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Rinascere in consapevole felicità – Storia di Giorgio
La società, fatta di schemi sociali e pensieri standard basati sulla mediocrità collettiva, difficilmente accetta persone che spiccano per la loro caparbietà, curiosità, propensione a fare cose diverse, che hanno una speciale predisposizione ad avere uno straordinario potenziale e le etichetta come “divergenti”.
Il “bipolarismo” insito nel sistema, si insinua tra la libertà personale e il bisogno “degli altri” di tenere sotto controllo chi ha dei sogni da perseguire, “sogni anche a costo di nasconderli sotto uno strato di amore”.
I sognatori non sono: Prevedibili – Controllabili – Governabili! Troveranno sempre una via d’uscita (Susanna Brunelli)
Ho 29anni e ho trascorso la prima parte della mia vita davvero nella gioia, toccandola con tutte e 5 le dita.
Avevo una famiglia stupenda con cui stavo bene e con la quale avevo profondi legami affettivi. Frequentavo un gruppo Scout, facevo Karate e mi piaceva andare al mare a pescare. Giocavo con gli aquiloni mentre studiavo la direzione del vento.
Nonostante il mio impegno, a scuola non andavo molto bene e gli insegnanti mi ripetevano che dovevo impegnarmi di più.
In seguito, ricevetti la diagnosi di DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento) e risultai affetto da discalculia. Purtroppo, la diagnosi è arrivata tardi, il ché non mi ha permesso di ricevere il supporto accademico di cui avevo bisogno, con ripercussioni ovviamente negative sul mio percorso scolastico.
Per quattro anni consecutivi la mia famiglia ospitò ragazzi del progetto Intercultura. Grazie a questa apertura culturale, durante il periodo del liceo, decisi di partire con tre amici per la Nuova Zelanda. Ma non ci riuscii, perché fui rimandato e quindi dovetti dedicarmi alla preparazione per gli esami di riparazione.
In quel periodo frequentavo un gruppo di ragazzi e con alcuni dei quali avevo relazioni molto strette. Mi fidanzai con una ragazza della comitiva e tra noi, ma forse più da parte mia, nacque un grande amore che si esaurì quando partii per l’Azerbaijan per lavoro, al termine della Va superiore. Così ci dividemmo. Lei conobbe poco dopo quello che sarebbe diventato il suo grande amore, e mi lasciò.
In seguito a questo abbandono attraversai un periodo di depressione che si risolse nel giro di sei mesi, con l’aiuto di uno psicologico. Mi furono consigliati anche degli psicofarmaci, ma riuscii ad uscirne da solo con l’aiuto dello psicologo e della pratica della meditazione.
Dal paradiso all’inferno: tutti i miei presunti amici e amiche durante quel periodo si allontanarono, mentre io intraprendevo una strada al politecnico non fruttuosa. I nuovi compagni ed amici che mi ero creato in questo nuovo ambiente accademico, sentivo che non avevano molta stima di me a causa delle mie difficoltà accademiche. A causa della discalculia non riuscivo ad integrare le spiegazioni che mi venivano date in una “lingua” che potessi comprendere. I numeri e lettere li ho sempre interpretati in modo diverso dalla norma.
Decisi quindi di lasciare tutto e andare alla conquista della mia tanto sognata isola Maori partendo con un biglietto di sola andata per la Nuova Zelanda. Questo fu un viaggio mozzafiato durante il quale ho scoperto gran parte del mio potenziale, ritrovando me stesso, la mia capacità e voglia di viaggiare e di sognare di una volta.
Purtroppo, al mio ritorno, ritrovai un paese fermo e infelice, identico a come l’avevo lasciato. Tutti erano incuriositi riguardo la mia esperienza, cercavano dialogo. Ma ormai ero troppo cambiato, e già sognavo di ripartire per l’India per continuare il mio viaggio.
Mi sorprendeva il fatto che io ero pronto a muovermi, conoscere gente nuova, parlare continuamente di temi importanti, mentre la gente del paese era sempre uguale, chiusa, ottusa e schematizzata.
Come se non bastasse, i miei genitori mi dicevano che non ero più io, in quanto non mi interessavano i vestiti firmati o l’ultimo modello di telefonino come facevano invece i miei coetanei. In sostanza, si lamentavano che io non fossi come tutti gli altri, ma che fossi un “divergente”.
Passai a salutare i miei amici del politecnico, ma in cambio del mio caloroso saluto, fui accolto con grande freddezza, perché avevo cercato la strada della felicità anziché quella della quotidianità e della sicurezza.
A questo punto il mio scopo era quello di imparare un mestiere per poter ripartire con un lavoro da esercitare all’estero. In queste circostanze si verificò il mio primo delirio psicotico: nulla era più lo stesso e nulla andava per il verso giusto. Ero ingolfato in un presente stretto e in un passato ormai andato. Ero talmente triste, confuso e isolato che non dormii per cinque notti. Così, i miei genitori, molto preoccupati, mi portarono all’ospedale.
