Induzione alla psicosi da virus

6
138940
Maria Quarato

 

Illustrazione di Chiara Aime

 

Di Maria Quarato

Italiana, expat, psicologa, psicoterapeuta

Mi sono fatta coraggio stamattina e sono uscita.

Sono italiana, a Vienna. Nonostante tra l’Italia e l’Austria ci sia stata una differenza di gestione dell’emergenza contagio, ho seguito le regole italiane, per identificazione culturale e coerenza autobiografica. Come me, tanti migranti italiani in terra straniera hanno fatto lo stesso. Siamo Italiani anche all’Estero, sono italiana anche a Vienna. E con me, anche i miei figli che sono nati qui.

40 giorni consecutivi chiusa in casa, anche se in Austria è permesso uscire e passeggiare coi propri coabitanti mantenendo le distanze di sicurezza dal resto della popolazione.

Per noi però è stato più semplice stare in casa. Avevo un importante e divertente impegno casalingo che ha tenuto impegnati me e i miei 3 figli: hanno partecipato alla ristrutturazione del nuovo studio, proprio adiacente all’appartamento in cui viviamo. È formazione anche questa, che di solito la scuola non offre.

Abbiamo anche un giardino grande con parco giochi privato, che abbiamo allestito ulteriormente con una porta da calcio, ed altri intrattenimenti sportivi per i bambini. Merito della politica edile austriaca, che ha sempre un occhio attento alla crescita dei bambini.

Passano la giornata così, all’aria aperta per lo più, prendendo in ostaggio a turno uno dei genitori. Ma non è così per tutti i bambini in Italia. Tanti sono chiusi in azioni ripetitive in pochi metri quadrati. E non è una pacchia. Le energie dei bambini sono inesauribili, quelle dei genitori, in funzione di età ed altre variabili socioculturali, sempre sul filo dell’esaurimento, e penso per tutte le famiglie mono genitoriali quanto possa diventare esasperante alcune volte reggere la pressione di essere l’unico referente relazionale di bambini pieni di energia e bisogni da soddisfare.

Per i miei figli questi giorni sono una pacchia, meno per noi che abbiamo assunto il ruolo ormai degli espletatori di bisogni: “Mamma ho sete, l’acqua, bitte”, “papà ho fame”, “mamma, quali vestiti mi devo mettere?”, “papà, apri la porta”, “mamma, senti, ti racconto una cosa”. Ci sentiamo maggiordomi senza avere la possibilità di fare un pensiero per più di 10 minuti di seguito. Questo capita più a me, perché il papà si occupa del mercato internazionale di energia elettrica, guai a distrarsi, si rimane senza corrente elettrica. E mamma corre senza pausa negli orari di ufficio, lasciando in attesa persone che chiedono consulenza per le proprie sofferenze. Sono diventata una risorsa in meno per la collettività italiana.

Anche se, in Austria, gli asili e le scuole sono rimaste aperte, a scopo non formativo, ma assistenziale per i genitori che devono lavorare, per evitare che venissero portati dai nonni, categoria più a rischio contagio di tutte. Le direttrici chiamano settimanalmente per sapere se vogliamo portare i bambini a scuola, ma finora, come già detto, abbiamo scelto di sentirci italiani, con i figli a casa.

40 giorni sono troppi però anche per me, che non disdegno la maternità (di figli ne ho fatti 3) e la solitudine, e spesso ne faccio tesoro per pensare, leggere e scrivere. Che è anche il mio lavoro, oltre quello di psicoterapeuta. Ma in questi 40 giorni, da italiana, questo è il primo scritto che riesco a produrre, mentre i bambini dormono ancora.

Spesso, questa genitorialità totalizzante, non mi concede abbastanza energie per scrivere.  Chi pensa sia facile stare chiusi in casa con tre figli h24 (ma anche con uno), non gli andrebbe risparmiata l’esperienza per acquisire un punto di vista più chiaro.

L’energia, in questi giorni, l’ho presa dalla primavera che sbocciava alla mia finestra: la magnolia nel giardino adiacente del Consolato Italiano mi ha regalato tenui colorazioni tra il rosa e il bianco; gli ippocastani alle mie finestre, li ho visti mentre gestavano boccioli che intanto son divenuti foglie: tutto ora è verde cangiante. Ho vissuto per 40 giorni il ritmo lento del miracolo di Madre Natura che si svegliava dal riposo dell’inverno tornando alla vita.

