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Questa è la storia di Alessandra (nome di fantasia) che ci racconta di come i contrasti sul lavoro e il mobbing possano avere come conseguenza il coinvolgimento dei servizi di psichiatria e di come, una volta segnalati come utenti, sia quasi impossibile uscirne.
Storia di Alessandra
A metà degli anni ‘90 cominciai a lavorare come barista presso il bar di una sede politica. Il lavoro procedeva bene e per una decina di anni non ho avuto alcun tipo di problema, dopodiché per uno scandalo che coinvolgeva le forze politiche che gestivano la catena dei bar cominciò per me un periodo di forte stress, di paura e di ansia.
Nel tentativo di conservare il posto di lavoro insieme ai miei colleghi denunciammo alcuni illeciti riguardanti la gestione del bar. Alla denuncia seguirono provvedimenti disciplinari come ritorsione contro di noi.
Iniziò così nei nostri confronti un duro mobbing con minacce, intimidazioni, gomme squarciate, macchine graffiate ecc.
Dato lo stress che stavo vivendo, un responsabile dell’esercizio in cui lavoravo mi consigliò di rivolgermi alla Asl e di farmi fare un certificato per mettermi in malattia.
Così andai alla ASL, ma la dottoressa a cui chiesi aiuto non fece nessun certificato medico, bensì mi riempì di psicofarmaci. Non mi ripresentai più e buttai via i farmaci, visto che la mia unica colpa era di aver denunciato gli illeciti.
Quella, a mio avviso, fu solo una tattica per potermi segnalare a vita. Scoprii solo in seguito che chi si rivolge alla psichiatria della Asl rimane segnalato e marchiato a vita.
Iniziai la mia causa per aver subito un licenziamento illecito mentre continuavano le minacce e le intimidazioni.
La causa, che vinsi, durò 4 anni. Nel frattempo, cominciai a lavorare per un’altra catena di ristorazione, ma fu sempre peggio, in quanto c’erano le votazioni di mezzo. Nel 2013 iniziarono a togliere voci dalla busta paga o a non pagare gli stipendi, fui declassata e minacciata verbalmente da parte di soggetti conosciuti alle forze dell’ordine. Denunciai i soprusi nuovamente ai carabinieri, alla guardia di finanza e all’ispettorato del lavoro.
Nel 2015 venni fermata a Roma dove ero giunta per trovare un buon avvocato disposto ad aiutarmi e fare emergere la mia storia, ma fui fermata da due poliziotti con due pistole puntate addosso. Questi mi parlano per più di tre ore, durante le quali io ero tranquilla e serena, non davo alcun segno di agitazione, spiegando che avrei denunciato quello che stavo subendo presso la caserma di via Genova, poco distante da Roma termini. Ma venni convinta a salire su un’ambulanza con l’inganno. Mi dissero che mi avrebbero fatto un controllo e che sarei poi stata rimandata a casa.
Ma così non fu, mi sedarono pesantemente tanto che mi risvegliai solo dopo essere stata trasporta in una stanza d’ospedale. Solo in seguito, si scoprirà tramite le cartelle cliniche che in un foglio fu dichiarato che ero in stato confusionale lungo una strada, mentre in un altro che venivo prelevata da un albergo di via Firenze. Affermazioni in contraddizione tra loro per giustificare il TSO.
Durante il TSO vieni pesantemente imbottita di psicofarmaci e lasciata sola. Non ti vengono spiegati tuoi diritti e non puoi difenderti in quel silenzio totale. Mi fecero così una diagnosi di mania di persecuzione. Una vera vergogna!
All’uscita dall’ospedale mi venne cambiata la terapia e iniziò la mia odissea: Tavor, puntura di Haldol (terapia depot), Clozapina e Depakin.
Iniziarono i problemi di tremore, svenimenti, collassi, sbavavo dalla bocca, movimento delle gambe come uno spastico e movimenti delle braccia incontrollabili.
Durante il TSO ero stordita dagli psicofarmaci, ma non stavo male, mentre con la nuova terapia dovevo uscire accompagnata e avevo tutti questi effetti collaterali fastidiosissimi e invalidanti.
Che necessità c’era di cambiarla? Mi dissero che il cambio di terapia era la prassi.
Stavo molto male e la dottoressa della Asl mi consigliò di fare la domanda di invalidità e accedere alle liste delle categorie protette.
Ai miei familiari, fratelli e marito, venne detto che la mia patologia era grave e ci sarebbero voluti anni per guarire.
Dopo avermi quasi resa invalida, sapendo che avevo una casa di proprietà, volevano che facessi domanda per avere un amministratore di sostegno, ma mi opposi insieme alla mia famiglia e la cosa per fortuna non andò in porto. Uno scandalo!
Posso ringraziare mio marito e mia sorella che fecero sospendere la puntura di Haldol se oggi sono qui a raccontate la mia storia, fatta di malagiustizia e malasanità.
Nonostante questo, sono tuttora costretta, contro la mia volontà, ad assumere Clozapina e Paliperidone in forma depot (al posto dell’Haldol). L’assunzione di questi farmaci mi ha procurato danni al cuore, in particolare un ispessimento della parete cardiaca, aritmie e la sindrome del QT lungo (alterazione dell’attività elettrica del cuore che può mettere a repentaglio la vita del paziente, NDR), tipici del trattamento attuale e che possono indurre un attacco cardiaco improvviso.
A tutt’oggi, dopo averne sentito più di 20, sono in cerca di un avvocato che si prenda a cuore la mia storia, ma tutti rispondono che non trattano i casi di TSO, che non vogliono correre il rischio di dover smettere di lavorare, che hanno dei figli e non vogliono perdere il posto di lavoro ecc.
È una pura e reale vergogna dalla quale non riesco ad uscire!!!
Mi auguro che la pubblicazione della mia storia serva a salvare e aiutare molte altre persone che come me stanno subendo situazioni come la mia.
Alessandra