).

Durante la fase di riduzione graduale dei farmaci, sei riuscita a sopportare i sintomi dell’astinenza con la tua forza di volontà perché lo psichiatra ti aveva detto che sarebbero stati solo di breve durata. Aveva ragione lui?

Anniek: Dopo aver assunto l’ultima pillola, ho ricevuto un biglietto d’auguri da mia suocera. Si congratulava con me augurandomi di affrontare con successo il “nuovo periodo”, il che la dice lunga su come mi sentissi in quel momento. Quando ho smesso di prendere le pillole, ero per lo più completamente esausta. Un termine che mi veniva spesso in mente involontariamente era “naufraga”. Mi sentivo come una naufraga. Tuttavia, riuscivo ancora a incontrare altre persone per parte della giornata, a partecipare un po’ alla vita domestica, a guidare, andare in bicicletta e a camminare per brevi tratti.

Non si era ancora verificata alcuna grave sovrastimolazione uditiva e visiva, né avevo avuto crisi di pianto. Avevo tuttavia notato un netto peggioramento della stanchezza cronica con cui ero riuscita a convivere per anni con i farmaci.

Nel periodo compreso tra aprile 2020 (quando presi l’ultima pillola) e agosto (4 mesi dopo), non ero così preoccupata. Avevo la sensazione che i sintomi di astinenza residui sarebbero scomparsi. Le aspettative nei miei confronti non erano ancora elevate, quindi riuscivo ancora a fare alcune cose come ad esempio offrirmi occasionalmente come volontaria per tenere un corso sulla riduzione graduale dei farmaci presso il Bij Enik Recovery College.

Nel frattempo avevo cambiato idea sul contenuto del programma di auto-aiuto che avevo scritto. Non volevo dare indicazioni ai partecipanti, ma sentivo sempre più il bisogno di metterli in guardia sul tema della riduzione graduale dei farmaci.

L’8 agosto 2020 ho notato per la prima volta qualcosa che non funzionava nella mia testa. Quel giorno ero andata a trovare mio cognato insieme a mio marito ed ai suoi genitori. Durante il tragitto in macchina, mi sentivo già esausta come mai mi era successo fino a quel momento. Non riuscivo più a seguire le conversazioni, non riuscivo a concentrarmi, non avevo più concentrazione. I muscoli del viso e della testa erano così contratti che non riuscivo più ad avere espressioni facciali. Ho dovuto sdraiarmi sul letto a casa loro. Di solito dopo essermi sdraiata un po’ mi riprendevo.

Quella volta invece sono scesa in soggiorno dopo circa un’ora, ma nella mia testa non era cambiato nulla: era come se non funzionasse nulla. Da quel momento sono peggiorata molto rapidamente. Il 9 è iniziato il mio percorso di riabilitazione da Winnock. Il corso di attività graduale mi piaceva molto, mi dava molti più appigli di quelli che avevo trovato nella psicosomatica nel sistema di igiene mentale.

Ma ben presto ogni attività, per quanto breve, si rivelò eccessiva. La prima settimana sono ancora riuscita a percorrere i 4 km di distanza con la mia bici normale. La seconda settimana ho dovuto prendere la bici elettrica e sono riuscita a malapena a pedalare per quel tratto (prima di iniziare la riduzione graduale dei farmaci, pedalavo facilmente per 50-100 km a settimana con la bici normale).

Alla fine della seconda settimana, non riuscivo più a stare nel gruppetto dei quattro. Non riuscivo più a stare seduta. Riuscivo solo a sdraiarmi e a piangere. Ma non erano lacrime di tristezza, semplicemente non capivo più nulla. Piangevo perché ero esausta.

Monique: So perfettamente a cosa ti riferisci. Io mi aspettavo di sentirmi molto meglio dopo sei settimane di “disintossicazione”. Ma è stato il contrario. Ero più malata che mai. Sette mesi dopo ho iniziato un percorso di riabilitazione. In parte si trattava di esercizi. Invece di aumentare la mia forza, le cose peggioravano ogni giorno di più. Riuscivo a fare sempre meno esercizi, con meno frequenza e per meno tempo. Ero intrappolata in una spirale di pura negatività.

Fortunatamente abbiamo deciso di comune accordo che era chiaramente troppo presto per allenarmi e ci siamo concentrati maggiormente sulla mindfulness, sull’individuazione di cosa mi dava energia e cosa me la sottraeva, su cosa ritenevo importante, prendendo coscienza del mio corpo ed esercitando la dolcezza. Avevo anche una psicologa molto valida che aveva capito la mia rabbia e lasciava che mi sfogassi.