Stamattina però, con la primavera ormai giunta, mi sono svegliata “austriaca” e stanca di stare chiusa in casa, vedendo sempre la stessa inclinazione dei raggi solari entrare dalle finestre, con qualche esitazione, mi sono messa in macchina alla otto del mattino e sono andata in un negozio di bricolage.

All’ingresso dei negozi in Austria regalano mascherine chirurgiche. Quelle che non proteggono chi le indossa, ma il prossimo suo. Che fatti due calcoli ed usando la ragione, se tutti la indossiamo, siamo protetti tutti.

I commessi erano muniti di visiera, guanti e mascherina. I commessi protetti dal loro datore di lavoro, che a loro volta proteggono i clienti parlando loro a un metro e mezzo di distanza.

Come dicevate stesse lavorando il personale sanitario in Italia negli ospedali?

Sempre all’ingresso del negozio una commessa disinfettava il carrello e laute quantità di disinfettante per le mani dei clienti. Fatti due calcoli un’altra volta, se tutti entrano con le mani pulite e muniti di mascherina, non si contaminano gli oggetti.

Camminavo cercando quello che mi serviva tra gli scaffali. Ci siamo guardati tutti, negli occhi, ad ogni svolta di corsia e ad ogni incrocio. Con lo sguardo abbiamo deciso, io e i miei interlocutori oculari, chi si muovesse per primo per non violare la regola della distanza. Magicamente la gente ha sollevato lo sguardo dal telefono rivolgendolo al prossimo. Dopo 40 giorni quegli sguardi altri, rispettosi, con cui condividere quel sentimento di smarrimento e rinegoziazione delle regole sociali, si sono trasformati in condivisione, appartenenza generalizzata ad un’umanità più ampia della propria famiglia o dei coabitanti o della solitudine di chi vive solo.

Gesti di cortesia che trasformano la paura del contagio in abilità sociali per essere uniti contro un nemico comune. Il virus.

Ma cosa accade in Italia? Come mai le persone sembrano ormai l’una contro l’altra pronte a denunciarsi e a rendersi diffidenti l’un l’altra? Le parole chiave per comprendere questi sentimenti sono la paura e lo stress. Il punto di rottura di menti che si alimentano costantemente degli stessi pensieri senza dar loro aria. E “l’aria della mente” si genera nelle relazioni, nelle interazioni costruttive. Non chiusi in casa sempre declinati negli stessi ruoli totalizzanti.

Lo stress non è l’effetto di un evento in sé, ma la percezione che abbiamo di saper fronteggiare, risolvere, gestire un evento. Le risorse che abbiamo per fronteggiare una situazione inusuale cambia le sorti di chi si trova protagonista di un cambiamento improvviso.

Il nostro problema chiaramente non è il virus in sé, ma il modo in cui si diffonde, contamina e contagia.

Come si acquisiscono le competenze per gestire l’emergenza socio igienica che dobbiamo fronteggiare?

Con la formazione e la tutela dello Stato che dovrebbe fornire gli strumenti cognitivi e operativi per affrontare il mondo e il prossimo nostro senza temere il contagio, cooperando perché si possano trovare soluzioni relazionali, sociali che restituiscano le persone ai vari mondi a cui appartengono.

Perché uno solo, quello casalingo, non è sufficiente a garantire la salute mentale di tutti, alcuni a casa smattano letteralmente, i suicidi stanno aumentando. Personale sanitario sempre in divisa stremato dalla paura di non avere protezioni adeguate, gente che si lancia dai balconi… Scelte di fine vita perché per tanti la vita è divenuta insostenibile.

Anche le anticipazioni sul futuro sono diventate nere, senza lavoro, senza soldi, quindi alcuni scelgono, con poca aria relazionale fresca in testa, di risparmiarsi il futuro nero che stanno anticipando seduti sui loro divani, puntando alla scelta di fine vita. Scelte fatte in condizioni mentali di aridità relazionale, paura indotta dal modo in cui le informazioni vengono raccontate e i dati interpretati. Forse è troppo tecnico questo pensiero, ma deve essere chiaro che ogni volta che in un processo di conoscenza c’è un osservatore, il suo dire, è sempre costruito dall’intenzione comunicativa. E ognuno costruisce e descrive i dati che osserva un po’ come gli pare, in funzione del proprio ruolo e delle proprie conoscenze locali e di settore, che alcune volte non sono affatto sufficienti per gestire al meglio fenomeni sociali complessi.

