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Alzare il velo, rimuovere i feticci. Viaggio al termine della 180
È con grande piacere che accogliamo nel team di MAD IN ITALY Gian Piero Fiorillo, sociologo, con esperienza lunghissima nei servizi psichiatrici del Lazio. Gian Piero ha sempre avuto un atteggiamento critico nei riguardi dell’impostazione e del funzionamento dei servizi di salute mentale e della cosiddetta psichiatria biologica.
Da profondo conoscitore della materia, ha affermato con chiarezza di idee l’importanza di una critica metodica all’utilizzo della farmacologia, come tema centrale ad ogni valutazione della realtà dei servizi di salute mentale. Il suo contributo a MAD si snoderà su temi simili a partire dall’articolo che pubblichiamo oggi.
Buona Lettura! E, Benvenuto Gian Piero….! (Marcello Maviglia)
Nel mese di dicembre ho conosciuto Laura Guerra e Marcello Maviglia di Mad in Italy. Con loro ho ripensato alla mia lunga esperienza nei servizi di salute mentale. Un’esperienza che ha coperto l’arco di quarant’anni, anche se con lunghe interruzioni. Il periodo effettivo di servizio nei vecchi
e poi nelle strutture dei Dipartimenti di Salute Mentale, sia a diretto contatto con le persone in cura, sia nello staff direttivo, copre circa vent’anni del mio percorso lavorativo.
Sempre, in questo percorso iniziato nel lontano 1977 come operatore di base in una “casa-vacanza” per degenti dell’ospedale psichiatrico di Siena, ho avuto un atteggiamento critico rispetto al modo in cui si andava delineando l’attuazione del processo riformatore che portò alla dismissione dei manicomi pubblici non giudiziari, iniziata nel 1978 con la Legge 180, detta Legge Basaglia, e conclusa negli anni ’90 ad opera dei primi governi Berlusconi e Prodi. L’ultimo O.P. (Ospedale Psichiatrico, ndr) chiuse i battenti nel 1999, e fu proprio il San Niccolò di Siena. Formalmente, dunque, il terzo millennio in Italia iniziava “senza manicomi”.
Ma la realtà era più complicata. Sul difficile rapporto fra gli enunciati (principi teorici, norme, articoli, relazioni, dichiarazioni) e i fatti si snoderà il mio discorso, a partire da questo intervento e nei successivi.
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Salutata come la legge più innovativa del mondo intero in materia di assistenza psichiatrica, “la 180” si caratterizzò fin dall’inizio per alcune ambiguità mai superate in seguito.
La legge accoglieva e faceva propria la critica delle istituzioni totali, che si sviluppò nel secondo dopoguerra come parte delle culture giovanili di protesta, ed ebbe una diffusione enorme anche grazie all’opera dei mass-media. Film e reportage televisivi rimasti nella memoria collettiva (ne cito due per tutti: Qualcuno volò sul nido del cuculo; I giardini di Abele) ne diffusero le istanze più radicali svelando aspetti sconosciuti e violenti della segregazione manicomiale.
Oltre a questo, la Legge 180 fu importante perché restituì – almeno a livello normativo – la titolarità dei diritti civili, sociali e politici alle persone in cura presso le strutture psichiatriche.
Tuttavia la legge non affrontava in maniera radicale la contraddizione fra cura e controllo.
Stabiliva che il ricovero dei pazienti psichiatrici sarebbe avvenuto nei reparti specialistici degli ospedali generali, e che i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) non potessero avere durata superiore a sette giorni, prorogabili fino a quindici. Il TSO, oltre alla necessaria convalida di due medici, doveva avere anche il benestare del sindaco (o suo rappresentante) e del giudice tutelare, ad indicare come le responsabilità di una misura così drastica ricadessero su dispositivi sociali diversi. Ma così veniva confermata la sovrapposizione del campo della “salute mentale” con quello dell’ordine pubblico. In altre parole il paradigma della pericolosità sociale non veniva cancellato.
A mio giudizio quel paradigma è rimasto un elemento strutturale, forse il pregiudizio fondante, sempre negato e sempre attivo, di tutte le strutture e le pratiche alternative alla reclusione manicomiale. Con questo voglio dire che lo spettro agente, il pensiero nascosto, degli interventi assistenziali e sanitari rivolti alle persone con una diagnosi di malattia mentale, è rimasto immutato nel tempo: ridurre o annullare il rischio di comportamenti violenti. Come contenere la (reale o paventata) aggressività del soggetto in cura? Evitare suicidi, lesioni a sé o ad altri, circoscrivere e controllare l’emotività: ecco la vera, mai esplicitata, mission dei servizi psichiatrici che ho attraversato.