Spesso passeggiavamo fuori, nel parco. Riuscivo a farlo. E mi hanno anche insegnato come autogestirmi. A capire i segnali del mio corpo e a reagire indipendentemente da ciò che pensano gli altri. Credo che, oltre a continuare a ridurre la dose nonostante il corpo mi indicasse chiaramente che stavo esagerando, questo sia stato un altro momento cruciale della serie “o la va o la spacca”. È stato così anche per te?

Anniek: Sì. Nel settembre di quell’anno sono andata in vacanza in un’isola nel nord dell’Olanda con mio marito per qualche giorno. A quel punto non riuscivo già più ad andare in bicicletta. Riuscivo ancora a camminare un po’, a sedermi in autobus e ad andare a mangiare fuori insieme. Per l’ultima volta, ma all’epoca non lo avrei mai immaginato… Abbiamo fatto del nostro meglio per goderci questa vacanza. In treno, tornando a casa, arrivò il colpo di grazia. Mi sentii di nuovo quella stanchezza immensa addosso che non mi faceva né pensare né fare alcunché.

Da quel momento non ho fatto che peggiorare in modo pazzesco ed è iniziata anche la lotta per avere delle cure adeguate. Mi ammalai a tal punto che non potevo più sedermi, stare in piedi, mangiare e bere. Una conversazione di un quarto d’ora era già troppo per me. In pochi mesi persi circa 8 chili. Oltre a ricevere del cibo liquido, non ho ricevuto praticamente altri aiuti.

La mia paura e la mia ansia aumentavano a causa dell’estrema intensità della mia malattia, che non veniva riconosciuta a sufficienza. Non capivo cosa mi stesse succedendo. Non avevo mai vissuto nulla di così intenso e sentivo che mi stavo danneggiando ed ero sopraffatta da un gigantesco esaurimento e da forti dolori.

Con mia grande costernazione e tristezza, sono stata anche rimproverata dagli operatori sanitari e abbandonata a me stessa. Non posso dire se ciò fosse dovuto alle linee guida che prevedevano che non avrei avuto alcun disturbo grave a lungo termine dopo la riduzione graduale dei farmaci o piuttosto al mio passato, il che dava automaticamente per scontato che si trattasse di un problema di natura “psicologica”.

Credo che agosto e settembre siano stati i mesi più critici. Se mi avessero consigliato di riprendere i farmaci il prima possibile, forse sarei riuscita a fermare il progressivo peggioramento in tempo. Non ci sono parole per descrivere come sono stata male da settembre a gennaio. Non credo che sarei sopravvissuta se alla fine non avessi iniziato a riprendere i farmaci.

Monique: Capisco quello che stai dicendo. Stranamente ho la sensazione opposta, cioè che non sarei sopravvissuta se avessi continuato ad assumere quelle pillole. Allora avevo letto dai resoconti di altre persone affette da acatisia che quando si riparte da un sistema nervoso centrale disturbato dopo un periodo prolungato senza farmaci (più di un mese), le conseguenze variano da una persona all’altra.

Per me, ricominciare era impensabile. Il mio corpo reagiva in modo così estremo a ogni minima sostanza che avevo paura di aggiungere qualsiasi altra cosa di cui non potevo prevedere l’effetto. Eppure conosco persone che non hanno avuto quasi nessun problema di astinenza quando hanno ricominciato ad assumere la quetiapina dopo un’interruzione di quasi 2 anni.

E conosco anche persone in cui l’astinenza si è bloccata (non è migliorata né peggiorata). So solo che sto migliorando anche senza riprendere i farmaci. Dirlo così mi fa sentire in colpa nei tuoi confronti. Al tempo stesso, so quanto ho sofferto anch’io e quanto mi ci è voluto per arrivare al punto in cui mi trovo ora. Tutto ciò mi sembra semplicemente ingiusto. Anche tu ce l’hai messa tutta…

Comunque, a quanto pare, non esiste una risposta unica all’astinenza estrema di cui abbiamo sofferto dovuta ad un abbandono del farmaco troppo repentino. Nel tuo caso, dici che non ce l’avresti mai fatta senza farmaci. Quindi ricominciare era l’unica tua possibilità.