Sempre i danni del riduttivismo conoscitivo.

Un’emergenza socio igienica si fronteggia con più esperti di comunità e complessità, e meno politici o scienziati riduttivisti. Ok, all’inizio ci siamo spaventati tutti ed abbiamo chiamato i virologi, ma ora è chiaro che il loro sapere non è sufficiente per fronteggiare un problema che prima di tutto è sociale: per strada, nei gesti delle persone, nelle modalità di scambio ed incontro, nei precari protocolli antiinfettivi ospedalieri e nelle risposte del sistema immunitario di ognuno e non nascosto in un vetrino.

Dove sono gli epidemiologi, gli psicologi sociali, i medici igienisti, gli immunologi, gli psicologi della salute, gli esperti di crisi e complessità?

Se proprio non ci sono soldi per assumere altri tecnici, consultate un germofobico: in questo caso, le sue conoscenze, acquisite nel tempo, pensate ed affinate con l’esercizio, potrebbero aiutare tutti.

Provate a vedere se tra gli infetti ci sono germofobici. Non ne troverete nessuno, proprio perché, quella che definite malattia mentale, è solo una modalità del pensiero deviante, che smette di essere malattia, quando diventa funzionale al contesto in cui si realizza.

La psichiatria: la scienza dell’obbligo all’adesione alla norma. Cambiata la norma, cambia quello che può essere definito deviante e reso erroneamente patologico. Deviante adesso è colui che esercita il diritto alla vita in tutte le sue modalità, perché la norma ora prevede che dobbiamo pensarci tutti moribondi, terrorizzati, confusi e stare a casa.

Lasciando l’epistemologia e tornando alle scelte di fine vita, come sempre la gente ha bisogno si intravedere un futuro adeguato per reggere le difficoltà del presente. Se c’è un aspetto che sta facendo “smattare” tanti, è la difficolta di anticipazione del proprio futuro, delegato nelle mani dello Stato che decide per noi quale sia la soluzione migliore. Siamo stati tutti deresponsabilizzati dalla gestione della nostra salute, della nostra vita e costretti ad obbedire a decreti i cui obiettivi non comprendiamo completamente.

Nel campo di cui mi occupo di solito, la psicoterapia, questo si chiama “trattamento sanitario obbligatorio”. Quando le persone non vengono ritenute capaci di occuparsi della propria salute, rischiando di diventare pericolose per se stesse e il prossimo, viene tolta loro la libertà e vengono obbligate alla cura. Il presupposto per questa azione di potere è che le persone non siano consapevoli di malattia. Ma caspita, giusto appunto quello che sta accadendo in questo momento.

Vi hanno già detto che dobbiamo consideraci tutti malati, vero?  Vi hanno già fatto sentire inadeguati ed antisociali se uscite di casa? Se correte in un parco per garantire “aria pulita alla vostra mente”, vi hanno già sanzionato per questo comportamento anti sociale votato a mantenere il vostro corpo in buona salute? Vi hanno già chiamato egoisti per questo?

Io mi sono comprata un tapis roulant posizionato proprio di fronte alla finestra dell’ippocastano verdeggiante. Ma non ho mai corso nei parchi. Penso mentre corro, e la mia distrazione potrebbe essere pericolosa per me stessa e il prossimo. Ho sempre scelto di correre stando ferma negli stessi metri quadrati, senza rischiare di travolgere qualcosa o qualcuno. Ma non possono tutti, questo è chiaro. Sgranchirsi le gambe ed attivare la circolazione sanguigna dovrebbe essere diritto di tutti. Immagino ci sia gente con piaghe da decubito ormai. Se non corporee, sicuro “mentali”.

Dove sono finiti gli immunologi? Nessuno lo dice che lo sport, o almeno, il movimento corporeo è vita e sistema immunitario? Come mai parlano tutti dell’economia ferma e nessuno dei corpi e delle menti fermi? Cosa ve ne fate dell’economia senza corpi in salute? Per chi possono essere utili i corpi malati e le menti terrorizzate, indotte dai mezzi di comunicazione, al pensiero psicotico?

La domanda è retorica e lascia spazio ad ognuno per riflettere.

