La storia di Recovery di Federica

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Susanna Brunelli

“Fuggire allo scoperto” allo scopo di  cercare l’unica via di fuga possibile in quel momento, ma un segnale che arriva all’improvviso ha fatto sì che la sua debolezza si trasformasse in forza e l’utopia diventasse realtà, con la sua Intelligenza, senso di responsabilità e la sua grande sensibilità che contraddistinguono questa bella anima che ha voglia di crescere. (Susanna Brunelli)

 

“In questo mondo non ci sono né felicità né infelicità,

esiste solo il confronto tra una condizione e l’altra, ecco tutto.

Solo chi abbia provato l’estremo dolore è in grado di percepire l’estrema felicità.

Bisogna aver voluto morire, Maximilien, per sapere quanto è bello vivere.”

Alexandre Dumas, Il conte di Montecristo

La storia di Recovery di Federica

Compagna di viaggio, partecipante al percorso formativo EX – IN (1)

Mi chiamo Federica, ho 35 anni e vengo da una cittadina dispersa nelle nebbie della bassa pianura padana famosa per la produzione di riso e per le zanzare.

Sono la terza di quattro figli: con i miei due fratelli maggiori, un fratello e una sorella, ho rispettivamente 11 anni e 5 di differenza, e 2 anni “in più” rispetto alla mia sorellina più piccola.

Ho vissuto un’infanzia serena, nonostante i problemi di economici e i numerosi incidenti – anche gravi- sul lavoro di mio padre, che lavorava sui pali dei telefoni per ditte in sub appalto che non conoscevano la parola “assicurazione”. Il sogno dei miei genitori era comprare casa: nel 2001, dopo l’ennesimo fallimento e riassunzione di mio padre presso la stessa azienda ma con nome diverso, sembrava che finalmente ci fosse la possibilità di realizzarlo. Io avevo appena finito le medie: ho sempre amato la scuola, anche se ho sempre subito atti di bullismo.

Ho imparato ad amare i libri e la cultura grazie ad una maestra delle elementari, ma per le mie insegnanti delle medie io non sarei stata in grado di frequentare un liceo come lo scientifico, il classico o un istituto tecnico, così sono finita al liceo delle scienze sociali, una scuola di ripiego considerata più “semplice” e meno impegnativa delle altre.

Ci trasferimmo dunque in paese.

Io in quel periodo ero presa dalla scuola: mi ritrovai in classe con le stesse persone che mi bullizzavano alle medie e che ripresero a farlo senza che nessuno intervenisse, mi ero appena trasferita ed ero piuttosto disorientata dai cambiamenti che questo aveva portato nelle mie abitudini. Inoltre, studiavo materie che per me non avevano molto senso, come psicologia, nonostante io avessi comunque una media molto alta.

Mia madre trovò lavoro presso la casa di riposo, come aiuto in cucina e lavapiatti ed all’inizio sembrava che le cose iniziassero ad andare meglio. Per un paio d’anni le cose hanno funzionato, ma poi con un cambio di responsabile di cucina mia madre ha iniziato a subire mobbing, all’inizio velato ma poi sempre più manifesto e degradante.

Ha iniziato a stare sempre più male, a smettere di mangiare, a tremare ad ogni suono del campanello e a piangere ogni volta che tornava da lavoro. Mio padre insistette nel rivolgersi ad un sindacato, che chiese a mia madre di rivolgersi ad uno psichiatra per poter avviare la causa legale.

Nella mia famiglia parlare di psichiatria era tabù, ma era necessario avere una valutazione da parte del servizio per avere almeno la possibilità di andare avanti con la causa, visto che andare da un privato non era economicamente possibile.

Iniziai così la mia avventura nel mondo dei servizi di salute mentale nel 2004, nel ruolo di familiare.

A mia madre venne diagnosticata una depressione grave e noi ci trovammo a dover fronteggiare nel ruolo dei familiari un ostracismo da parte degli abitanti del paese che non credevo possibile. Mia madre iniziò la cura farmacologica ma non durò molto: farmaci poco adatti che la rendevano uno zombie, non avevamo i soldi per poter portare avanti la causa per mobbing e le persone che dovevano testimoniare per mia madre si tirarono indietro da un giorno all’altro.

Il consiglio dello psichiatra fu “venda la casa, si trasferisca e vedrà che le passerà tutto” ma la casa non si vendeva, le rate del mutuo rimanevano sempre pagate in ritardo e lo stipendio di mio padre bastava appena per fare la spesa. In tutto questo io iniziai a non dormire ed a sperimentare le prime abbuffate notturne: dovevo pensare alla scuola, a casa la tensione era alle stelle e spesso mi trovavo a dover gestire la parte dei documenti di famiglia visto che mio padre lavorava fino a tardi ed i miei fratelli maggiori dicevano di non volerne sapere nulla.