Anniek: Purtroppo ho impiegato più tempo del necessario per ricominciare. Ho cercato di risolvere il problema dall’inizio di ottobre 2020 rivolgendomi innanzitutto al mio ultimo psichiatra. Che mi sconsigliò di ricominciare, così come un collega del reparto di farmacogenetica.

A novembre ho chiesto informazioni a un farmacista e anche lui mi sconsigliò di ricominciare. Poi mi consultai con un internista empatico e su sua segnalazione vidi un neurologo che mi consigliò (in modo meno empatico) la fisioterapia psicosomatica (a cui il mio corpo non reagiva bene, come era stato recentemente dimostrato). Poiché anche questo neurologo riteneva che dovessi assumermi le mie responsabilità se volevo stare meglio e avevo perso la speranza di un trattamento appropriato, alla fine di dicembre 2020 ho ricominciato a prendere la quetiapina per pura disperazione.

Il mio medico me l’aveva già suggerita come opzione. Fino a quel momento non l’avevo presa perché ricevevo messaggi contrastanti e mi sembrava una sconfitta ricominciare. Alla fine, ho accettato la scommessa di ricominciare. Il farmaco ha iniziato a fare effetto dopo quattro settimane.

Sebbene il deterioramento si sia arrestato da quel momento in poi, sfortunatamente non si è verificato un vero progresso. Nel frattempo non avevo ancora ricevuto alcun sostegno per i miei persistenti sintomi di astinenza e sentivo fortemente la mancanza di un medico coinvolto che pensasse a quali esami o soluzioni fossero possibili in quel momento. Mi sentivo davvero abbandonata a me stessa.

Monique: Quanto devi esserti sentita sola… Ricordo ancora come mi sentivo io. Nessuno era in grado di proporre una soluzione in tempi rapidi, quindi dovetti inventarmene una da sola. Ma non avevo idea di dove e cosa cercare. In realtà, quella sensazione di allora, quella ricerca solitaria e senza speranza quando ero malatissima è stato l’inizio di Mad in the Netherlands (il fatto di rendere le informazioni reperibili).

Prima hai detto che il tuo deterioramento da quanto hai ripreso ad assumere farmaci pur essendosi arrestato non è migliorato. Come è stato il tuo quadro clinico da allora?

Anniek: Ho sempre dolore. Il mio corpo reagisce in modo così violento ai rumori che è una vera tortura. Quando si accende la caldaia, per esempio, mi sento come se qualcuno mi attaccasse fisicamente. Mi viene la nausea, ho dei conati di vomito, crollo e piango senza motivo.

Sono molto stanca per questo motivo e quindi ogni volta peggioro sempre di più. La cosa peggiore è che non riesco più a stare né con né senza persone. Non appena alcuni suoni si sovrappongono (il bollitore o un segnale acustico del telefono), mi sento completamente sovrastimolata.

Per questo motivo, non posso più avere una conversazione rilassata con amici o familiari. Né posso più vedere i miei amati nipoti. Non posso andare in paese per una commissione né mangiare un gelato o semplicemente fare una passeggiata. Questa sovrastimolazione ai rumori è sempre presente. Non ci sono giorni migliori di altri. Ogni giorno devo ritirarmi in una stanza buia e insonorizzata dalle quattro alle otto volte. Di fatto, quasi tutto ciò che rendeva la mia vita piacevole (musica, corsa, passeggiate con i cani da compagnia, conversazioni con gli amici, lavoro) è diventato impossibile.

Non mi riconosco nella disabile che sono diventata. In realtà c’è una sovrastimolazione e una sottostimolazione allo stesso tempo. Se faccio qualcosa, non riesco a portarla a termine a causa della sovrastimolazione. Se non faccio nulla, divento infelice a causa della sottostimolazione. Mi annoio, mi manca la varietà intorno a me e mi sento isolata da tutto e da tutti.

Abbiamo anche studiato la possibilità di diventare volontariamente sorda. Tuttavia mi hanno sempre sconsigliato di farlo perché la sovrastimolazione non proviene dalle orecchie ma dal cervello. Avrei voluto provare, ma il pensiero di peggiorare la situazione non mi attira affatto.

Monique: Non c’è stato niente che abbia aiutato la tua situazione allora?

Anniek: Qualcosa sì. Dopo un commento in un gruppo Facebook per “persone con lesioni cerebrali non congenite (NAH) e sovrastimolazione”, nel febbraio 2021 mi sono ricoverata nel reparto di crisi per sottopormi a un esame neuropsicologico. Speravo di essere presa più sul serio una volta dimostrato che i miei disturbi non erano di natura psicologica.