Lì mi fu diagnosticata una sindrome bipolare di tipo 1, dal momento che la ricostruzione della mia storia indicava sbalzi d’umore: ero stato depresso a casa e scivolato in fase maniacale in Nuova Zelanda. In quel momento, decisero che avevo bisogno di un intervento farmacologico, perché la mancanza di sonno si accompagnava a delle “voci” che stavano emergendo.
Così, con una terapia di Depakin Chrono, Abilify e Haldol sono rientrato a casa dopo 3 settimane di ricovero, accompagnato dall’educatrice territoriale e dallo psicologo che mi seguirono per circa due anni.
Essendomi ristabilito, ho fatto il servizio civile e l’animatore nel centro estivo. Le voci erano completamente sparite. Mi sentivo bene dopo l’acuzie, ma la tanto vissuta e sognata liberà mi stava lentamente sfuggendo di mano. Il mio sogno di partire alla volta del mondo si stava sgretolando, lasciando spazio a una flaccida, pacata permanenza, che lasciava sempre meno spazio all’avventura e alla scoperta.
Stufo del solito ambiente me ne andai a Parigi per circa 3 settimane, dove rivivendo il piacere dei viaggi e dell’avventura, mi sono sentito di nuovo bene.
Al ritorno a casa, ho interrotto le medicine per tornare a quello stato originale di vita tanto atteso e poter ricominciare una vita normale, non sapendo purtroppo che gli psicofarmaci vanno scalati molto lentamente per via dell’astinenza che producono. Infatti, entro i cinque giorni successivi ricominciai a sentire le voci e tornai in ospedale.
Nel frattempo era scoppiata la pandemia. Fui indirizzato a un “gruppo appartamento”. Rimasi lì per tre settimane, ma il quadro generale che mi si prospettava era deprimente: l’infermiere che mi imponeva le medicine, le relazioni coi compagni non tanto buone, il malessere generale e gli operatori vari che mi stressavano tutto il giorno.
Decisi quindi di tornare a casa, giurando che avrei preso le benedette medicine e che avrei affrontato un percorso con lo psichiatra. Ebbi comunque un altro ricovero entro breve, perché le voci persistevano. Inizialmente le vivevo come un qualcosa di estraneo, che dovevo per forza di cose curare.
Parlai a tutti delle voci per circa tre settimane, anche con molti dottori, che mi diedero tanta olanzapina per sconfiggerle. Non servì a nulla. Ma imparai a convivere con esse. Un dialogo ricco e fitto, volto a “riportarmi alla luce”. Le voci mi dicevano di seguire me stesso per riconquistare il mio sogno.
Sorprendentemente, erano diventate “voci amiche” e imparavo a gestirle. Ma, man mano che questo succedeva, i medici diventavano meno amichevoli, perché mi vedevano come un folle che dialogava con i sintomi del suo malessere.
A quell’epoca avevo 24 anni e mi sentivo prigioniero dei servizi di salute mentale, perché non rispettavano la mia volontà e mi imponevano cose che non volevo. Loro erano convinti che le voci, “belle, buone, brutte o cattive” sono da sconfiggere in ogni caso, per cui sarei dovuto andare in comunità.
Ma ormai, le voci per me non erano più un problema, perché avevo imparato a gestirle. Addirittura, quando entrai in comunità smisero di comunicare. Erano una parte profonda di me, dalla quale ero stato allontanato mentre tornavo cosciente tramite un ricco dialogo interno.
A questo proposito, vorrei sottolineare che in ospedale conobbi una ragazza che sentiva anche lei le voci. Confrontandoci ci parve ovvio che, io al suo fianco e lei al mio, non avevamo nulla da temere riguardo la nostra salute. Eravamo “superdotati”, tutt’altro che malati.
In comunità, dopo i primi quattro mesi iniziali di inquadramento, dove praticamente dormivo e fumavo sigarette con i miei compagni, intrapresi di mia iniziativa un corso di falegnameria. Completai il corso di formazione di sei mesi, dapprima su internet (periodo Covid) e dopo in laboratorio.
Trovai un lavoro e uscii dalla comunità. Per due anni ebbi pochi contatti coi servizi di salute mentale, mi fidanzai con una ragazza e mi feci nuovi amici, riacquistando la mia felicità.
Dopo tutto questo periodo trascorso tra comunità, “gruppo appartamento”, imposizione ad essere aiutati anche quando non ce ne è bisogno, dover per forza seguire progetti riabilitativi anche quando tutto sembra andare bene, mi sentivo proprio stanco. Decisi così di interrompere i colloqui al CSM (Centro di salute mentale), e anche le medicine, con un lento scalaggio autonomo di circa sei mesi.