Mia madre perse il lavoro, smise la cura farmacologica e chiuse il suo percorso nei servizi il giorno dopo. Io avevo la maturità ed oggi mi chiedo ancora come io abbia fatto a diplomarmi   quello che stavo passando. Vedevo i miei genitori sparire sotto il peso di tutto quel dolore, non sapevo con chi parlarne o a chi rivolgermi, la nostra situazione economica completamente allo sbando.

Avendo sottomano i documenti di famiglia iniziai a notare delle incongruenze nei conti: venne così alla luce una gestione dei soldi di famiglia poco chiara che era stata affidata ai miei fratelli maggiori fino a poco prima del licenziamento di mia madre, visto che lei non era in grado di occuparsene e mio padre lavorava anche la domenica per cercare di poter almeno pagare il mutuo. Scoprì così che i miei fratelli maggiori li avevano ricoperti di debiti.

Cominciai a parlarne apertamente, a cercare di rimettere ordine: ma i miei fratelli maggiori, ed in particolare mio fratello, non gradirono la cosa. Iniziò per me un inferno fatto di insulti e di mortificazioni giornaliere ed a volte anche di lividi. Io non ero in grado di leggere i documenti, mi veniva detto, non ero in grado di capire, ero un peso per la mia famiglia, un essere inutile, ero “la pazza” che vedeva cose che non c’erano e, in tutto questo, dovevo anche pensare alla mia sorellina, a tenerla in piedi e cercare almeno per lei di limitare i danni al meglio delle mie possibilità.

Circa a metà del 2005 iniziarono ad arrivare i primi documenti e la situazione divenne sempre più pesante; io iniziai ad avere i primi attacchi d’ansia. Ricordo ancora il terrore di dover rispondere al telefono alle varie agenzie di recupero crediti mentre al mio fianco mia madre batteva i denti e diventava pallidissima, o le visite degli ufficiali giudiziari con le comunicazioni della banca che riguardavano il mutuo.

Avevo ricevuto una borsa di studio dall’Università, ma dovetti rinunciare: studiare “non serve” mi sentivo ripetere. Dovevo trovare un lavoro e aiutare a casa, o non avremmo avuto un tetto sopra la testa. Man mano che il tempo passava e i documenti si accumulavano, più le mortificazioni diventavano pesanti. Non trovavo lavoro, l’ansia cresceva e io mi sentivo sempre più sola. Iniziai sempre più a ritirarmi in casa, uscendo sempre più raramente.

Così dagli attacchi d’ansia passai ad avere i primi veri e propri attacchi di panico e grazie al mio terrore del sangue iniziò e finì anche un periodo di autolesionismo, che durò per due mesi che furono si brevi, ma anche molto intensi.

Smisi di uscire di casa del tutto, avevo attacchi di panico anche solo a guardare fuori dalle fessure delle tapparelle e così ho passato dodici anni della mia vita; avevo costruito un finto equilibrio basato sulla totale negazione di me stessa come persona, e in quel periodo sembrava funzionare. Non mi importava più di ciò che mi accadeva, smisi gradatamente di piangere, anche per non preoccupare mia madre e la mia sorellina.

Ma la sofferenza era troppa, ed iniziai a pensare di avere una sola via di uscita: il suicidio. L’otto novembre del 2016, il giorno in cui ricevemmo lo sfratto definitivo dalla mia casa-prigione-fortezza, dopo l’ennesima discussione, uscì di casa in preda ad un attacco di panico e mi ritrovai in mezzo alle risaie.

Era buio, non ci vedevo niente e non riuscivo a respirare. Mi trovai sull’argine di una roggia e stavo lentamente scivolandoci dentro, quando ho sentito un rumore alle mie spalle e mi sono girata di scatto. Ricordo di avere visto un paio di occhi gialli nel buio, che mi ricordarono quelli del mio gatto, a casa con mia sorella. Dopo anni riuscì nuovamente a piangere e mi tirai indietro appena in tempo.

Tornai a casa con un nuovo obiettivo, quello di affrontare il mio star male: non potevo causare a mia sorella ed a mia madre altro dolore. Tornammo in città, in affitto ed io iniziai maldestramente a provare ad uscire da sola ma con risultati a dir poco disastrosi.

Pur riconoscendo di avere un problema, non volevo rivolgermi al servizio di salute mentale avendo visto mia madre e lo stato in cui l’avevano ridotta i farmaci. Ma alla fine dovetti arrendermi, non sapevo più come altro fare. Andai così dal mio medico di famiglia che mi spedì immediatamente al CSM (Centro di Salute Mentale).

Ero terrorizzata, ma ricordo chiaramente la gentilezza della caposala ed il suo sorriso di rassicurazione, quando a causa del mio tremore le ho chiesto scusa per il mio non riuscire neanche a tenere in mano la penna per firmare.  Mi chiese se volevo essere visitata dal medico di turno o se preferivo tornare il mattino dopo, così che mi vedesse la dottoressa che mi era stata assegnata. Avevo aspettato dodici anni, aspettare ancora una notte non mi avrebbe cambiato nulla; decisi dunque di tornare il giorno dopo.