Un neuropsicologo ambulatoriale, che non mi ha stigmatizzato, ha fatto in modo che ricevessi le cure dei professionisti del NAH. In effetti, come io stessa ho sempre sottolineato, non sono stati individuati indizi di problemi psicologici sottostanti. La consulenza dei professionisti del NAH è iniziata nel luglio 2021. Il loro aiuto è stato prezioso.

Sfortunatamente, la consulenza si è interrotta quando ci siamo trasferiti all’estremo nord del Paese ad aprile 2022 nella speranza che la tranquillità di quel luogo mi avrebbe dato una reale possibilità di guarigione. Il primo specialista a cui mi sono rivolta non credeva al fatto che avessi danni provocati da farmaci.

Monique: Quanto deve essere stato frustrante, il fatto di consultare così tanti specialisti… di dover dimostrare ogni volta che i tuoi disturbi non sono di natura psicologica. Essere costretta a combattere con un’eccessiva stimolazione affinché gli altri riconoscano il tuo problema comporta il rischio di essere infelice a lungo, vero?

Quando hai fatto il tuo primo ingresso nel sistema di igiene mentale perché eri alle prese con dei problemi psicologici, non ho alcun dubbio che tutto ciò che hai detto è stato preso molto sul serio. Ma poi, dopo anni di trattamento terapeutico efficace in cui hai fatto registrare un’enorme crescita a livello personale, ogni disturbo da te lamentato non è stato più preso sul serio a causa dell’astinenza o perché attribuito al “ritorno al disturbo originale”.

Non è strano perdere la propria credibilità a causa di un’enorme crescita a livello personale? Posso anche girare la questione. Quando ci sono andata io dallo psichiatra per un disturbo da lutto prolungato (che io stessa ritenevo un problema mentale), mi è stata data una soluzione chimica (perché mancava una sostanza per cui avrei avuto bisogno di assumere farmaci per tutta la vita). Ma quando ho smesso di assumere quella sostanza chimica, i miei sintomi di astinenza sono diventati improvvisamente di natura psicologica.

Sono abbastanza certa che si sia trattato di una lesione cerebrale chimica traumatica (TCBI). In realtà, è un risultato simile a quello dell’esame neuropsicologico. Nei gruppi di soggetti con riduzione graduale dei farmaci, si usano spesso termini come PAWS, Post Acute Withdrawal Syndrome o PWS, Protracted Withdrawal Syndrome (sintomi di astinenza prolungata). Avrebbe fatto la differenza per te se non avessi dovuto lottare così duramente per trovare aiuto per i tuoi disturbi?

Anniek: Sì, certo… La gente parla spesso del mio desiderio di eutanasia. Ma non è un desiderio! È un’alternativa perché, non riuscendo ad andare avanti così, un giorno sarò costretta a fare da sola. Siccome so che morirò, sono più preoccupata dal come porre fine alla mia vita in modo corretto che di desiderare di riavere la mia vecchia vita.

Di recente, quando un professionista di igiene mentale mi ha chiesto come avessi fatto ad arrivare a questo punto, ho pensato che avrebbe fatto una grande differenza se i medici mi avessero creduto e avessero fatto del loro meglio per me. Ho sprecato così tante energie per cercare di convincerli. Per questo ritengo che sia molto importante far sapere loro che i disturbi legati alla riduzione graduale dei farmaci e il paziente devono essere presi sul serio.

Non è mai stata mia intenzione litigare con i miei medici prescrittori. In una normale conversazione, sembravano non volermi dare ascolto. Tornavano sempre alle loro linee guida con informazioni obsolete, dove non c’era quasi spazio per la comprensione o la compassione.

Ma da una persona con svariati anni di esperienza alle spalle, è lecito attendersi che quando una paziente ti sta davanti e ti dice quanto soffre, tu capisca che non stia scherzando? È lecito o no aspettarsi che uno specialista del genere vada a ricercare il motivo per cui i disturbi si discostano dalle linee guida e su cosa si possa fare al riguardo?

Tutti guardavano sempre prima la cartella clinica e non riuscivano più a farlo con obiettività. Continuavano ad attribuire i miei sintomi ad un disturbo di personalità non oggettivabile, che secondo il DSM non deve necessariamente essere permanente e che era in remissione da 10 anni.

