Reinserimento o costruzione degli emarginati? – L’importanza del lavoro nel percorso del recovery: l’esperienza di Andrea
Gli obiettivi dei programmi di reinserimento dovrebbero principalmente coniugare il riconoscimento e lo sviluppo delle capacità individuali con l’aspettativa di una collocazione lavorativa dignitosa, a misura dell’individuo. Questi, d’altronde erano tra gli obiettivi principali che la legge Basaglia proponeva.
L’esperienza di Andrea (nome di fantasia) ci mostra invece come a volte queste aspettative vengono letteralmente ignorate e calpestate senza alcun ritegno e, al contrario, portate avanti con forti dosi di superficialità e cinismo
Lettera di Andrea alla responsabile della cooperativa in cui ha “lavorato”
Ciao Giovanna (nome di fantasia),
Ti scrivo qui per una mia comodità. Riguardo ai chiarimenti in cui tu confidi, io credo proprio che non ci sia nulla da chiarire, perché la situazione non lo richiede.
Quando ho iniziato il progetto al Tiglio (nome di fantasia), ero entusiasta, perché confidavo in un reale percorso di inserimento lavorativo. Purtroppo, più andavo avanti, più mi rendevo conto di come questa riabilitazione di cui tu e il resto dello staff parlavate tanto, fosse solo un artefatto retorico.
Perché mandare delle persone a lavorare in una fattoria creata ad hoc per disturbati mentali (come le vecchie case lavoro inglesi dell’800, dove venivano spediti gli emarginati), dove si fanno cose senza alcun senso, fine a se stesse, e che soprattutto non forniscono nessuna professionalità spendibile nel mondo del lavoro, non è riabilitazione. Al limite è un intrattenimento per tenere buoni i “matti”, perché in caso contrario cominciano a disturbare la quiete pubblica, e poi tocca agli psichiatri scomodarsi per farli ricoverare.
Inutile quindi parlare di “mettere a frutto le proprie competenze e le proprie qualità”, come tu tante volte hai sottolineato negli incontri preliminari della scorsa estate. Al Tiglio non si fa nulla di questo. La mia attività di “comunicazione” è stata fine a se stessa, perché non aveva alcun impatto su una realtà chiusa. Lo dimostra il fatto che, in mia assenza, le attività della fattoria continuano indisturbate, a riprova che il mio lavoro non ha influito.
Questo perché voi mi avete messo lì solo per farmi fare qualcosa, solo perché è il vostro mandato sociale. E credo che progetti come il Tiglio servano solo a dare lo stipendio agli operatori, non a reinserire i soggetti svantaggiati, che restano nella marginalità sociale per il resto della loro vita. I PTRI (Progetti Terapeutici-Riabilitativi Individuali, ndr) servono a voi. Non a noi.
La prova poi che, come ti ho detto, per il sistema noi siamo persone di serie B è quando Daniele (nome di fantasia) ci ha detto che noi dovevamo venire un giorno in più mantenendo la stessa retribuzione, perché già percepivamo troppo.
Davanti a questo atteggiamento dico due cose:
1) Ciò dimostra come l’azzeramento di distanza tra utenti e operatori sia un’illusione: gli utenti sono sottomessi agli operatori, e guai a protestare. Perché se io mi fossi opposto a questo ricatto (perché per me questo era), mi sarei visto dimezzata la mia misera retribuzione.
E già quando ho protestato perché a febbraio ho preso 150 euro perché a gennaio NON MI E’ stato permesso di lavorare il mese intero, il signor Daniele mi ha rimproverato, perché io avevo lavorato solo tot giorni, come se io avessi deciso di saltare dei giorni di lavoro. Invece scommetto che agli psichiatri e allo staff del DSM sono state pagate anche le vacanze. Ovvio.
Loro sono di serie A. Noi di serie B. Anzi, siamo di serie C, perché nella serie B ci siete voi psicologi, condannati a vivere all’ombra degli psichiatri che, spesso, vi sono inferiori sotto molti punti di vista.
2) La nostra retribuzione. Sempre Daniele disse, tempo fa, che noi percepivamo un salario più alto di loro. Se parliamo a livello di orario, è vero, ma vi ricordo che a noi è concesso lavorare poche ore a settimana. Ci mancherebbe che fossimo pagati 5 euro l’ora! Non credo invece che gli operatori prendano 300 euro al mese, perché sfido chiunque a poter sopravvivere con un “stipendio” del genere con cui è impossibile costruirsi una vita dignitosa.
Ma secondo voi noi ci dobbiamo accontentare di questo, perché, come mi hai detto tu l’ultima volta al telefono, “è già tanto che tu hai fatto il tirocinio con il rimborso spese pieno”.
Quindi la mia, nostra massima aspirazione è un sussidio di 300 euro. E questa sarebbe l’inclusione sociale di cui tanto vi vantate di essere promotori? Ma per favore. Nessuno di voi si sognerebbe di costruirsi un futuro con 300 euro al mese, presi per svolgere tirocini disfunzionali e che non rappresenteranno MAI vere opportunità di lavoro.