Il 5 settembre 2016 è stato per me l’inizio del mio percorso di recovery: il giorno in cui per la prima volta ho parlato di quello che mi era successo, di come stavo realmente, il giorno in cui ho iniziato il mio percorso di cura. Tornai a casa con la diagnosi e le medicine: passai un’ora davanti a quelle scatole sentendomi uno schifo, piangendo come non mi capitava da tempo. I miei fallimenti erano lì davanti a me, in ordine nei loro blister scintillanti da 28 pastiglie. Non ero convinta che fosse la cosa giusta da fare, il dover prendere medicine mi spaventava a morte, ma mi sono data una possibilità: in fondo niente poteva essere peggio di quello che avevo già vissuto.

Il primo periodo con i farmaci non è stato facile, ma la mia psichiatra mi è stata molto vicina ed alla fine abbiamo impostato una terapia che mi ha permesso di stare un po’ meglio, dopo una serie di tentativi che nonostante le difficoltà mi è servito per costruire una relazione di fiducia nei confronti della dottoressa e con gli infermieri del CSM. Ma non bastava: la dottoressa mi chiese se avessi mai pensato all’opportunità di fare psicoterapia.

Se ero poco convinta delle medicine, memore dei miei studi liceali lo ero ancora meno della terapia. Credo di aver fatto una faccia molto eloquente perché la dottoressa scoppiò a ridere, ma alla fine decisi di ascoltarla e almeno provarci. Finì così alla ricerca di uno psicoterapeuta e mi ritrovai in una associazione, che tra le attività che offre ha un servizio di psicoterapia a prezzo accessibile e delle attività di socializzazione. Incoraggiata dalla dottoressa e dalla presidente dell’associazione, ho provato il corso di teatro e nel gennaio 2018 sono stata inserita nel progetto di inserimento lavorativo per poter sostenerne i costi e quelli della psicoterapia.

Al mio terapeuta ho posto subito limiti molto rigidi: non mi fidavo della psicologia in generale e avevo bisogno di risposte concrete, quindi ho messo una data di scadenza alla mia terapia,  mi sono data un anno per la precisione, con  l’accordo che ogni sei mesi avremmo tirato le fila e che avremmo valutato eventuali alternative se la terapia non fosse servita.

Ci è voluto tempo per riuscire a costruire un rapporto di fiducia con quelli che sono diventati i miei operatori di riferimento e per rivalutare le mie convinzioni sulla psicoterapia.  È stato un percorso complicato, fatto di alti e bassi, ho rimesso insieme pezzi di me che pensavo non esistessero più . Ed anche se ne ho avuto la tentazione più volte, non mi sono mai arresa, ho continuato sulla strada che ho scelto.

Anche l’associazione mi ha aiutato molto nonostante le contraddizioni che i progetti di inserimento lavorativo comportano; le relazioni con le persone che ho conosciuto mi hanno sostenuto nei momenti difficili.

Oggi la mia terapia farmacologica è sulla via della sospensione completa e continuo con la psicoterapia: da più di due anni non ho più avuto abbuffate notturne e a parte un periodo particolarmente pesante in cui ho avuto bisogno di riprendere gli ansiolitici, ho smesso anche quelli. Rimangono solo gli antidepressivi, ma nell’ultimo anno ho dimezzato anche quelli.

Ho partecipato alla formazione della Rete nazionale utenti e grazie ad essa ed in particolare ad Eros Cosatto e Susanna Brunelli, ho saputo della formazione EX- IN. L’opportunità di poter frequentare la formazione è per me stata un grande dono, che mi sta cambiando la vita.

Oggi ogni volta che mi ritrovo a guardare l’orizzonte, o semplicemente fuori da una finestra, mi ricordo la strada che ho percorso, di quanto una cosa così banale sia stata per me un’utopia fino a pochi anni fa. La mia passata sofferenza non è sparita, molte cose mi hanno ferito e continueranno a farlo, ma ho imparato a contestualizzarla, cerco di usarla come risorsa e non vederla come un limite.

Federica

Note

(1)  EX – IN è una iniziativa che nasce dal progetto europeo EXperienced –INvolvement (1) che ha come obiettivo il coinvolgimento e l’inclusione nel lavoro dei servizi di salute mentale, e non solo, di persone ‘esperte per esperienza’ per aver vissuto un’esperienza di sofferenza psichica come utenti dei servizi di salute mentale.

 

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Il mio nome è SUSANNA, dal 1963, ma sono rinata il 18 marzo 2019. La mia vita è ricca di episodi e di esperienze gioiose, ma anche molto tristi e drammatiche. Non c'è bene o male, giusto o sbagliato, ma solo ciò che evidentemente serviva per portarmi dove sono ora. Da molti anni conosco l’ambiente psichiatrico, prima come familiare, poi, per un periodo relativamente breve ma intenso come l’inferno, ho vissuto un'esperienza come diretta interessata. Tutto il resto lo racconto a chi mi vuole leggere o ascoltare oppure conoscere personalmente. Il mio motto è: TUTTO E’ POSSIBILE !