Come mai non hanno pensato di fornirci strumenti di conoscenza e operativi per i comportamenti sociali a rischio contaminazione? Ok, la D’Urso ci ha fatto vedere come lavarci le mani. La D’Urso.

Gli igienisti dove sono finiti?

Come mai in tempo di elezioni arrivano le letterine di invito al voto anche a Vienna dall’Italia e non ci giunge ora un bel pacchetto contenente visiera, guanti, disinfettanti, mascherina e due istruzioni che vengano raccontate come gesto di civiltà e non come minaccia per irresponsabili e devianti.

Il sociologo I. Lemert avrebbe molto da dirvi su come si costruisce un deviante. Caspita se non li state costruendo, i devianti, con questo modo di trattare gli italiani come untori, irresponsabili e incapaci di comprendere il pericolo. Lo Stato tratta gli Italiani come pazienti sragionanti a cui fare un TSO, lasciandoli soli chiusi in casa, guardandosi in cagnesco, senza strumenti di gestione e l’umore adeguato per fronteggiare un’emergenza socio igienica. Di questo si tratta. Dalla parola “sociale” non possiamo prescindere, eppure di sociale non si è visto nulla.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la salute è definita come segue:

 “Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, ed è considerata un diritto. Lo Stato si impegna nella promozione della salute di ogni individuo.

Io non sono sicura che lo stato si stia occupando della salute dei cittadini secondo la definizione mondiale, come vediamo fare invece in altri Stati, anche in Austria, ma credo che stia ricorrendo solo a tutelare l’eventuale “assenza di malattia” da coronavirus, cioè solo la sanità del corpo. Chiusi in casa, di malattie ne possono sopraggiungere altre, se non tutelati anche i criteri “psichico e sociale”.

Promozione della salute, in questo caso, sarebbe mandare a casa il Kit anticontaminazione, incoraggiare le persone ad avere fiducia e non terrore, solidarietà e non bieco controllo del prossimo.

Io mi occupo di ricerca e psicoterapia di allucinazioni e psicosi.

Modalità del pensiero che potremmo definire così: idee e comportamenti costruiti a partire da un processo immaginativo che ha la funzione di mantenere un equilibrio esistenziale ed emotivo personale, che può disadattare alla realtà condivisa e sociale e che si autoalimenta nell’impoverimento relazionale.

La dico più semplice.

Le persone che incontro io, per lo più, sono molto sole. Svuotate di ogni ruolo e ridotte a fare gli abitanti domiciliari o sanitari, nel ruolo di pazienti, osservati da tutti come malati pericolosi. E non è un bel vivere. Ecco, potremmo dire che queste persone ora ci guardano sfregandosi le mani soddisfatti dicendo: dai, dimmi, come si vive così? Lo hai capito ora, umano sano, come si vive con questo pregiudizio addosso?

Adesso siamo tutti considerati malati e tormentati dalla paura, che nella solitudine si ingrandisce diventando terrore e nel terrore la gente tende a salvaguardare solo il proprio mondo, inaridendosi. Questo modo di stare al mondo, però, può portare a scelte di fine vita: la propria o quella del prossimo.

La mente non è altro che una teoria: storie pensate, raccontate, esperite, che costruiamo, rinegoziamo, adattiamo giorno dopo giorno, che si alimentano di conoscenze e scambi relazionali.

Il cambiamento, a cui siamo soggetti tutti, è sempre promosso da una qualche forma di relazione e interazione.

Se il ruolo assunto nella relazione è costruttivo e soddisfacente, la gente smette di vivere in mondi immaginati, allucinati, auto riferiti, distruttivi. Va da sé che più relazioni abbiamo, più ruoli sociali occupiamo, più parti di noi emergono e i pensieri cambiano, e se cambiano i pensieri, cambia neurochimica e sistema immunitario, ed anche le idee suicidarie vengono ridimensionate. Se ognuno coltiva in modo legittimo la propria complessità, i tanti ruoli che ognuno abita, ci sono più probabilità di entrare in relazioni con qualcuno o qualcosa che ci faccia stare bene.

Tante volte si riescono a gestire e sopportare ruoli e identità in cui soffriamo, semplicemente attingendo da altri ruoli e altre relazioni nelle quali traiamo energia vitale. Io per esempio attingo dalla natura, in una dimensione contemplativa, l’energia necessaria per fronteggiare le difficoltà che toccano a tutti nella vita, e prendo aria mentale. Questo mi permette di affrontare meglio il mio ruolo di mamma e casalinga h24, rinunciando momentaneamente al mio lavoro sociale.