Però noi dobbiamo invece accettare questo destino, perché siamo persone senza voce. Per voi. E se qualcuno prova a farsi sentire, viene subito zittito, o magari imbottito di farmaci così non rompe le scatole.
Questa è la verità, cara Giovanna. Inutile fare giri di parole per negarla, perché lo sai benissimo pure tu (che sei una bella persona), che le cose stanno così. E lo sa pure un operatore che, tempo fa, ha scritto un bellissimo articolo, dicendo chiaro e tondo che il sistema psichiatrico, sotto sotto, non è affatto cambiato rispetto a quello di una volta, visto che la logica con cui gli utenti vengono trattati è la stessa dei manicomi. Ti invito a leggerlo, perché ne vale la pena.
Io cercherò di ricostruirmi una vita, e di non mettere più piede in nessun DSM. In un anno ho visto gente parcheggiata al centro diurno da anni, e non ho alcuna intenzione di incappare in questo destino.
Tu mi parlavi della radio di Tivoli (luogo di fantasia), ma sono andato a vedere ed è come pensavo: un progetto legato sempre alla struttura psichiatrica. Mai che si vada in aziende vere a confrontarsi con il mondo.
Parlavate di inserimenti aziendali, quando in realtà ci avete tutti sbattuti al Tiglio, fattoria per malati mentali. Probabilmente pensavate “ma tanto chi ce li vuole questi?”, come d’altronde hai detto di una persona che voleva andare a tirare i carrelli e che poi è stata ricoverata. Io ero lì in attesa, e ti ho udito dire queste cose con altre persone riguardo questo utente.
Saluti, Andrea
Riflessioni di Marcello Maviglia
L’esperienza di Andrea mette in evidenza come il supporto delle istituzioni preposte alla tutela della salute mentale e di un reinserimento sociale, che ormai dovrebbe essere considerato come uno degli obiettivi principe, possa, in realtà, essere fonte di delusione con conseguente ulteriore appesantimento del disagio psicologico dell’individuo.
Nella lettera, Andrea ci mostra alcune delle fallacità più consistenti nel percorso di reinserimento in cui era coinvolto, assolutamente non in linea con le aspettative e i progetti di sviluppo individuale e sociale che si prefiggeva.
Gli obiettivi principali e sacrosanti dei programmi di reinserimento dovrebbero avere l’obiettivo principale di coniugare il riconoscimento e lo sviluppo delle capacità individuali con l’aspettativa di una collocazione lavorativa dignitosa, a misura dell’individuo. Questi, d’altronde erano tra gli obiettivi principali che la legge Basaglia proponeva.
Ebbene, l’esperienza di Andrea ci mostra come nel programma a cui ha partecipato, queste aspettative siano state letteralmente ignorate e calpestate senza alcun ritegno con forti dosi di superficialità e cinismo.
Come avete letto nel suo resoconto, Andrea illustra chiaramente che nel programma il lavoro dei partecipanti era relegato ad un status di inferiorità umana ed economica caratteristica dei primi del novecento, quando il lavoratore era considerato alla stregua di vero e proprio schiavo. Una situazione non inusuale anche al tempo d’oggi, si potrebbe osservare, ma che non può essere per questo ignorata.
Il lavoro, infatti, e non si dovrebbe nemmeno spender tempo a sottolinearlo, va retribuito valutando gli sforzi, le competenze e le qualità individuali, tenendo sempre in conto il rispetto della dignità umana.
Ne deriva per tutti coloro con un minimo di sensibilità sociale, che i centri di reinserimento non possono essere considerati come “zone di parcheggio” dove gli operatori si relazionano all’utente con un ritmo stanco ed indolente, non curandosi di stimolare progetti reali di reinserimento.
Il loro obiettivo dovrebbe essere concentrato nella valorizzazione dell’individuo per accompagnarlo nel percorso del recovery mirato al raggiungimento di obiettivi reali e, allo stesso tempo importanti per l’individuo, all’insegna di una rinnovata indipendenza dai centri di assistenza.
La lettera di Andrea sottolinea in sostanza che si fa esattamente il contrario.
Infatti, una tale esperienza costituisce potenzialmente un rafforzamento non solo dello stigma della condizione del “malato di mente” ma anche quello dello stigma interiorizzato, che ricorda in maniera assillante all’individuo con esperienza di disagio psichico, che non è in grado di affrontare la vita.
Quindi, l’impatto iatrogeno di tali esperienze è enorme con effetti potenzialmente dannosi sia sulla salute psichica che sulla salute fisica dell’individuo. Queste considerazioni sono d’altronde avallate dalla scienza.
Inoltre, tutta la letteratura sull’importanza dei determinanti sociali della salute indica che il lavoro ed il rispetto della dignità umana sono essenziali per la salute psicofisica individuale.
Forse coloro che progettano tali programmi di reinserimento dovrebbero approfondire le loro conoscenze scientifiche al di là delle nozioni superficiali di diagnosi, sintomi e di interventi farmacologici, considerando che l’essere umano si nutre di esperienze e di relazioni.
Altrimenti così si “costruiscono” solo emarginati.