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La chiusura dei manicomi in Italia, sancita dalla legge 180 ha portato a un sistema di salute mentale problematico e contraddittorio. L’articolo di Fiorillo analizza le ragioni di questo fallimento, sottolineando come la fine dell’istituzione manicomiale simultanea alla realizzazione di nuovi servizi di salute mentale abbia reso il percorso di rinnovamento molto farraginoso e problematico per gli utenti.
In sostanza “cambiare tutto per non cambiare niente!”
(Marcello Maviglia)
Grande era il disordine sotto il cielo
di Gian Piero Fiorillo
Nell’estate del 1977, un anno prima dell’approvazione della legge 180, mi venne proposto di lavorare in una comunità-vacanza per degenti in dimissione dall’ospedale psichiatrico San Niccolò di Siena, tutti originari della provincia di Grosseto. Mi fu affidato un “compito senza mansioni”, a metà fra l’osservatore e l’animatore turistico. Figure come i terapisti della riabilitazione psichiatrica o gli educatori professionali specificamente orientati erano di là da venire. Gli psicologi non avevano l’albo professionale e tutto era assai indefinito. Si discuteva di “ruolo unico” degli operatori: le gerarchie, che avevano la figura del medico al centro delle responsabilità giuridico sanitarie, erano sovente messe in discussione. Avevo una laurea in sociologia e nessuna esperienza nel settore, ma la cosa non era molto importante. Era anzi un punto a favore, perché l’enfasi veniva posta sulla costruzione di comuni relazioni interpersonali, non mediate da tecnicismi o pregiudizi di ruolo. In poche parole il mandato era: vivere e vedere cosa succede.
Lo staff era assai ridotto: due sociologi alle prime esperienze, con impegno continuo 24 ore su 24 sei giorni su sette, e la supervisione, due volte a settimana, di una psichiatra del Centro di Igiene Mentale di Grosseto. Il numero di degenti variava da sei a dieci, tutti con pesanti storie sociali e familiari alle spalle e lunghi anni di internamento manicomiale, durante i quali avevano subito violenze terapeutiche e disciplinari d’ogni tipo.
Come accadeva in molte regioni italiane, si tentava di costruire una struttura cuscinetto fra l’O.P. e il mondo esterno. Fra i degenti, detti ospiti, alcuni avevano una famiglia presso cui, forse, sarebbero tornati. Era necessario capire chi poteva affrontare con successo una vita fuori dall’istituzione, pur con il sostegno dei servizi. Molti, a causa della lunga segregazione, non avevano alcuna dimestichezza col mondo. Non conoscevano il valore del denaro, il costo di un caffè o di un pacchetto di sigarette, né dei beni di prima necessità. Nell’O.P. il tabacco e il “caffè nero” venivano forniti dall’amministrazione, talvolta come compenso per i mille lavori di manutenzione dell’istituto: dalle pulizie alla cura del giardino, alla conduzione del bar interno. Al mercato erano spaesati: cosa posso avere con cinquemila lire? Erano stati accuditi per anni e anni, alcuni fin da bambini, e adesso dovevano fare i conti con quella società che li aveva esclusi ed era, nel frattempo, diventata indecifrabile.
Nel piccolo villaggio di Bagnolo di Santa Fiora, sul Monte Amiata, eravamo sistemati in una casa cantoniera dismessa. Gli abitanti del luogo erano insieme curiosi e sospettosi: cosa dovevano aspettarsi da un gruppo di matti da s-legare, segnati anche nel fisico da durezze e privazioni? Del resto, ancora nel 1977, molti residenti di quei luoghi avevano vive memorie delle difficoltà della guerra, della povertà estrema, del lavoro nelle miniere di mercurio o nelle campagne maremmane: un aspetto fisico tormentato non era poi tanto strano. Fummo confortati dalla disponibilità dei cittadini e del parroco – che amava unirsi a noi in gite, picnic, attività collettive – e iniziammo quello che fu per tutti tirocinio di vita.
La maggior parte del tempo era impegnata sul quotidiano: il cibo e la cucina, la pulizia personale e dei locali, i vestiti, la cura delle relazioni personali, non più mediate da regole istituzionali ma basate sul rispetto e l’attenzione reciproca. E, tre volte al giorno, il rito delle terapie farmacologiche. Restava molto tempo, e ci concentrammo sul modo migliore di viverlo, evitando di creare una semplice succursale dell’O.P.
