Secondo, non siate pazienti ma esigenti, responsabili…e correttamente informati. La sofferenza psicologica non è un disturbo mentale!

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Maria Quarato

 

Ecco un articolo che ci permette di comprendere come mai la gente che chiede una consulenza psichiatrica, spesso, finisce per ammalarsi gravemente senza possibilità di ritorno.

Iniziamo questo racconto con Allen Frances, noto psichiatra che ha contribuito alla stesura del DSM, Manuale diagnostico e statistico di quei comportamenti e sentimenti che chiamano disturbi mentali. Dimenticandosi che si tratta di sofferenze psicologiche di varia natura.

Frances, con il suo libro “Primo, non curare chi è normale, contro l’invenzione delle malattie”, ci mette in guardia, come professionisti delle scienze del pensiero umano, dal cercare di capire forme di sofferenza, individuale o collettiva, attraverso un’etichetta diagnostica psichiatrica intesa come malattie della mente.

Che poi, a voler essere precisi, son tutte sindromi quelle psichiatriche e non malattie. Ma vale la pena di essere precisi, perché è a partire da questa imprecisione che nelle scienze psichiatriche e farmacologiche, da decenni, si va in cerca della molecola magica che guarisca tutti, anche se, non si può guarire la sofferenza, si deve ascoltare, comprendere e modificare con interventi, strategie e risorse adeguate.

Le malattie, quelle proprie del corpo, hanno cause certe, oggettivamente identificabili. In psichiatria invece non si può parlare di malattie perché, in decenni di ricerca, non si è stati capaci di individuare una sola causa certa a quei comportamenti che chiamano erroneamente sintomi, che poi non sono propriamente sintomi, ma comportamenti devianti rispetto a norme sociali e culturali.

L’ipotesi psichiatrica, mai verificata, è che la sofferenza psicologica, di varia natura, sia causata da neuroni, che sono le cellule del cervello, che funzionano “male”: da qui l’idea di dare psicofarmaci.

Viene da chiedersi come mai, se di neuroni si tratta, non se ne occupino i neurologi. Ma i neurologi, da medici del corpo, capiscono bene che la mente non è un organo e si tengono lontani da quello che non possono vedere con referti oggettivi come tac, risonanze ecc… Si è mai vista la risonanza magnetica di una mente? Pare proprio di no.

Le sindromi psichiatriche si configurano solo come una concomitanza di comportamenti, perlopiù insoliti, devianti, straordinari, che dal punto di vista statistico, si presentano insieme nella vita di una persona. Pianti infiniti, voci dentro e fuori la testa, aggressività, ragionamenti inconsueti e apparentemente illogici, senso di fallimento, vuoto esistenziale, mancanza del desiderio di vivere, “dipendenze” di varia natura ecc…

Nessuno psichiatra ricercatore, neurobiologo, neurofisiologo, psicofarmacologo ecc… ha mai scoperto cause certe di natura biologica per la sofferenza umana, (ma neanche gli psicologi, ma di questo ne parlerò in un articolo dedicato) solo concomitanze statistiche dicevamo. Come dire che nel giorno di Natale, statisticamente, tante persone mangiano eccessivamente, baciano tutti quelli che incontrano, si scambiano regali. Potremmo chiamarla sindrome da iper-alimentazione o sindrome da iper-socialità.

Come mai è importante trovare le cause delle malattie in medicina? Semplicemente perché è attraverso le cause che si possono offrire terapie corrette, adeguate, certe, curanti. Infatti, in psichiatria, la prescrizione degli psicofarmaci è un ‘arte complicata da alchimisti che non offre alcuna certezza di guarigione come avviene nelle altre specialità mediche.

Prescrivono un farmaco, a cui ne aggiungono un altro, e poi cambiano le dosi, e poi ricambiano il farmaco, così all’infinito, senza alcuna certezza di guarigione. E questo accade semplicemente perché non si guarisce dalla diversità, si comprende.