Questa è quella che si chiama Salute implicando anche la dimensione psichica e sociale e non solo l’assenza di malattia. Siamo tutti composti da più ruoli e identità che necessitano di essere vissute per rimanere in equilibrio emotivo.

Quando incontro persone definite psicotiche, non curo niente, mi preoccupo solo che amplifichino le reti relazionali e cerco di comprendere il vantaggio che traggono dai mondi auto riferiti, analizzando il bisogno soddisfatto dall’allucinazione.

Proviamo a fare un’analisi di quanto accade ora in Italia. Quali sono i pensieri che sempre uguali si ripetono nelle menti degli Italiani? Quale modalità narrativa è stata costruita e utilizzata sui virus?

“Se esci di casa muori, perché siamo in guerra.”  Un’amplificazione esponenziale di quanto sta accadendo che terrorizza tutti. Stando ai manuali psicopatologici (che non uso mai), questa modalità di definire la realtà è psicotica, perché non corrisponde al” vero”, eppure questo è il modo in cui le persone stanno vivendo questa emergenza socio-igienica, e a partire da questa asserzione si costruiscono stati d’animo, scelte di fine vita e conflitti familiari, pur essendo una menzogna.

Chi ha costruito questa modalità narrativa non vera, psicotica direbbero gli “psico” diagnosticanti? Con quali obiettivi?

Proviamo a rinegoziare l’asserzione facendo un esercizio psicoterapeutico.

“C’è in giro un virus che ha un tasso di trasmissione e contaminazione molto alto, inusuale, che miete molte vittime tra gli anziani (che l’Italia fosse un paese vecchio, era già conosciuto come dato ed emergenza, chiaro che abbiamo più morti in quella fascia di età di altri paesi europei), i più fragili di salute, i professionisti sanitari: insomma, quelli che bazzicano gli ospedali più frequentemente (…ops!). Lo stato italiano non possiede risorse sufficienti per fronteggiare l’emergenza. “

Ci siamo già dimenticati delle sacche trasfusionali infette che hanno avuto la possibilità di circolare negli ospedali? Mio nonno materno negli anni novanta si è beccato l’epatite durante una pratica ospedaliera.  

Quale è il problema allora? Il rischio di contaminazione e contagio.

Sono entrambe due parole che implicano una qualche forma di relazione.

Possibile che non si stia puntando a progettare relazioni a basso rischio, e si isolino solo le persone, mettendo in serio pericolo la salute di ognuno?

Possiamo veramente riaprire le attività commerciali senza aver fornito gli strumenti conoscitivi ed operativi per fronteggiare le relazioni a rischio infezioni?

Brancolano tutti nella confusione, spaventati. Quale modo migliore per far ammalare la gente?!

Come possiamo allora fronteggiare questo virus se non ci vengono fornite le risorse dallo Stato per entrare in una relazione riducendo al minimo le possibilità di contagio?

L’ospedale di Napoli, eccellenza che è riuscita a costruire protocolli relazionali che hanno impedito i contagi tra il personale sanitario, ci dimostra che il problema non è il virus, ma l’analfabetismo funzionale anche in chi dirige le strutture ospedaliere.

L’analfabetismo che è preesistente al Covid 19: infatti in Italia è emergenza anche per infezioni ospedaliere, anche di altra natura. Solo che questo virus è più affettuoso degli altri, si attacca più facilmente a tutti una volta fuori dagli ospedali.

Un mio caro amico psichiatra, che sento tutti i giorni ormai perché lo sento vibrare teso come una corda di violino ed ogni giorno è sempre più spaventato, mi dice che nell’ospedale in cui lavora lui, le persone infette vengono fatte passare per i corridoi comuni; che l’aria del reparto di psichiatria è la stessa del reparto degli infetti. Errori grossolani che costano la vita a chi la sta mettendo a disposizione della società.

Ricordo quando in ospedale ci lavoravo anche io, e la responsabile della formazione si lamentava che gli infermieri di vecchia generazione non volessero indossare e cambiare i guanti per ogni paziente, quelli giovani erano abbastanza schizzinosi da voler seguire volentieri il protocollo. Mi ricordo anche le infermiere che si lamentavano di dover disinfettare ferite con materiale scadente, acquistato per risparmiare. Ma sono solo esempi. Se dovessimo intervistare i professionisti sanitari, di errori commessi a rischio contagio ne verrebbero fuori un’immensità.