Tornerò a parlare di quell’esperienza, che fu per me un vero spartiacque, un bagno nel reale dopo gli anni dell’utopia e del lungo ’68 italiano. Ripensando, quasi mezzo secolo dopo, a quel periodo, mi sembra che seppure in modo diverso, il gruppo problematico fondamentale dell’assistenza psichiatrica sia rimasto lo stesso. Anzi, taluni problemi odierni trovano origine proprio negli accadimenti di quel periodo. Questo perché esperienze strettamente legate a una situazione storica contingente si consolidarono fino a diventare il punto d’appoggio della restaurazione psichiatrica. Quando, col venir meno dell’istituzione manicomiale, vennero meno le condizioni d’esistenza di quel modello, esso era già consolidato, e sarebbe stata necessaria una nuova ondata riformista per evitarne la sclerosi. Ma la Storia procedeva in altre direzioni.
Vorrei chiarire subito, per evitare dibattiti improduttivi, che la mia posizione critica verso le pratiche psichiatriche post-legge 180 non comporta alcuna nostalgia per la realtà manicomiale. Solo chi non ha mai sfiorato una istituzione totale cronicizzante e fortemente gerarchizzata può rimpiangerla. L’abolizione dei manicomi è stata una battaglia di civiltà. Lunga, difficile, forse mai davvero conclusa, a un certo punto perse la spinta propulsiva, si incartò su se stessa e non seppe evolversi. Segnò il passo, si “istituzionalizzò” a sua volta e, riproponendo in modo meccanico soluzioni standard, generò nuove emarginazioni e nuova cronicità. Perché questa involuzione?
Come ho detto, chiudere un manicomio è estremamente difficile. Per gli interessi decennali che si vanno a intaccare; perché si decide il destino di centinaia di persone; perché si è al centro dell’attenzione e non sempre si è guardati con occhi benevoli: i matti spaventano. Ma le difficoltà furono doppie a causa della contemporanea esigenza di distruggere l’istituzione totale e realizzare i nuovi servizi. Furono necessarie competenze mediche, giuridiche, capacità politiche, fantasia, disponibilità personale e una notevole immaginazione. Il doppio compito fece sì che istanze opposte rimanessero saldamente intrecciate e si condizionassero reciprocamente. Le urgenze pratico-realizzative assorbirono tutte le energie e lasciarono poco spazio alla riflessione. Il primato della pratica, inteso come un dovere morale ineludibile, fu un bene da un punto di vista pragmatico, ma ostacolò il pensiero critico. Che, anch’esso, si irrigidì in poche formule, slogan buoni per la propaganda ma poco utili allo sviluppo del lavoro collettivo.
Nei prossimi interventi analizzerò punto per punto i nodi intorno a cui la psichiatria biologica riorganizzò il suo dominio. Chiudo questo articolo dedicando qualche riga a un luogo simbolico in cui la paralisi burocratico-amministrativa dei servizi di salute mentale post-180 trovò espressione: i famigerati progetti-obiettivo. Ridicoli e pomposi elenchi dettati dalla furia classificatoria della burocrazia sanitaria, i progetti-obiettivo restano ancora (giustamente affidati alla critica roditrice dei topi) negli scaffali perduti della pubblica amministrazione, come monumenti alla mortificazione dell’intelletto. Insieme a pagine e pagine di regolamenti, protocolli, carichi di lavoro, fantasiose griglie di valutazione, inutili e cervellotiche carte dei servizi, finzioni pseudo-epidemiologiche, cartelle cliniche desolatamente bianche e abbandonate nei cassetti – oggi elettronici – dei servizi. E insieme, non bisogna dimenticarlo, al delirante tentativo di etichettare l’umano in quelle categorie universali del pregiudizio che vengono chiamate diagnosi psichiatriche. Lavori di carta in cui ciascun attore della “salute mentale”, tranne gli utenti, chiedeva e otteneva di aggiungere qualche riga. Un lavoro gigantesco, onnivoro, pantagruelico, replicato in tutte le Regioni italiane. E perfettamente inutile. Ore e ore di passioni, fraintendimenti, incontri, convegni, giornate, eventi con il solo risultato (debitamente rimosso) di ridurre i pazienti psichiatrici a pratiche da sbrigare. Dimenticando che dietro le pratiche c’erano – ci sono – persone che chiedono in primo luogo di venire considerate tali: e forse sta proprio in questa curiosa richiesta tutta la loro patologia. Mentre la patologia istituzionale si rinnova ogni giorno rimanendo pervicacemente uguale a se stessa: non vengono più promulgati i “progetti-obiettivo”, ma basta dare una scorsa alle ottantotto pagine dell’ultimo Piano Regionale Di Azioni Per La Salute Mentale della Regione Lazio per accorgersi che solo il nome è cambiato. E nient’altro.