Dopo una prima fase di assestamento ero reattivo, calmo, sereno. Qualche voce si faceva sentire a volte, ma la sapevo gestire benissimo e arricchiva la mia esperienza.
Nel frattempo la mia ragazza mi lasciò proprio quando stavamo per affittare una casa per vivere insieme. Ancora una volta persi l’entusiasmo e iniziai a sentire la frustrazione nel mio lavoro. Finii persino a fare il garzone in una falegnameria dove si beveva alcool. Quello che prima mi sembrava bello, stava diventando invivibile.
Mi licenziai e cambiai lavoro, ma con tutto lo stress dovuto alla situazione andai in un altro ospedale per tre notti. Lì i medici mi trovarono bene, ma dicevano che per tornare a casa sarebbe stato meglio prendere ancora qualche medicina: Latuda e Resilient.
Le ho prese per qualche settimana, ma poi ho deciso di sospenderle di nuovo. La crisi di astinenza quella volta è stata più dura e rimasi un mese a casa, a rielaborare un po’ tutto, per ripartire con lo sprint e la dedizione necessari per affrontare la vita.
Anche se trascuravo un po’ le mie cose, scrivendo su di un quaderno i miei sogni e il modo di realizzarli, mi rasserenavo. Ogni tanto uscivo a fare passeggiate.
La situazione era nota in famiglia, ma dopo circa un mese dall’interruzione dei farmaci mia madre voleva riattivare i servizi e usò un pretesto per farlo. Chiamò i carabinieri dicendo che si sentiva minacciata da me, a fronte della mia richiesta di venire a fare colazione con me e mio padre. I carabinieri, dopo aver parlato sia con me e che coi miei genitori capirono che non ero pericoloso e andarono via.
Dopo circa quattro giorni però tornarono, seguiti da psichiatri e vigili alla volta del TSO (trattamento sanitario obbligatorio).
Così durante una normale mattina di dicembre i servizi fecero irruzione a casa mia e senza nemmeno parlarmi, mi prelevarono e portarono in ospedale. A niente valse la mia richiesta di andare con loro con un TSV (trattamento sanitario volontario), dichiarandomi disponibile ad assumere i farmaci. Mi dissero che quello era un TSO e che dovevo prendere le medicine e “stare zitto”.
Io non avevo alcun sintomo, ma mi dissero che se non riconoscevo di avere un problema psichiatrico era perché ero psicotico, e quindi dovevo seguire la cura. Haldol inframuscolo, 35 giorni di ospedale senza sintomi e senza parlare di problematiche psichiche con alcuno.
Con rassegnazione trascorsi lì mio tempo in compagnia dei pazienti, in attesa di rilascio, che avvenne dopo altri 70 giorni col passaggio in casa di cura. Ho passato circa 15 giorni nella mia camera singola in casa di cura, dove potevo solo mangiare e dormire.
Al mio rientro a casa era stato preparato un piano terapeutico per il quale venivo seguito da: colf, badante, psichiatra ed educatori, più frequenza al centro diurno. Mi ritrovavo a stare a casa quattro ore al giorno, senza possibilità di contrattazione, ad essere accudito da una colf e da una badante che pulivano per terra e riordinavano casa mia, che era già ordinata. Facevo colloqui con il CSM, dove uno psichiatra continuava a dirmi che il farmaco inframuscolo, che nel frattempo mi distruggeva, era obbligatorio e rappresentava la cura.
Mi chiamò pure un amministratore di sostegno per dirmi che ero malato e che dovevo seguire a testa bassa la cura e una volta per telefono mi disse: “ma non può stare zitto e fare?”. Questa fu l’unica frase che ci scambiammo direttamente io e lui, mentre parlava con i miei genitori e inviava mail di gruppo a tutti per descrivere quanto io fossi inadatto.
In quel periodo seguivo un corso online di AutoCAD (programma di disegno tecnico assistito al computer, ndr) per imparare a progettare meglio i miei amati mobili, ma non potevo né lavorare né avere una vita slegata dal servizio, ovvero la comunità si era spostata a casa mia.
Dopo circa tre mesi trovai un lavoro e vidi il castello dei servizi sociali cadere. Ricominciai a lavorare e a guadagnare soldi, imparando a vivere con 70 euro a settimana.
Lo psichiatra, nonostante ciò, mi obbligava ancora a subire il trattamento depot con lo psicofarmaco che mi provocava acatisia. Io, atterrito ormai da quella sostanza, mi rifiutai di prenderlo e lui chiamò tutto il CSM per obbligarmi a farlo. A quel punto preferii andare volontariamente all’ospedale. L’acatisia causata dal farmaco non mi passava nemmeno con l’Akineton.