Devo dirlo che nelle case austriache è vietato entrare con le scarpe? Che la pediatra permette l’ingresso nel suo ambulatorio solo con i calzari ai piedi (che mette lei a disposizione dei pazienti)? E questo sempre, mica solo ora. Devo dirlo che a Vienna hanno allestito un unico ospedale per gli infetti e non mescolano le patologie?

Solo che i medici ora, in Italia, sono proprio incazzati: con lo Stato, con la popolazione che si infetta. Chissà dove, considerata la frequenza con cui si sono ammalati i medici?! Dove è finito l’ordine dei medici e di tutte le altre professioni sanitarie? I lavoratori vanno tutelati, e mandarli nei reparti senza equipaggiamento relazionale contro il contagio e senza specifica formazione è un errore grave che moltiplica i contagi.

Chiudere le persone in casa senza garantire loro che venga tutelato il principio di salute secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità è un errore grave.

Veramente pensate che il problema sia la libertà dei cittadini italiani? I corridori, i bambini che passeggiano con le mamme? Veramente pensate che “stiamo a casa” sia la soluzione che uno Stato dovrebbe offrire? Non sta offrendo niente. Sta provando a tutelare la sanità, prendendosi la salute dei cittadini.

Io non lo so per quale oscura ragione in Italia siano venuti meno due principi universali di tutela degli individui; so solo che gli Italiani, popolo di Santi, Poeti e Inventori, popolo che è stato un’ eccellenza per questo in tutto il mondo, in questi decenni ha commesso l’errore di dare i posti decisionali a chi i santi li aveva in Paradiso, le poesie son diventate giornalismo sciacallo, e le invenzioni, beh, le invenzioni ce le siamo portate all’Estero, dove ci sono ancora soldi per la ricerca e il pensiero divergente può avere ancora valore.

Restituiteci l’Italia dei nostri libri di storia, e se proprio non ce la fate, toglietevi di mezzo e lasciate spazio a chi non si è venduto i propri Avi per una pagnotta in più.

Per gli italiani all’Estero, queste settimane, le frontiere chiuse, suonano come un esilio, eppure, non siamo in guerra.

Questo articolo ha il seguito nell’articolo La “cinquantena” dello Stato sordo alle necessità dei cittadini. Fase 2. L’ascolto!

Di Maria Quarato, autrice del libro

Allucinazioni: sintomi o capacità? Racconti di errori diagnostici, soluzioni, ribellione e libertà

SHARE
Previous articleLe doppie diagnosi: problemi e applicazione
Next articleLa “cinquantena” dello Stato sordo alle necessità dei cittadini. Fase 2. L’ascolto!
La dottoressa Maria Quarato, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta, ha conseguito la laurea in Psicologia Clinica ad indirizzo neuropsicologico a Padova e il titolo di Psicoterapeuta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista. Per anni cultrice della materia ed assistente alla cattedra di Psicologia Clinica e Psicoterapia, dipartimento di Psicologia Generale Università degli Studi di Padova. Ha partecipato ad un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, promosso dal Miur, Ministero Istruzione, Università e Ricerca . Autrice di diversi articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali e nazionali. Membro del comitato Scientifico della rivista " Scienze dell'interazione" Attualmente docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista e Presidente “Ediveria”, Associazione per la ricerca internazionale e la consulenza “dell’udire voci” con sede a Vienna. Da anni si occupa di ricerca e psicoterapia dell’udire voci, di neuropossibilità e complessità esistenziali, di processi migratori e di epistemologia delle scienze cliniche della psiche. www.ediveria.com www.scuolainterazionista.it