La possibilità che vi fosse un legame con i farmaci veniva sempre accantonata frettolosamente perché non ero in grado di dimostrarlo. Era irrilevante il fatto che avessi presentato ben sei articoli sulla ricerca effettuata sulla sindrome da riduzione graduale dei farmaci e su come spesso fosse male interpretata.

Pur essendo una paziente proveniente dal sistema di igiene mentale, apparentemente nessuno mi dava ascolto… Non ho mai voluto combattere. Per me era importante che si imparasse dal mio caso, non avevo alcuna intenzione di danneggiare i medici. Ma quando nessuno vuole darti ascolto, allora la cosa più facile è iniziare a combattere. Altrimenti in quale altro modo ci si rende visibili?

Nel 2020, Charlotte Bouwman organizzò un’iniziativa di protesta presso il Ministero della Salute. Avrei voluto parteciparvi anch’io. Ma non potevo farlo nelle mie condizioni. Sarei stata semplicemente prelevata dal Parlamento olandese come una povera squilibrata e portata via. Mi sento così impotente. Sono anni che mi rivolgo ai giornalisti, ma sembra che la mia storia non possa essere raccontata. Per questo ti sono grata per aver accettato di scrivere del mio caso su Mad in the Netherlands.

Non è mia intenzione parlar male degli psichiatri. Sono ben consapevole che la mia versione dei fatti è solo la mia versione e che bisogna ascoltare anche quella degli altri. Questo lo capisco bene. Ma da quando mi sono ammalata, mi sento trattata come un oggetto inutile buttato nella spazzatura. Questo non vale per le persone che mi circondano. Loro sono tutte al mio fianco. Mi credono sulla parola. Vedono quanto la mia vita sia diventata insopportabile.

Ma sembra che i medici si sentano tutti autorizzati ad abbandonarmi al mio destino, a quanto pare. Gli stessi che avrebbero dovuto essere in grado e disposti ad aiutarmi non sembrano preoccuparsi più di tanto. Almeno io ho avuto questa impressione. Quello che trovo terribilmente difficile da accettare è che quasi tutti i medici che mi hanno detto che il danno era stato con tutta probabilità causato dalle pillole, non lo hanno scritto nella mia cartella clinica. Così, con ogni nuovo specialista sono stata costretta a ricominciare la mia battaglia daccapo.

Per esempio, una volta uno specialista mi ha detto che era logico che avessi dei sintomi perché il farmaco era una specie di filtro sedativo che tolto all’improvviso poteva causare una sovrastimolazione del sistema nervoso. Il che mi sembrò davvero un’ammissione. Purtroppo lo stesso specialista non ha scritto nulla al riguardo nella mia cartella clinica, per cui in occasione di una visita successiva con un altro medico ho dovuto ricominciare la mia battaglia sostenendo che si trattava di un danno da farmaci. Non capisco perché mi abbiano trattata in questo modo…

Monique: Capisco la tua tristezza. Sembra che i medici siano talvolta un po’ riluttanti ad ammettere i loro presunti errori per motivi legati alla loro assicurazione di responsabilità civile. Le condizioni della polizza sembrano obbligare l’assicurato ad astenersi da qualsiasi promessa, dichiarazione o azione da cui si possa dedurre un’ammissione di responsabilità o che possa danneggiare gli interessi della compagnia di assicurazione. Tuttavia, in base al contratto di assistenza medica, il medico ha un obbligo di divulgazione. Per questo motivo, i medici che ti hanno avuto in cura potrebbero averti detto a voce qualcosa di diverso rispetto a quanto messo nero su bianco.

Anniek: Ma allora abbiamo un problema circolare o no? Se una tua semplice richiesta di aiuto quando si soffre non viene ascoltata perché si ritiene che non sia una necessità, allora inizi automaticamente a gridare aiuto, per ribadire l’importanza della questione. Ma ciò può essere rapidamente etichettato come “aspetto psicologico”, il che ti fa arrabbiare e implorare di essere ascoltata.

Così facendo, costringi il professionista sanitario a passare alla difensiva anziché stare al tuo fianco. E se io desidero che i miei disturbi vengano riconosciuti, l’unica preoccupazione del medico è quella di agire in conformità con le condizioni della polizza assicurativa. A quel punto, io non c’entro più nulla. Allora qual è la reazione giusta? Come posso essere ascoltata?

