Storia di una pensatrice dialogica. Dalle voci prese in prestito al diritto di udire la propria voce

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Laura Guerra

Ringraziamo Maria Quarato per la concessione di questa bellissima storia raccontata da una sua paziente e che sarà inserita nel suo prossimo libro.

L’illustrazione di presentazione dell’articolo è di Chiara Aime

 

Le voci possono essere disturbanti, creare ansia e spaventare se non se ne conosce il significato. Chi le sente può avere la paura di impazzire.

Possono sembrare le voci di persone conosciute, parenti vivi o morti ed esprimere desideri reconditi, paure nascoste, il bisogno di un sostegno dalle persone udite o nostalgia di ricreare un rapporto con esse. Spesso esprimono un conflitto interiore.

Le voci rappresentano uno strumento attraverso il quale si dà voce ai propri pensieri che, in quel momento e per vari motivi, non possono essere espressi in modo esplicito dalla persona.

Così le voci possono rappresentano la rabbia, l’ansia, la delusione, il senso di colpa, il dolore, la paura e altri sentimenti che non ci si sente legittimati di esprimere.

Prendere coscienza, attraverso l’aiuto professionale, del significato delle voci permette di accogliere e legittimare i propri sentimenti e di rispettarli senza averne paura o sentirsi giudicati.

 

La storia

Si presentavano come fulmini a ciel sereno, senza avvisarmi e senza chiedermi il permesso. Dicevano verità scomode, mi incitavano a riflettere o a mettere tutto in discussione, mi davano consigli, facevano delle osservazioni. E io, puntualmente, cercavo di cacciarle via e piombavo nel panico: “Ecco, ci risiamo, sento le voci di nuovo… vuol dire che sono messa davvero male anche questa volta”.

Sì, perché per me quelle voci indesiderate equivalevano al primo e inequivocabile sintomo di un tracollo mentale, di uno stato di ansia che segnava un labile confine tra la normalità e la follia. La mia sensazione era aggravata dal fatto che, nei momenti più stressanti, mi trovavo a dialogare quasi impercettibilmente con loro, magari mentre stavo studiando o mentre ero immersa nella visione di un film, così che naturalmente non capivo niente di ciò che leggevo e non osservavo neppure un fotogramma.

Una volta passati questi momenti di dialogo interiore concitato, a volte col cuore che batteva forte per l’agitazione, mi capitava di sorridere sarcasticamente fra me e me, pensando che prima o poi sarei diventata matta sul serio, se avessi continuato a dar retta a…a chi?

Non lo sapevo nemmeno io in realtà, perché queste voci potevano incarnare tante persone, solitamente molto vicine a me: la mia migliore amica, mia zia, la mia professoressa preferita e addirittura mia nonna defunta da ormai qualche anno.

Mi sono sempre trovata in difficoltà a definire cosa fosse davvero ciò che io udivo: forse delle lievi forme di allucinazioni, o magari il desiderio recondito di sentirmi dire proprio quelle parole? Oppure paure nascoste, idee del mio subconscio, nostalgia di alcune persone e bisogno di un loro parere che non riuscivo a chiedere? Molto più probabilmente un semplice tiro mancino dello stress, mi dicevo.

In effetti sono sempre stata convinta di avere un brutto rapporto con me stessa nei periodi di tensione, per via della mia tendenza a somatizzare ogni emozione negativa e a vivere con difficoltà e paura ogni novità, ogni imprevisto, ogni periodo di transizione. E poi, come se non bastasse, nei momenti clou si aggiungevano pure loro, queste famigerate voci che si insinuavano con prepotenza nella mia mente e che mi distraevano dalle mie occupazioni, facendomi sentire non solo ben impostata sulla via per il crollo psicologico, ma anche improduttiva e incapace a volte, perché mi impedivano di concentrarmi su qualsiasi cosa.

Mi viene da sorridere se penso che in certi casi sono quasi riuscita a patteggiare con loro: supplicavo “Adesso no, proprio non posso, a questo ci penso più tardi”, perché non ce la facevo più. Molto più spesso, invece, chiudevo i libri o spegnevo il computer e mi lasciavo andare agli spunti, ai rimproveri, alle osservazioni e alle domande che mi offrivano.