6 COMMENTS

  1. Salve, ho trovato il suo articolo illuminante sotto due punti di vista: per chi, come me, vuol comprendere meglio i processi sociali che sono in corso in Italia in questo momento, ma anche per “quantificare” la povertà culturale della classe dirigente nazionale che poi porta a misure come quelle che stiamo vivendo ed al clima emotivo che tutti ci avvolge. E, tuttavia, se così è, secondo lei, come si può – a partire dai comportamenti individuali quotidiani – evitare, perlomeno, di rimanere invischiati in questa “melma” emotiva? Chi scrive è figlio di una persona che soffre di psicosi, ormai 79enne, ha avuto un padre, defunto, ma molto longevo, che ha sofferto di depressione (forse per essere sempre stato accanto alla moglie malata) e adesso si barcamena con un ricovero ospedaliero (della mamma) nel quale l’unico strumento relazionale è con i medici ed è soltanto telefonico (si parlava di “rottura” del tessuto relazionale, nel caso di specie anche quello che si sviluppa nell’accesso al reparto ospedaliero e nella funzione del familiare come supporto per il parente ricoverato e, diciamocelo, anche di controllo dell’operato della istituzione ospedaliera). Grazie. Cosimo da Roma

  2. Semplicemente GRAZIE! Non ho fatto studi di psicologia o affini ma ha scritto con chiarezza e semplicità quello che sento da cittadino italiano ancora pensante e che vorrebbe lasciare una società e una umanità miogliore a nostri figli.

  3. Siamo arrivati tardi perché eredi del riduttivismo conoscitivo, che spesso non riesce a configurare in modo adeguato quale sia il problema da fronteggiare e non riesce a pensare in termini di gestione della complessitá. A gennaio, il problema che si delineava all’ orizzonte era, erroneamente, come tenere a distanza i cinesi, come se un virus avesse nazionalitá e passaporto. Sarebbe bastato allora aumentare la formazione socio igienica.

    Penso che ognuno di noi possa dare il suo contributo, anche da distanti, divulgando la scienza con un linguaggio di senso comune, per evitare che la cultura e la capacitá di pensare, rimangano di pertinenza solo di un elité che ha avuto la possibilitá di accesso all’istruzione universitaria ( che non é sempre garanzia di competenza) . È necessario rendere la conoscenza divulgativa.

  4. Complimenti Maria! Ho finalmente trovato espresse in modo lucido considerazioni che scaturivano anche a me sin dall’inizio di questa emergenza. Il problema è che bisogna avere la costanza di leggere tutto fino in fondo, cosa molto difficile per la nostra società nella quale non si ascolta chi ti parla per più di pochi secondi. Provengo da un “mondo” diverso ma ho lavorato in un ospedale ai tempi dell’incidente di Chernobyl. Posso dire che l’impreparazione nello gestire situazioni critiche c’era allora e continua, immutata, adesso. Sto rivedendo esattamente la stessa incapacità di spiegare alla gente la situazione in modo chiaro e comprensibile, fornendo indicazioni pratiche ed efficaci sui sistemi di protezione da adottare. Al contrario si alimentarono paure e fobie, spesso ingiustificate, mentre le criticità venivano spesso sottovalutate. Anche allora scattarono i divieti generalizzati: all’epoca vi fu quello relativo al consumo di verdure a foglia larga. I colleghi britannici dell’NRPB commentarono che le misure italiane erano state prese in forte ritardo e, a quel punto, esagerate.
    Ci ricorda qualcosa?

  5. Buongiorno Maria.

    Ho letto con molto interesse il post e lo condivido profondamente.
    Essendo io stessa una expat da anni che ha vissuto (o è fuggita) ovunque per evitare tutto ciò che avviene in Italia e descritto con tanta accuratezza nelle parole di cui sopra, mi chiedo oggi se parte della responsabilità di tutto questo sia anche delle persone come me che hanno preferito andarsene e scegliere un altro cammino invece che lottare per evitare la crisi in cui ci troviamo oggi.
    Trovo abbastanza naturale che se la maggior parte dei cervelli scappano, è più facile mantenere lo status quo e peggiorare in termini di evoluzione, diritti umani e del cittadino. E credo che non serve nemmeno documentarsi eccessivamente per trovarne le prove, basta pensare all’involuzione della curva politica : oggi Conte è stato elevato allo status di EROE solo per avere un tono di voce rassicurante, essere un bell’uomo (de gustibus) e saperne effettivamente qualcosa di Diritto – caratteristica che io nella mia ingenuità davo per scontata quando si parla di politica.
    Ma al di là di tutto questo, vorrei un parere, un’opinione, forse una speranza, concretamente cosa è possibile fare perché l’Italia torni ad essere il paese dei nostri libri di storia e venga lasciato spazio a chi non si è venduto i propri Avi per una pagnotta in più?
    Una buona giornata.

LEAVE A REPLY