Deistituzionalizzazione: Il grande bluff italiano

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Cristina Paderi

Deistituzionalizzazione: Il grande bluff italiano

L’Italia si vanta all’estero di aver chiuso i manicomi e di essere un modello di deistituzionalizzazione. Lo raccontiamo con orgoglio, lo inseriamo nei dossier internazionali e lo utilizziamo come biglietto da visita nelle conferenze sui diritti umani. Ma la verità? La verità è ben diversa, e chi lavora nel settore lo sa bene: abbiamo chiuso i manicomi solo per sostituirli con altre forme di istituzionalizzazione, meno evidenti, più subdole, ma altrettanto oppressive.

Nel 1978, la cosiddetta ‘Legge Basaglia’ ha decretato la chiusura dei manicomi, ma cosa è successo dopo? Gli ospedali psichiatrici giudiziari sono rimasti attivi fino al 2015, e oggi molte residenze sanitarie assistenziali (RSA), strutture socio-riabilitative e comunità alloggio hanno preso il posto dei vecchi manicomi. Cambia il nome, ma la logica rimane la stessa: persone private della loro libertà, isolate, gestite secondo dinamiche istituzionali e con scarso controllo sui loro stessi diritti.

In teoria, la deistituzionalizzazione significa che le persone con disabilità devono vivere nella comunità, avere supporto personalizzato e godere di un’autonomia reale. Ma in Italia, migliaia di persone con disabilità intellettive o psicosociali sono ancora segregate in strutture dove la loro vita è scandita da orari rigidi, regolamenti interni e assistenza standardizzata. Non sono più chiamati “manicomi”, ma nei fatti lo sono ancora.

Molte RSA, ad esempio, sono diventate veri e propri ghetti per anziani e disabili, spesso in condizioni di abbandono, con scarsa trasparenza sui trattamenti e con pochi controlli effettivi. Il COVID-19 ha reso palese la realtà di queste strutture: migliaia di morti, abusi nascosti e isolamento forzato. Ma nessuno si è chiesto: perché queste persone erano ancora segregate in istituzioni invece di vivere in case e comunità aperte?

La verità è che la deistituzionalizzazione vera costa soprattutto in termini di cambio di mentalità, perché significherebbe restituire potere decisionale alle persone con disabilità. L’Italia preferisce quindi mantenere un sistema di istituzionalizzazione mascherata: meno evidente, ma più facile da gestire e più redditizio per le cooperative e gli enti privati che gestiscono le strutture.

Nel frattempo, continuiamo a venderci come paladini dei diritti umani, mentre la realtà delle persone con disabilità rimane fatta di esclusione, marginalizzazione e scelte obbligate.

Se vogliamo davvero parlare di deistituzionalizzazione, dobbiamo smetterla con l’autocelebrazione e iniziare a guardare la realtà per quello che è. Non basta chiudere i manicomi se poi creiamo strutture con gli stessi meccanismi oppressivi. L’inclusione vera richiede politiche concrete, investimenti coraggiosi e un cambio culturale radicale. Fino ad allora, l’Italia resterà un grande bluff sulla scena internazionale.

 

I seguenti documenti offrono un quadro dettagliato delle misure necessarie per garantire che le persone con disabilità possano vivere in modo indipendente e siano pienamente integrate nella società.

  • Linee guida sulla deistituzionalizzazione, anche in caso di emergenza: pubblicate dal Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, queste linee guida mirano a sostenere gli Stati nell’attuazione del diritto delle persone con disabilità a vivere in modo indipendente e a essere incluse nella comunità.

https://www.ohchr.org/sites/default/files/2023-10/Guida-sulla-deistituzionalizzazione-Italian.pdf?utm

  • Commento Generale n. 5 (2017) sul diritto a vivere in modo indipendente e a essere inclusi nella comunità: questo documento del Comitato ONU approfondisce il significato dell’articolo 19 della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, fornendo indicazioni agli Stati su come promuovere l’inclusione e prevenire l’istituzionalizzazione.

https://www.osservatoriodisabilita.gov.it/it/documentazione-relativa-alla-convenzione-delle-nazioni-unite/?utm

 

 

 

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Cristina Paderi è nata e vive in Sardegna. Nel 1990 consegue la qualifica di interprete e traduttrice, per le lingue inglese e francese, presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori di Firenze. Inizia a viaggiare da giovanissima. La passione per i viaggi la porta anche in Romania dove, nel 2005, entra in contatto con la drammatica realtà dei bambini di strada e di quelli abbandonati nelle istituzioni totali post-dittatura. Impara la lingua rumena da autodidatta e decide di organizzare in Sardegna alcune tappe dei tour dei "Ragazzi di Bucarest" coordinando l'ospitalità dei giovani rumeni durante i periodi estivi. Attivista con anni di esperienza nel sociale e nel volontariato, anche internazionale. Per anni ha fatto parte di collettivi e associazioni e dal 2013 è impegnata in tematiche collegate all'ambito psichiatrico, in particolare quello giuridico/legale. E’ autodidatta. Grazie al contributo di alcuni avvocati cagliaritani, nel 2017 organizza un seminario e insieme ad altri apre uno sportello gratuito di informazione e consulenza legale. Nello stesso anno entra in contatto con l'avvocato Michele Capano di Salerno in occasione della presentazione a Cagliari della Campagna, portata avanti dallo stesso, relativa alla ‘Proposta di riforma della normativa del trattamento sanitario obbligatorio in ambito psichiatrico’. Decide di approfondirne i contenuti e nel 2018 aderisce alla costituzione a Roma dell'associazione "Diritti alla follia" di cui è attualmente segretaria.