Col senno di poi, ho imparato a riconoscere queste voci e a collegarle a determinati momenti, ad esempio la mia migliore amica era la voce che mi rimproverava e faceva l’avvocato del diavolo a ogni mia idea, mentre mia nonna si limitava a lanciare delle puntuali e azzeccate constatazioni (facendomi altrettanto puntualmente sobbalzare dalla paura), ad esempio come quella volta che, mentre mi giravo e rigiravo nel letto nel cuore della notte, senza riuscire ad addormentarmi per via del ronfare di mio nonno, mi sussurrò “Certo che tuo nonno è proprio un rompipalle eh”.

Quando poi si trattava di ponderare minuziosamente i pro e i contro di una scelta delicata, era la voce di un’insegnante a farmi considerare svariate prospettive. Insomma, alla fine a queste voci mi ci ero abituata da chissà quanto tempo, fra periodi in cui erano più insistenti e altri in cui a malapena le sentivo.

Ecco che negli ultimi tempi, però, durante il 2017, mi sentivo particolarmente tormentata da loro, in concomitanza con un periodo particolarmente difficile: l’ultimo anno di università, la tesi, i continui conflitti con i genitori, la paura del trasferimento a Vienna, l’angoscia di perdere i miei affetti e le mie sicurezze, la difficoltà ad aprirmi e a chiedere aiuto alle persone vicine…perché io sono forte, non posso chiedere aiuto, non posso farmi vedere fragile.

E allora, più stavo in silenzio io, più parlavano le voci: non mi lasciavano tregua, a volte addirittura faticavo ad addormentarmi. Aumentava in me la sensazione di essere inadeguata ad affrontare questo periodo, perché non facevo altro che sentire questo bombardamento uditivo in testa e mi riusciva sempre più difficile rilassarmi. Cosa ho di sbagliato? Perché non smetto di torturarmi? Perché non riesco ad essere felice di tutto quello che ho? Perché devo essere così sensibile, così complicata, così angosciata? Ho quanto di meglio una persona possa desiderare, eppure sto diventando scema a forza di questi conflitti all’interno del mio cervello, amplificati dallo stress e dalla paura.

Poi, subito dopo la laurea, appena iniziavo per la prima volta a trovare un po’ di pace e mi sentivo finalmente pronta a spiccare il volo verso la mia avventura all’estero dopo questi mesi complicati, incombeva su di me la doccia gelata: la malattia.

Una di quelle malattie che, a 22 anni, fanno paura solo a pronunciarne il nome e pensi possano capitare solo agli altri. Mesi di cure estenuanti, durante i quali sperimento tutto l’attaccamento alla vita che nel periodo precedente facevo fatica a cogliere attivamente, perché troppo inglobata nel vortice della negatività e del pessimismo.

Mesi durante i quali mi tengo più sveglia e attiva che mai, perché non posso più permettermi di sprecare tempo prezioso e anche perché poi chissà come finirà la battaglia. In questo periodo non sento più nessuna voce solita, ma sento quella dell’oncologa.

Appena mi sveglio, a partire dal quarto giorno dopo la chemioterapia: mi dice quanti giorni “buoni” ho a disposizione prima di ricominciare la tortura e mi elenca tutto ciò che vorrei o dovrei approfittare di fare in questi giorni. Verso gli ultimi cicli, quando sto sempre peggio e devo raccogliere tutte le mie forze residue per continuare le cure, la voce comincia a presentarsi anche tutte le altre mattine e mi snocciola addirittura il numero di giorni “brutti”, quelli in cui ogni mattino, pomeriggio e sera è scandito dal terno al lotto degli effetti collaterali più disparati. Così, senza quasi rendermene conto, ogni giorno mi svegliavo aprendo e chiudendo le mani automaticamente, accompagnata dalla voce, mentre facevo il conto alla rovescia dei giorni che avevo per fare tutto quello che dovevo fare, facendo fruttare il mio tempo al meglio.