Non voglio discutere adesso i come e perché di questo sentire condiviso. Ritengo, a partire dalle riflessioni sulla mia esperienza, che sia innegabile. E che abbia costituito, insieme a molti altri pensieri e sentimenti pregiudiziali, una gabbia dentro la quale trattenere (contenere) la follia, vista sempre come patologia individuale. Dico sempre e intendo sempre. Anche quando i trattamenti erano ricoperti da tremule vesti gruppali, sistemiche o altro. Il passaggio da una dimensione individuale a una collettiva, quando c’era, era sempre secondario rispetto al trattamento principale che restava rivolto al singolo e nella quasi totalità dei casi aveva carattere farmacologico.
In questo senso la psichiatria ha accettato e messo in opera il mandato sociale di cui è investita: rendere razionale la follia (Basaglia). Ridurla alla ragione. Vedremo in seguito il significato che storicamente hanno assunto queste espressioni. Nel frattempo la parola “follia” ha perso diritto di cittadinanza nel discorso medico. È stata sostituita da un numero quasi ridicolo di neologismi stigmatizzanti: le diagnosi. Che Franco Basaglia chiamava senza mezzi termini vuoto etichettamento psichiatrico.
Ritengo anche che il timore di esplosioni aggressive – e le misure per prevenirle – ne abbiano in molti casi aumentato il rischio. Per dirla in maniera molto chiara: in parecchi casi l’intervento degli operatori ha favorito, anziché contrastare, situazioni di tensione sfociati in comportamenti distruttivi. Il perverso meccanismo della profezia che si auto-avvera è sempre in agguato nelle dinamiche fra personale curante e individuo assistito.
Il mancato superamento del pregiudizio di pericolosità è, a mio parere, uno dei punti chiave per comprendere il sostanziale fallimento della “riforma basagliana”. La psichiatria ha continuato a servire due padroni: l’ordine pubblico e una salute mentale dai contorni vaghi, molto vicina a un comportamento acritico e conformista. Una “salute morale” che somiglia alla ginnastica d’obbedienza di cui parla Fabrizio De André.
È interessante notare che la denuncia costante, da parte dei “basagliani”, del pregiudizio di pericolosità sociale e dello stigma connesso, non ha comportato un agire conseguente. La divaricazione fra enunciazioni e pratiche è stata una costante dei servizi.
È necessario però, giunti a questo punto, porsi una domanda difficile: se la riforma basagliana ha mancato i suoi obiettivi, si può dire lo stesso della Legge 180? In altri termini: la 180 e la tensione rivoluzionaria che ne costituì le premesse, storiche e ideali, sono sovrapponibili?
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Già al momento della sua approvazione, la 180 venne accolta da molte polemiche, nonostante fossero gli stessi giorni convulsi del sequestro Moro. Da destra vi fu allarme per la paura – infondata ma gonfiata ad arte – di vedere frotte di esagitati “pericolosi per sé e per gli altri” o che “riescano di pubblico scandalo” andare in giro liberi e aggressivi, a molestare le persone per bene, picchiarle, ucciderle, distruggere le famiglia, violentare le donne, esibirsi in sconcezze. Lo stigma della pericolosità e dell’incurabilità della malattia mentale venne agitato per bloccare la legge.
Che invece fu approvata di fretta, al fine di impedire il referendum popolare promosso dal Partito Radicale, di abrogazione della legge che istituiva i manicomi, la 36 del 1904: Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati.
Ma non mancarono le critiche provenienti da sinistra. La più clamorosa fu proprio quella di Franco Basaglia. Che, pochi giorni dopo l’approvazione, in un’intervista alla Stampa, si espresse con durezza e scetticismo:
“È una legge transitoria, fatta per evitare il referendum, e perciò non immune da
compromessi politici. Ora bisognerà lottare perché nella discussione sulla riforma sanitaria tanti aspetti farraginosi, ambigui, contraddittori di questa legge siano portati alla ribalta e cambiati. (…)
Non si deve credere d’aver trovato la panacea a tutti i problemi dell’ammalato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano con il corpo. È come se volessimo omologare i cani con le banane (…) se ricoveri – cioè togli la libertà – a una persona perché ha pensieri bizzarri o disturbi psichici, perché lo fai? A che cosa si riferisce quel ricovero? Che cosa può voler dire “grave alterazione psichica”? (…) Negli ospedali ci sarà sempre il pericolo dei reparti speciali, del perpetuarsi di una visione segregante ed emarginante”.