Monique: La soluzione per me è stata quella di allontanarmi completamente dai medici, di non usare le mie energie per lottare per ottenere giustizia e riconoscimento, ma di occuparmi di me stessa e di riconoscere e rendere giustizia a me stessa. Lo ammetto: è una cosa che mi ha fatto sentire terribilmente sola. Ed è realistico avere delle aspettative nei confronti di gente che è molto malata? Per motivi economici, logistici, cognitivi, sociali, corporei e quant’altro, non è assolutamente possibile per tutti.

Inoltre, è scritto ovunque che bisogna rivolgersi a un medico prescrittore. Il mio desiderio è che ogni medico prescrittore approfondisca la conoscenza sulla PAWS basata sull’esperienza. La riduzione graduale dei farmaci è una questione talmente individuale che è impossibile basarsi su delle linee guida, soprattutto per quanto riguarda gli antipsicotici, perché agiscono su una varietà di neurotrasmettitori (e/o su altre forme di comunicazione tra le cellule cerebrali), ciascuno con un proprio profilo di effetti collaterali (https://madinthenetherlands.org/antipsychotica).

Inoltre, pur essendo destinati a influenzare il cervello, finiscono per influenzare anche i recettori in tutto il corpo. Gli antipsicotici di seconda generazione possono quindi causare una serie vertiginosa di problemi fisici, emotivi e cognitivi. In definitiva, la soluzione non può essere quella di farci la guerra e di rimanere ognuno sulla propria isoletta per paura dell’altro.

Anniek: Una cosa che ho trovato interessante è il fatto che sia stato proprio il personale paramedico (fisioterapisti, dietisti) a dimostrarsi più disposto ad ascoltare ed accettare ciò che dicevo. Evidentemente sono meno a rischio. Capisco che non sia facile dover soddisfare così tante condizioni, ma è l’aspetto umano che andrebbe privilegiato.

Se grazie a questa intervista ci fosse più comprensione da parte di tutta la categoria professionale, le mie sofferenze… la mia morte ormai imminente avrebbero un po’ di senso e troverei finalmente la pace. Allo stesso tempo mi rendo conto di quanto ci sia ancora da fare nel mese prossimo prima di rassegnarmi al mio destino.

Monique: Ti auguro di tutto cuore che tu riesca ad accettare il tuo destino con serenità. Ma non è chiedere un po’ troppo? Io non ci riuscirei mai. Sono sincera su questo punto. Non potrei mai rassegnarmi. Non potrei farlo perché così facendo smetterei di lottare per la guarigione. Ma rispetto la tua scelta. Assolutamente. So cosa significa soffrire in modo insopportabile. Non c’è proprio modo in cui io possa aiutarti?

Anniek: La mia vita è una mix di sovrastimolazione e sottostimolazione allo stesso tempo. La sovrastimolazione derivante dai rumori e dalla luce non mi consente di fare nulla e non riesco quasi più a provare felicità. Questo rende tutto più difficile. Non ho avuto una vita facile, ma avevo trovato un mio equilibrio con il mio lavoro, il mio livello d’istruzione, i miei contatti sociali e le attività piacevoli che facevo prima di iniziare il percorso di riduzione graduale dei farmaci.

Ora sono sdraiata sul letto a pensare a ciò che posso fare. Poi se trovo qualcosa che mi rende entusiasta, mi alzo e subito dopo mi sento “crollare”. Ho portato a termine alcune piccole cose, ma ci sono voluti molto tempo e lacrime perché sentivo soprattutto che non riuscivo a realizzare ciò che volevo.

Alcuni anni fa ci siamo trasferiti a Groningen perché a Utrecht ero completamente circondata dai rumori e mi sentivo ancora più a pezzi che qui. Solo qui potevamo permetterci una casa indipendente. Non è un luogo ideale, ma un luogo ideale non esiste. Abbiamo cercato invano soluzioni per circa tre anni, chiedendo e ricevendo aiuto anche da parenti.

In Olanda c’è un sovraffollamento in termini di persone e rumori, ma se mi fossi trasferita all’estero sarebbero spariti sia la mia rete di sicurezze che i miei sussidi. Ovunque vada c’è troppo rumore per me. C’era sempre qualcosa, sia dentro che fuori. Quando mi avventuro fuori, per quanto remoto sia il posto dove mi trovo, dieci volte su dieci va male. Non ci sono progressi, mentre io amo terribilmente stare fuori.

Monique: Pensi che l’eutanasia sia un’occasione unica nella vita?