Gli psicofarmaci non sono una terapia certa, sono un tentativo di appiattire emotivamente le persone affinché non avvertano più le loro sofferenze psicologiche, e si mettono buone, senza disturbare il prossimo. Peccato che con la sofferenza si cancelli anche la possibilità di provare felicità.

Gli psicofarmaci sono la zattera offerta ad un naufrago, per evitare l’annegamento, che non toccherà mai più terra, se prescritti a vita. E questa non può essere chiamata né salvezza, né terapia. Le isole deserte, anche se poco abitate, possono essere molto belle se coabitate con persone che ci comprendono e ci amano e ci tendono la mano per farci uscire dalle acque in tempesta. Penso sia proprio questa la terapia adeguata per chi soffre e soprattutto quello che gli manca molte volte.

Se ci atteniamo alla definizione labile del concetto di sindrome in psichiatria, ogni comportamento deviante potrebbe essere inserito nel DSM: tanto è vero che sta accadendo e lo psichiatra Allen Frances si allarma e ci allarma, eppure ha contribuito anche lui, in passato, a scriverlo il DSM. Sarà per questo che è così esperto di “danni psichiatrici”.

Tutto questo ragionamento per dire di non pensare a Gianni, Francesca, Giorgio come il depresso, la psicotica e l’anoressico, ma come persone dotate di capacità di ragionamento e scelta, per quanto i loro ragionamenti e le loro scelte possano apparire devianti rispetto a convenzioni sociali e morali, che nulla hanno a che fare con presunte cause biologiche, ma sono qualità emergenti di relazioni disfunzionali, coerenze autobiografiche costruite sul ruolo della vittima, significati negativi attribuiti alla propria esistenza, senso di impotenza e fallimento ecc…

Ribadiamo. La mente quindi, è evidente per tutti, non è un organo.

Con mente intendiamo indicare, o cercare di definire, il modo in cui pensiamo, che ovviamente si riverbera sui nostri comportamenti e scelte esistenziali. Modi di pensare che cambiano in relazione alle società, culture ed epoche.

Magro è bello è un concetto tutto contemporaneo. Anche il valore inestimabile ed infinito dei nostri figli è contemporaneo e non vale per tutti, in tante culture, società ed epoche, sono stati pressappoco forza lavoro per cui valeva la pensa svegliarsi di notte ripetutamente allo stremo delle proprie forze, per allattarli. Quindi la mente non ha lo stesso statuto ontologico del cuore, non si ammala in senso medico, essendo appunto un concetto e non un oggetto (il cuore e gli altri organi sono oggetti).

Ontologico”, parola da filosofi, ma assolutamente utile anche per chi non deve filosofeggiare, ma sopravvivere al quotidiano esistere nel mondo, senza confondere gli oggetti concreti, dai concetti che invece sono teorie, significati, idee: gnoseologia. Altra utile parola filosofica, faro nel buio dello sconosciuto.

Dietro la complessità del concetto di mente o psiche o coscienza di sé troveremo quindi una teoria, un resoconto narrativo, una biografia, e non un organo che si ammala. I modi di pensare sono modificabili in qualunque momento. Modificare un modo di pensare che genera sofferenza, però, è compito di noi esperti, innestando modalità di pensiero, di conoscenza di sé stessi e del mondo più funzionali alla risoluzione dei problemi che le persone ci raccontano.

Problemi che spesso riusciamo a risolvere se, come detective, ci sforziamo di comprendere i vantaggi prodotti dal problema o dalla sofferenza che la persona ci porta in sede di consulenza.