Lo psichiatra disse che era necessario un altro ricovero, per verificare se l’acatisia fosse reale, ma non mi prescrisse le pastiglie equivalenti per uso orale. Fu un altro dottore del triage all’ospedale che me le diede: l’acatisia scomparve.
Tutto questo è il volgere della mia vita fino ad oggi. Mi torvo a un punto veramente importante della mia esistenza. I miei genitori mi stressano un po’, ma desiderano fermamente che io stia bene. Finalmente siamo riusciti a parlarci apertamente e hanno capito quanto sia importante per me realizzare le mie aspirazioni e i miei desideri.
Ho contattato uno psicologo privato per poter interrompere il trattamento farmacologico. Questo tanto atteso momento era stato dichiarato “impossibile” dallo psichiatra del CSM che sosteneva che con una diagnosi psichiatrica dovevo accettare il trattamento a vita “come l’insulina per il diabete!”.
Al momento prendo 5 mg di Haldol la sera, ma lo sto scalando. Lo psicologo mi aiuta a capire e a gestire le emozioni che affiorano col diminuire della dose di farmaco ed evitare che prendano il sopravvento.
Al ritorno dal mio TSO, un’infermiera aveva rivelato ad alcuni ragazzi del paese cosa mi era successo, cosicché si sa che ho sofferto di un disagio psichico e per questo molte persone mi hanno allontanato. Per fortuna continuo a sentire alcuni amici, quelli veri, che non mi hanno mai abbandonato, anche se ora abitano lontano e ci incontriamo solo qualche volta. Cerco un nuovo lavoro e ho uno stile di vita salutare.
Quello che penso riguardo a tutte le imposizioni che ho subito è che dovremmo essere liberi di essere noi stessi in ogni circostanza. In un paese che si ritiene all’avanguardia e libero, non dovrebbe esser possibile imporre un modo di essere ad alcuno. Si dovrebbe essere liberi di vivere come si desidera nel decoro e nel benessere personale, che non può essere decretato da terzi.
Ognuno, analizzando la parte più profonda di sé deve poter comprendere cosa è meglio per lui, quale progetto è più consono alla sua persona e come svolgere la vita in autonomia “al meglio”.
Per quanto ho visto, la follia non esiste, e se mai dovesse, “non è mica male”. Giovanna d’Arco sentiva le voci e a 19 anni e conquistò l’Inghilterra. Glielo avreste detto che era malata e che avrebbe avuto bisogno della comunità terapeutica per essere riabilitata?
Credo che gran parte del malessere che viene vissuto dalle persone con disagi psichici derivi dai modelli imposti nelle scuole e in TV, dove i comportamenti che si discostano da quelli accettati e condivisi dalla maggioranza delle persone vengono visti come pericolosi e, quindi, da controllare. Le persone che si discostano dalla media fanno paura perché vengono considerate imprevedibili e non utilizzabili socialmente.
Le persone che vivono un disagio psichico sono molto coscienti della propria condizione e in contatto coi loro bisogni, ma il dramma è che non vengono ascoltate dai curanti. Tra i curanti ho incontrato anche persone empatiche, verso le quali porto rispetto, ma sono molto poche, e ho l’impressione che i servizi di salute mentale operino in altre direzioni, in particolare quella dell’imposizione. Penso che gli psicofarmaci siano responsabili della perdita della socialità: io con 300 gocce di Haldol non volevo comunicare. Credo sia normale.
Il mio malessere da episodico e ben compreso da me, si è prolungato nel tempo e con le medicine non mi sento più la stessa persona come prima.
I miei sogni per fortuna esistono ancora. Li ho protetti sotto mille strati d’amore. Ora ho appreso un mestiere e come falegname sono anche bravo. Progetto e realizzo casse HI-FI in un mio piccolo laboratorio e a breve partirò di nuovo, giusto il tempo di scalare le medicine.
Per la gente che legge penso che il mio racconto dia l’idea di un percorso complesso e burrascoso. La mia famiglia era spaventata e ha creduto ai dottori, alla loro “scienza” che mi imponeva gli psicofarmaci a vita. Hanno creduto a una Istituzione sorda verso i problemi delle persone, che impone la deportazione per lunghi periodi di tempo in luoghi che creano grande malessere.
Tutto questo ha influito negativamente sulla mia psiche. Ma sono certo, che saprò fronteggiare questo problema e uscirne fortificato.
Spero che il mio racconto dia tanta speranza a chi come me sa da sempre che ce la farà. Che il bene e la ragione sono principi e valori più forti dell’imposizione sorda e cattiva che viene inflitta in questi contesti, che il dialogo è un’arma dal valore inestimabile e che la pace regna sovrana nell’universo. Tutto è in quiete e in equilibrio, tutto va nella giusta direzione.
Grazie mille per l’attenzione.
Giorgio