Anniek: No, ma se continuo a rimandare le cose non diventano più facili per me. Voglio raggiungere la pace con me stessa nonostante il senso di colpa che provo nei confronti delle persone che lascio. L’eutanasia è davvero la decisione più difficile che abbia mai preso. Per farlo, ho dovuto fidarmi di nuovo dei medici. Per non parlare della consapevolezza dell’eutanasia, dell’espressione di dolore sul volto delle persone che lascio… è tutto così terribilmente difficile.

Anche perché io rivorrei soprattutto la mia vita di prima. Vorrei davvero poter essere in grado di vivere. Morire d’impulso è molto più facile. Ma mi dispiace enormemente per i miei cari, non voglio fargli del male. Inoltre, morirei ufficialmente da “paziente psichiatrica” che si è suicidata e non riuscirei a sopportare nemmeno questo…

Monique: Ora che me l’hai spiegato, posso capire la tua scelta. C’è qualcos’altro che vuoi aggiungere?

Anniek: Sono molto felice che i miei cari mi abbiano creduto subito nel momento in cui mi sono ammalata. Hanno potuto vedere con i loro occhi il contrasto enorme tra come ero e come sono diventata dopo la riduzione graduale delle pillole e non hanno mai avuto dubbi sulla verità. Mio marito, la mia famiglia e molti dei miei amici mi sono stati vicini con il loro sostegno e conforto.

Ho incontrato anche altre persone alle prese con i sintomi dell’astinenza. Insieme, a volte, abbiamo trovato il riconoscimento necessario che spesso mancava dai professionisti sanitari. Ho apprezzato il fatto che vi fossero persone in cerca di soluzioni che mi aiutavano a far sentire la mia voce. Anche quando ciò non ha portato a ciò che speravo. Senza di loro, sarebbe andata anche peggio…

Il 16 febbraio 2024, ho perso per eutanasia una delle mie compagne del percorso di riduzione graduale dei farmaci a causa delle continue sofferenze che era costretta a sopportare. Se n’è andata perché non riusciva più a sopportare le torture quotidiane provocate dall’astinenza continua dagli psicofarmaci.

Attraverso l’intervista, oltre a congedarmi da lei, ho voluto prendere commiato dalla terribile solitudine di una malattia sconosciuta e non riconosciuta. Speravo che un giorno avrei potuto fare la differenza per Anniek. Ma alla fine ho capito che la differenza più grande per lei l’avevo già fatta quando ho creduto a quello che diceva, l’ho riconosciuta nella sua sofferenza e ho continuato a starle accanto per quanto ho potuto.

Spero che le persone responsabili della prescrizione di psicofarmaci e della decisione di rimborsare dosi minori per evitare le sofferenze si assumano le proprie responsabilità.

***Questo blog è stato pubblicato per la prima volta su Mad in the Netherlands il 24 febbraio 2024***

La realizzazione di questo articolo è stata resa possibile da Pauline Dinkelberg e dall’Afbouwmedicatie Vereniging dai Paesi Bassi (www.verenigingafbouwmedicatie.nl).

Questa associazione di pazienti cura gli interessi delle persone intenzionate a ridurre responsabilmente il dosaggio dei farmaci o a sospenderli del tutto. L’associazione è alacremente impegnata a sensibilizzare l’opinione pubblica su una riduzione graduale e responsabile dei farmaci e per far sì che questi vengano rimborsati dall’assicurazione sanitaria di base.

Note bibliografiche:

Marcello Maviglia, Laura Guerra, Miriam Gandolfi. Sospendere gli psicofarmaci: come e perché – Costruire un percorso personalizzato ed efficace. Fabrica dei segni, 2024

Sospendere gli psicofarmaci: come e perché – Costruire un percorso personalizzato ed efficace – Mad in Italy (mad-in-italy.com)

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Laura Guerra è laureata in Scienze Biologiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Farmacologia all'Università di Ferrara. Si interessa dei trattamenti psicofarmacologici nel contesto psicosociale del disagio emotivo. Pone particolare attenzione ai problemi dell'eta giovanile e infantile. Ha tradotto il libro di Peter Breggin "La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie". Ha inoltre tradotto il libro di Joanna Moncrieff "Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici". Recentemente, insieme a Marcello Maviglia e Miriam Gandolfi, ha pubblicato il libro "Sospendere gli psicofarmaci: Come e perché. Costruire un percorso personalizzato ed efficace.