Se una persona persevera in un comportamento, relazione o stato d’animo, va da sé che ne trae anche dei vantaggi, altrimenti estinguerebbe il comportamento nell’immediato. Considerarsi malato di mente ha anche il vantaggio di de-responsabilizzare e concedersi devianze sociali e morali senza sentirsi propriamente “colpevoli”. Raccontarsi come vittime consente di attribuire ad altri la responsabilità dei propri fallimenti ecc….via discorrendo tra i tanti esempi di scelte esistenziali apparentemente solo svantaggiose, o ego distoniche direbbero gli psichiatri, ma che invece possono contenere notevoli vantaggi. Chi non ha mai fatto una scelta, anche la più bella nella propria vita, senza pagarne anche gli effetti collaterali, scagli la prima pietra.

Se invece smettiamo di osservare l’umano esistere dal punto di vista dell’intenzionale e vantaggioso, e scegliamo di lavorare a partire dall’ipotesi errata che la psiche o mente siano organi “ammalabili”, gli psicofarmaci appaiono la soluzione più adeguata.

Sorvolando sull’illogico dei farmaci di un organo che non esiste come oggetto, non verificabile empiricamente con strumenti diagnostici, pare che in qualche modo, se non usati come unica soluzione definitiva, possano avere dei vantaggi nelle fasi più acute di sofferenza, in funzione della capacità dello psichiatra di prescriverli in modo adeguato. E che non mi si dica che ho posizioni antipsichiatriche, perché invece credo che la professione di psichiatra sia molto utile sia per gestire “la crisi momentanea”, sia per le diagnosi differenziali tra mente e corpo. Distinzione fittizia quella di mente-corpo, dirà qualcuno e concordo, ma è utile per stabilire i campi di pertinenza tra le varie discipline nella medicina occidentale e contemporanea. Configurazione inutile invece nella medicina orientale che non spezzetta l’umano in vari organi, ma ne comprende la complessità olistica.

Nonostante tutte queste consapevolezze ragionevolissime, quello a cui assistiamo invece è la prescrizione di questi farmaci a vita, producendo psicofarmaci dipendenti, persone che devono poi gestire effetti collaterali più dannosi della ragione per cui si è andati in cerca di una cura.

Se tutto ciò è chiaro, come mai assistiamo invece a questo processo di costruzione di “carriere di malati mentali cronici”? Qualche anticipazione è già disseminata nel corso del racconto.

Proviamo a rispondere in modo più approfondito.

A proposito di innesti di pensiero, e capacità di guardare sé stessi e il mondo a partire da altre teorie, mi sono ricordata un dialogo con un ragazzo ungherese, ebreo di nascita, laureato in storia, giornalista, con la lodevole tendenza di farsi qualche domanda in più rispetto a quello che gli è stato insegnato nei corsi di storia.

Alla mia domanda: “deve essere difficile per te vivere in Austria, tra quelle persone che hanno ucciso parte della tua famiglia”, lui risponde in modo autoriflessivo: “Ah, non sono arrabbiato con i nazisti, io sono arrabbiato con il mio popolo perché non si è ribellato, ed ha accettato la sopraffazione.

Mi si è gelato il sangue, una prospettiva che non avevo mai considerato, pur sapendo che la vittima e il carnefice possono costruirsi reciprocamente in modo complementare, intenzionalmente e in modo attivo, a vantaggio di entrambi per certi aspetti.

Allora ribaltiamo la domanda: “come mai la gente accetta di avviarsi a carriere di malato psichiatrico cronico, assumendo psicofarmaci a vita che produrranno devastanti effetti collaterali”?

Temo che la risposta sia che tutti abbiamo bisogno di un’identità attraverso cui raccontarci a noi stessi e al mondo, e chi non riesce a costruire un’identità socialmente definita ed accettabile, finisce per essere collusivo con il carnefice diagnosticante accettando di essere un malato mentale, piuttosto che una persona con stati d’animo, sentimenti e comportamenti che all’altro, che si dice esperto di menti, possono risultare incomprensibili e diventa difficile spiegarsi bene o tentare una negoziazione relazionale per farsi accettare.

