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L’impiego distorto del sistema penale per imporre trattamenti sanitari: una riflessione su un tema assente nel dibattito del noto evento “Màt” di Modena
La legge 81 del 2014 ha riformato profondamente il sistema delle misure di sicurezza per i non imputabili, con l’intento dichiarato di superare l’istituzione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG). Tra le principali innovazioni, si segnalano le REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), introdotte per sostituire gli OPG come misura detentiva per chi è giudicato incapace di intendere e di volere al momento del reato. Parallelamente, la legge ha mantenuto la misura non detentiva della libertà vigilata, formalmente meno restrittiva ma che, nella pratica, solleva numerose criticità.
Nonostante sia definita come misura non detentiva, la libertà vigilata spesso si traduce in una forma di detenzione di fatto. La Corte di Cassazione, ad esempio, ha riconosciuto la compatibilità con questa misura dell’obbligo di pernottare in strutture sanitarie. Queste, a loro volta, impongono regolamenti interni estremamente restrittivi, che includono il divieto di utilizzo di dispositivi elettronici, limitazioni alle uscite non autorizzate e ulteriori condizioni che comprimono significativamente la libertà personale.
A ciò si aggiunge il problema della durata indefinita della libertà vigilata, prorogabile senza limiti temporali sulla base della valutazione della “perdurante pericolosità sociale” del soggetto. Questo quadro normativo consente di privare una persona della propria libertà per periodi potenzialmente infiniti, basandosi su criteri spesso opinabili o non universalmente validati. Si rischia, così, di perpetuare una discriminazione fondata sulla condizione psichica e sulla presunzione di pericolosità sociale, sollevando interrogativi sul rispetto dei diritti umani e delle garanzie costituzionali.
Il rapporto tra trattamento sanitario e sistema penale è stato discusso durante la Conferenza “Coordinare i percorsi terapeutico e giudiziario dei pazienti psichici autori di reato” (n.d.r.: sarebbe preferibile parlare di “persone”, non di “pazienti”), organizzato nel contesto del Màt – Settimana della Salute Mentale a Modena. Questo evento annuale, promosso dal Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Modena, rappresenta dal 2010 uno spazio di riflessione sui temi della salute mentale, coinvolgendo esperti, istituzioni e cittadini.
Coordinato da Maria Gorlani, vicepresidente dell’associazione Famiglie in Rete, l’incontro ha visto la partecipazione di esperti come Federico Durbano, direttore del DSM-D della ASST Melegnano Martesana; Maria Letizia Venturini, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna; Francesco Maisto, giurista e Garante dei diritti delle persone private della libertà personale; Fabio Dito Psicologo, UOC Processi di cura in salute DSM di Modena e Chiara Gori, rappresentante di associazioni familiari come AIFA (Associazione Italiana Famiglie ADHD) e Famiglie in Rete.
Uno dei temi centrali è stato il bisogno di coordinamento tra i percorsi terapeutici e giudiziari, con la proposta di introdurre la figura del Case Manager. Questo professionista avrebbe il compito di pianificare e attivare risorse per garantire continuità terapeutica e supportare i soggetti nel loro percorso di cura. Tuttavia, il modello di Case Manager presentato non rispetta il principio del consenso informato, pilastro fondamentale del diritto alla salute e della relazione terapeutica. Una figura che imponga interventi o gestisca la cura senza il consenso esplicito della persona rischia di trasformare il processo terapeutico in una dinamica coercitiva, violando i diritti fondamentali dell’individuo.
Inoltre, nel corso dell’incontro sono stati avanzati concetti che suscitano perplessità dal punto di vista scientifico. Ad esempio, è stata ribadita la posizione dell’AIFA secondo cui il disturbo da ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) sarebbe una condizione di natura neurobiologica. Queste affermazioni, riportate anche sul sito ufficiale dell’AIFA, non sono pienamente supportate da evidenze scientifiche consolidate. Nonostante l’importanza di affrontare il tema dell’ADHD, la mancanza di un contraddittorio adeguato ha lasciato spazio a posizioni controverse, rischiando di compromettere la pluralità del dibattito in un contesto come il Màt di Modena, una manifestazione di grande rilevanza e molto seguita.
L’approccio delineato dai promotori dell’incontro solleva ulteriori criticità etiche e pratiche. Definire il percorso giudiziario come un’opportunità terapeutica rischia di subordinare i diritti della persona a logiche di controllo penale, trasformando il sistema giudiziario in un mezzo per obbligare i soggetti psichiatrici a trattamenti sanitari non sempre richiesti o necessari. Questo approccio, che confonde giustizia e terapia, rafforza dinamiche coercitive e stigmatizzanti, minando i principi di autonomia e autodeterminazione.
La proposta di “facilitatori professionali” e di un monitoraggio continuo rischia, inoltre, di tradursi in un sistema di sorveglianza pervasivo. Questo modello, oltre a sollevare questioni etiche, potrebbe compromettere la relazione terapeutica, che dovrebbe basarsi su fiducia e consenso. Affidarsi a strategie coercitive o paternalistiche rischia di perpetuare lo stigma e di trattare i soggetti con disagio psichico come incapaci di autodeterminarsi, contraddicendo i principi di empowerment e inclusione.
La conferenza è disponibile per la visione al seguente link:
https://www.youtube.com/live/LbP8l1Ad7es?si=tuZaDC7w7IFqlHs4