Ora, a distanza di più di un anno, sorrido all’ idea che neanche in quel periodo riuscivo a starmene tranquilla ad annoiarmi: dovevo forsennatamente tenermi impegnata proprio nell’ unico momento in cui, per ironia della sorte, ero socialmente giustificata a prendermi una bella pausa dallo studio e dagli impegni, viziata e coccolata da tutti. Eppure no, non me lo permettevo: la voce comandava, io eseguivo come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Arriva settembre, finiscono le cure e mi trovo catapultata di nuovo nel mondo, alla velocità della luce. Il trasferimento all’estero, l’inizio della laurea specialistica, una nuova cultura, una nuova lingua, una nuova casa. Tutto è nuovo e mi destabilizza, ma io sono stanca, nel corpo e nella mente. Ho la smania di fare tutto, ma anche la paura di non avere abbastanza tempo, di non avere abbastanza forze, di non avere fatto la scelta giusta. Ho il terrore di sentirmi sana, ma anche il rifiuto di quella malattia che già mi ha tolto tanto.

Ed ecco che ritorno a sentirle incessantemente, però questa volta incarnano tante persone diverse, che neanche me le ricordo tutte. La costante è che sono tutte perplesse, dubbiose e impaurite, mi mettono mille pulci nell’orecchio, mi fanno sentire insicura. Arrivo nel nuovo Paese frastornata, esausta da tutto, e decido finalmente di rivolgermi a una psicologa.

Incontro la dott. ssa Quarato, quasi senza neanche averle detto come mi chiamo, le dico che sono convinta di soffrire di ansia. Come altro potrei definire quello stato mentale che mi fa sentire nella testa voci che non riesco a fermare, voci che mi dicono cose di cui a volte ho paura?

Soltanto con un intenso percorso di auto conoscenza di me, iniziato e progettato insieme alla psicologa, imparerò a conoscere anche queste voci e a comprenderne la funzione e l’utilità.

Mi si apre un mondo quando comprendo che non sono un sintomo di tracollo psicofisico, bensì uno strumento tramite cui imposto un ragionamento, una strategia che mi permette di dare letteralmente voce a pensieri che ho paura o che non mi sento pronta ad esprimere.

Prendo in prestito queste voci dalle persone che mi conoscono meglio e delle quali mi fido, perché da loro accetto che mi vengano fatte presenti determinate cose.

Altre volte faccio sfogare a loro la rabbia e il nervosismo che non sono in grado di esprimere da sola.