Nel ruolo di malato mentale, inoltre, è implicito che la persona venga deresponsabilizzata dalle sue scelte, non gli venga chiesto di essere parte attiva alla risoluzione dei suoi problemi, è implicita la delega esistenziale e, in qualche modo, la diversità percepita per effetto delle norme sociali e culturali, viene normalizzata attraverso la ritraduzione in malattia. Inoltre, tutto sommato, i malati mentali possono fare quello che vogliono, tanto sono mentalmente labili e la passano anche relativamente liscia, visto che tutti li guarderanno pensando “poverini, tanto sono malati mentali”. (E questo discorso nulla toglie alla sofferenza. La gente soffre veramente, nonostante le consapevolezze logiche.)

Come dire: meglio malato mentale che diverso, nessuno o svogliato!

Ma queste son scelte legittime, perché ognuno ha il diritto di scegliere della propria vita (senza ledere quella altrui ovviamente, e questo è campo giuridico, non medico o psicologico).

Così facendo, sorge poi, di conseguenza, il problema di accettare gli effetti nefasti imposti dalle diagnosi psichiatriche.

Quella zattera dispersa nell’oceano, costruita a quattro mani dal diagnosticante e dal diagnosticato (o dalle loro famiglie in alcuni casi, anche in buona fede) che il brillante sociologo E. Lemert chiamerebbe devianza secondaria, per cui le persone smetteranno di essere trattate come persone e finiranno per essere trattate come neurotrasmettitori mal funzionanti e sospettate di essere pericolose a sé stesse e agli altri. Così finiscono per non sentirsi accettate neanche come persone malate, soffrendo due volte, infatti si cerca poi di combattere lo stigma sulla presunta malattia mentale.

Un esempio che potrebbe valere per tutti: la quantità di omosessuali che hanno cercato di farsi guarire da quella possibilità umana (ma anche animale pare) per cui si può provare attrazione sessuale o amare persone che ci rendono felici indipendentemente dall’identità di genere; possibilità che era descritta come anormalità sentimentale e sessuale, diagnosticata come malattia mentale, inserita nel DSM, con tanto di descrizione sintomatica.

Nel momento stesso in cui gli omosessuali hanno rivendicato di poter stare al mondo con la stessa dignità di tutti gli altri, si sono estinte le richieste di cura dall’omosessualità, e ad oggi non si considera più una malattia mentale. Ma lo stesso processo lo abbiamo visto negli anni settanta del secolo scorso, quando venivano considerate malate di menti ed internate donne che non volevano sposarsi o accudire la prole, preferendo scrivere poesie come Alda Merini, o donne sessualmente attratte da più partner. La rivoluzione femminista, come donne, ci ha liberate dai manicomi se non desideriamo una vita da mamme e spose remissive. Questo ci dimostra che la psichiatria cambia idea su cosa sia malattia e cose non lo è in funzione dei cambiamenti sociali e culturali, e non per evidenze empiriche e scientifiche.

Così oggi, nel mio studio, le richieste che mi arrivano non sono più di cura dall’omosessualità, ma di accoglimento della propria diversità (parola brutta che andrebbe sostituita con possibilità esistenziale) a fronte di una società che fatica ancora ad accettare che ognuno è libero di innamorarsi secondo i propri desideri personali. Si soffre di pregiudizio insomma. O mi giungono mamme professioniste a cui rimane il dubbio che stiano facendo le mamme in modo inadeguato, non occupandosi più solo dei propri pargoli, come le loro nonne o bisnonne, ma anche del proprio lavoro; ma nessuna mi ha mai chiesto “dottoressa, mi guarisca dal mio desiderio di lavorare”.

Se parliamo di sofferenza psicologica, veramente si tratta di curare, quindi?

Non si cura la sofferenza e la diversità! Si comprendono offrendo soluzioni.