La capacità di Basaglia di anticipare quello che poi sarebbe effettivamente accaduto è sorprendente. Ma il focus della citazione riportata è un altro: La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano con il corpo. Sarebbe difficile essere più chiari: la psichiatria non può essere “omologata alla medicina” come non si possono omologare i cani con le banane. Il comportamento umano non è riducibile al corpo delle persone, al loro sistema nervoso, al cervello.
Naturalmente si può dissentire da questa impostazione, la si può criticare sia sul piano scientifico che su quello storico, ma una cosa è certa: se la si accetta, il castello della psichiatria biologica e organicistica (sul quale il Servizio Sanitario Nazionale, tramite le ASL e i DSM, s’è appoggiato per costruire i servizi post-manicomiali) crolla. E trascina nella caduta tutti i tentativi di una psichiatria riformata: le esperienze pessime insieme a quelle mediocri e a quelle “di riferimento” o “di eccellenza”, come si dice adesso. Perché l’implicito in quella affermazione è che la consegna della follia alla medicina (il mandato sociale) non è un fatto naturale ma storico.
Ovvero: transitorio, occasionale. Che quindi può essere messo in discussione, insieme al rapporto medico-paziente.
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Mi avvio alla conclusione riportando le parole di Franco Rotelli, psichiatra, compagno della prima ora di Basaglia, e suo “successore” a Trieste. Scomparso di recente, proprio mentre l’esperienza, spesso presentata come paradigmatica, del “modello triestino” viveva l’ultima crisi.
In chiusura del numero 398/2023 di Aut Aut, che ha raccolto una serie di contributi sul tema, troviamo Che cos’è la salute mentale, scritto nel 2006. Qui Rotelli, con retorica prudente e sottilmente ricattatoria, suggerisce: occorre “però anche essere consapevoli che forse è meglio essere “malati” che indemoniati o simili, con ragionevole dubbio pensando che sia meglio che di te si occupi il soi-disant medico piuttosto che un soi-disant esorcista, che forse è meglio un ospedale piuttosto che l’esilio al limite del villaggio”.
Sembra una Apologia del meno peggio, in cui Rotelli dichiara a denti stretti che dopo oltre due secoli di disciplina psichiatrica supportata da una sterminata serie di studi e di pratiche, lo statuto di oggettività e necessità del mandato psichiatrico continua a non convincere.
Ma in questo vuoto di certezze che niente sembra colmare, in questa aleatorietà persistente del dispositivo medicina/follia possono trovare dimora posture divergenti.
Uno: la triste accettazione del fallimento della Riforma, a cui fa da contraltare il successo reazionario e gattopardesco della Legge 180.
Due: la possibilità di considerare le pratiche di cura come negoziazione, riconoscendo le asimmetrie di potere fra sistema sanitario e individuo, ma lavorando per ridurle. La ragione psichiatrica non ha nessun bollino di qualità da esibire, e l’etichetta “basagliani” non basta a regalarglielo.
Basaglia pensava a una trasformazione della società che includesse “la follia come la ragione”; la legge 180, nella sua declinazione reale, ha scommesso sulla anima buona della psichiatria, alla quale ha riconsegnato le anime tormentate dei folli. Togliendo a queste ultime la possibilità di decidere per sé, e restituendo al (presunto) sapere medico, ai professionisti, tutto quello che il movimento degli anni sessanta e settanta aveva loro tolto.
Ma almeno, si dirà, è innegabile che la 180 abbia determinato la chiusura dei manicomi.
Almeno questo, se non altro!
Non ne sono sicuro.
Torniamo alla legge Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati, che nel 1904 istituiva ufficialmente i manicomi. La legge abolita in concomitanza e per effetto della 180.
Art. 1
Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.
Sono compresi sotto questa denominazione, agli effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere. Può essere consentita dal Tribunale, sulla richiesta del procuratore del re, la cura in una casa privata, e in tal caso la persona che le riceve e il medico che le cura assumono tutti gli obblighi imposti dal regolamento.
Dunque i manicomi, per espressa indicazione della legge che li “istituisce” non sono solo i Manicomi, gli ospedali psichiatrici provinciali, ma tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere. Leggere questo passaggio ha un effetto straniante. Se fosse ancora in vigore includerebbe molte di quelle strutture che con accomodante ottimismo (o pessimismo) siamo abituati a chiamare con parole inoffensive: clinica neuro-psichiatrica, comunità terapeutica, SPDC, centro di riabilitazione… e anche qualche casa privata.
Forse è così che dovrebbe ricominciare una riflessione: che cosa possiamo chiamare manicomio, oggi?
gpf, 25 gennaio 2023