Ecco, sulla rabbia e sull’ espressione di sentimenti come la delusione e il senso di colpa abbiamo lavorato molto, perché una delle mie difficoltà più grandi è da sempre quella di auto legittimarmi a essere arrabbiata, a esprimere un bisogno, a comunicare esplicitamente un dolore e una paura: credo di non essere in diritto a farlo, perché devo essere forte e brava. Non sopporterei l’idea di perdere qualcuno di importante per avergli fatto capire che mi fa rimanere male un suo atteggiamento, e allora subisco e basta. Grazie a questo percorso, però, col passare dei mesi comincio a esplorare di più me stessa e a scoprire, fra alti e bassi, che la mia complessità non è un limite ma è una ricchezza, e che se continuo a vivere anticipando le reazioni e i comportamenti altrui non faccio bene né a me stessa né alle mie relazioni, perché non vivo il presente, non mi metto in gioco, rimango vittima delle mie aspettative e dei miei pregiudizi. In concomitanza con questo percorso, le voci mi accompagnano ancora, sempre meno invadenti rispetto ai periodi clou precedenti, ma comunque pronte nel farmi pensare alle mie scelte, a cosa vorrei fare dopo, a ciò che ho fatto bene e a ciò che ho fatto male. A volte è come se mi dessero un giudizio, una sorta di feedback, specie da quando abito da sola, perché ora devo davvero dipendere da me stessa e ho tanto tempo per me e per i miei pensieri. Passano i mesi e acquisto sempre più sicurezza: mi ambiento nella nuova città, mi abituo alla mia nuova vita, trovo il coraggio di sentirmi sana e di riprendermi tutto ciò che avevo dovuto mettere in pausa l’anno prima. Soprattutto imparo ad ascoltarmi un po’ di più, a tenermi meno emozioni dentro, a negoziare di più con chi mi sta accanto esprimendo le mie necessità e i miei timori senza paura di essere percepita come un peso e di essere abbandonata. Addirittura, inizio ad arrabbiarmi ogni tanto, quando è il caso, mentre fino a pochi mesi fa avrei pianto a dirotto alla sola idea di poter fare questo “torto” a un amico. Le voci quasi non si fanno più sentire, finché conosco una persona che mi piace, che mi fa battere il cuore. Sono confusa, mi sento bloccata, ho paura a lasciarmi andare e non mi sento pronta a legarmi, né sessualmente né nella relazione in generale. Le voci in tutto ciò dove sono? Anche la Dottoressa mi chiede cosa dicono, d’altronde abbiamo imparato che sono un strumento utile per sviscerare i miei pensieri e per capire meglio cosa mi sta succedendo, no? Rispondo che il problema questa volta è grave: non è che sento “le voci” in generale…sento la mia di voce! Se la prima volta che sono venuta qui credevo che udire voci fosse l’anticamera del delirio, adesso penso che sentire la mia stessa voce sia proprio sintomo di una confusione mentale allo sbaraglio: almeno prima era come se qualcun altro mi fornisse uno spunto differente, adesso invece sono proprio io, la stessa persona che è tornata qua in balia delle proprie paure e dei propri limiti, a parlare a me stessa. La Dott.ssa sorride, dice che è la cosa più bella che mi potesse capitare. All’inizio non capisco, mi scappa una piccola risata isterica, penso che non devo essere messa proprio bene se ora ho anche l’aggravante di sentirmi parlare da sola ininterrottamente nei momenti meno opportuni. Eppure adesso mi sembra così strano non esserci arrivata da sola: se la voce è la mia, vuol dire che finalmente mi sento legittimata a esprimere quei pensieri e quegli stati d’animo che prima delegavo all’amica, alla zia, alla nonna, all’insegnante o al medico. Posso dialogare liberamente con me stessa ed esprimere anche le sensazioni e le paure più disparate, senza mettere necessariamente in gioco la strategia di far parlare qualcun altro al posto mio. Non ci avevo mai pensato prima, invece adesso mi rendo conto che, mentre mi sentivo ancora una volta travolta dalla confusione e dallo stress, in realtà proprio in questo momento stavo prendendo in mano la mia vita come forse mai prima d’ora, trovando la sicurezza e il coraggio di esprimere a me stessa le mie perplessità e le mie indecisioni. La cosa buffa è che la mia voce interiore ormai non mi risparmia neppure il mio proverbiale sarcasmo, strappandomi una risata nei momenti in cui penso troppo, mi faccio prendere dal panico per piccolezze o cerco di mentire a me stessa, peraltro con scarso risultato.

Si presentano ancora come fulmini a ciel sereno, senza avvisarmi e senza chiedermi il permesso. Però questa volta il permesso non me lo devono chiedere, perché le mie voci sono semplicemente i miei pensieri. Miei e di nessun altro.

 

CONTATTI:

Maria Quarato, Psicologa  Clinica – Psicoterapeuta

Ordine degli Psicologi del Veneto – Italia –

Bundesministerium  für Gesundheit –  Austria –

Contatti telefonici:

AT. 0699.17353604

IT 349.6453762

Zentagasse 18 top 3-4 1050 Vienna

 

 

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Laura Guerra è laureata in Scienze Biologiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Farmacologia all'Università di Ferrara. Si interessa dei trattamenti psicofarmacologici nel contesto psicosociale del disagio emotivo. Pone particolare attenzione ai problemi dell'eta giovanile e infantile. Ha tradotto il libro di Peter Breggin "La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie". Recentemente ha tradotto il libro di Joanna Moncrieff "Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici".

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