Mad in Italy ci fornisce il ponte tra il lavoro degli esperti e le persone che chiedono consulenza per una sofferenza psicologica difficile da gestire da soli, dando a chi soffre il diritto di esprimere i propri bisogni esistenziali e di cambiamento, perché nella psicologia umana, non esiste una norma biologica come in medicina, ma solo norme sociali e culturali rinegoziabili dalle persone stesse, che a loro volta cambiano la società. Persone che soffrono ma che responsabilmente si fanno anche carico dei loro processi di cambiamento, guidati dall’esperto.

La prospettiva è profondamente diversa rispetto all’idea di rivolgersi all’esperto sperando che ci giustifichi dei nostri insuccessi dichiarandoci malati ed inabili alla vita.

Quindi probabilmente la richiesta stessa da porre all’esperto dovrebbe cambiare. Non più: “Dottore mi curi”, ma “Dottore mi aiuti a cambiare, a costruirmi un presente in cui la sofferenza mi dia tregua attraverso la costruzione di relazioni e comportamenti capaci di trasformarmi in chi ho sempre voluto diventare, nonostante i miei fallimenti. O mi aiuti a diventare altro da quello che penso di essere in questo momento e non mi soddisfa. O mi aiuti ad accettare che non posso piacere a tutti, ma son felice come sono. Mi aiuti a superare che il mondo può essere ingiusto, come le persone che mi hanno fatto male, e che quel dolore non mi faccia rinunciare alla vita che mi rimane. Mi aiuti ad acquisire il diritto di vivere nella forma che ritengo più adeguata per me stesso, senza nuocere al prossimo.

Poste così le domande agli esperti che dicono di sapersi occupare di sofferenza psicologica, le risposte non sono più prodotte dalle case farmaceutiche, ma da politiche di socializzazione, di sensibilizzazione alla comprensione della diversità, delle variegate possibilità umane, di democrazia del pensiero e delle ricchezze esistenziali. Di coraggio e determinazione nel cambiare quello che non funziona, piuttosto che perseverare nella polemica e nel lamento.

Soffro e vorrei una soluzione! e sappiamo già che la soluzione non è in una molecola chimica, ma nel desiderio di costruire felicità. Anche se una molecola calmante, quando si sbrocca, può essere utile, almeno quanto il caffè quando si dorme poco.

A noi esperti di sofferenza umana il compito di offrire non solo terapie molecolari, ma anche gli strumenti del pensiero (idee nuove) adeguati a ricostruire vite distrutte dal dolore, affinché contribuiamo a costruire nuove possibilità narrative ed esistenziali con le persone che incontriamo nei nostri salotti terapeutici o ambulatori clinici. Che poi, a voler essere precisi, non è in un – luogo fisico– che dovremmo saper ospitare le persone che incontriamo, ma in una – relazione costruttiva-, quella che diventa il motore del cambiamento in chi parla e in chi ascolta, a turno, uno per volta, in un processo di comprensione reciproca.

Detto questo, siate esigenti con i professionisti a cui chiedete consulenza, non pazienti, e tanto meno clienti a vita di case farmaceutiche senza validi motivi.

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La dottoressa Maria Quarato, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta, ha conseguito la laurea in Psicologia Clinica ad indirizzo neuropsicologico a Padova e il titolo di Psicoterapeuta presso la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista. Per anni cultrice della materia ed assistente alla cattedra di Psicologia Clinica e Psicoterapia, dipartimento di Psicologia Generale Università degli Studi di Padova. Ha partecipato ad un Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale, promosso dal Miur, Ministero Istruzione, Università e Ricerca . Autrice di diversi articoli scientifici pubblicati su riviste internazionali e nazionali. Membro del comitato Scientifico della rivista " Scienze dell'interazione" Attualmente docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Interazionista e Presidente “Ediveria”, Associazione per la ricerca internazionale e la consulenza “dell’udire voci” con sede a Vienna. Da anni si occupa di ricerca e psicoterapia dell’udire voci, di neuropossibilità e complessità esistenziali, di processi migratori e di epistemologia delle scienze cliniche della psiche. www.ediveria.com www.scuolainterazionista.it

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