Il diritto alla felicità – Storia di Alessandra

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Laura Guerra

Il diritto alla felicità – Storia di Alessandra

Vivere e convivere con la sensazione di non essere mai abbastanza e rinunciare alla parte autentica di sé per paura di ferire chi ami è un conflitto comune a molti. Rinunciare al proprio posto nel mondo per essere accettati e amati. Fino a quando scatta qualcosa e il diritto alla felicità prevale, ma rimane anche l’amore per le persone che si amano, una cosa non esclude l’altra. Con l’ausilio dell’arte e la creatività, la forza della vita scorre e lascia andare i sensi di colpa e i conflitti che si sciolgono come biscotti sottili nel latte bollente. (Susanna Brunelli)

Storia di Alessandra

Ciao a tutti, mi chiamo Alessandra, ho 44 anni e vivo da pochi anni nel Veneto. La mia città d’origine è Milano.
Raccontare il mio percorso forse richiederebbe più “puntate”, qui desidero più che altro soffermarmi su cosa hanno rappresentato per me le ruminazioni di pensiero nel mio percorso, di cui comunque vi dico come erano cominciate, giusto per contestualizzare e comprendere bene come poi ho gestito il “pensare troppo”.
Entrai in contatto con la psichiatria per la prima volta nel 1994, a 14 anni appena compiuti. Da una visita di credo nemmeno 5 minuti fui diagnosticata come schizofrenica paranoide. Ero giunta nel contesto clinico perché piangevo sempre e manifestavo un crollo psicologico estremamente forte, stavo sempre a piangere, un rubinetto aperto di lacrime, anche perché avevo “tenuto botta” in tutti gli anni precedenti: oltre ai litigi aggressivi tra i miei genitori ero stata vittima di pesante bullismo giornaliero a scuola, per la durata di quasi due anni.
Non sentii di potermi confidare a casa. In famiglia si stava come “camminare sulle uova”, e mi formai come una bambina introversa e molto timida con tutti. Quell’atmosfera mi diceva che non potevo esprimere alcuna emozione e necessità di essere ciò che ero, una bambina come le altre. Questo determinò i pensieri ossessivi di alcuni anni dopo.
Ricordo un episodio in cui la mia amata mamma mi cercava mentre io ero poco distante a giocare a bambola a casa di due bambini; anziché sentirmi magari contenta che mi cercasse mi sentii estremamente in colpa di aver abbandonato la mia mamma facendola sentire sola. Fu il primo storico pensiero di quel genere preciso che io, intorno all’anno 2000, non sapendo come definirlo chiamavo “le manie”.
Anche quando ho vissuto da mia nonna insieme a mamma per un breve periodo di separazione tra i miei genitori, poco prima del crollo psichico, ero in cuor mio preoccupata del malessere di mamma ed evitavo di farmi nuovi amici per l’inconsapevole preoccupazione di non lasciarla sola e non “tradirla”.
Quando fui presa in carico, potete immaginare, iniziarono a imbottirmi di psicofarmaci, Serenase, Prozac, Melleril, Disipal, e simili; procedettero anche a farmi intraprendere una psicoterapia privata con la frequenza di 4 volte alla settimana (!).
Tutti questi trattamenti avevano un filo conduttore, che era sia il decidere e valutare loro al mio posto, e sia con il loro accanimento farmi sentire sbagliata, colpevole di avere sofferenza mentale. Dato che la situazione in famiglia non era migliorata e nessun curante ha avanzato l’idea di aiutare anche la mia famiglia, di fatto ero passata da un tipo di vita repressa ad una nuova e forse peggiore repressione.
Vivevo sempre con la sensazione di non essere abbastanza, di deludere la mia famiglia e tutti, e dato che stavo male rovinavo anche le vacanze estive dei miei cari. Non sapendo dove sbattere la testa imploravo io stessa verso i diciassette anni di sollevarmi un poco tramite le medicine. Il neuropsichiatra infantile dell’epoca non risparmiava di usarmi come cavia e io, pur con tutti i miei chili in più o letteralmente dormendo in piedi, almeno non davo noia a nessuno.
Proprio nel 1999, iniziai a comportarmi da adolescente esprimendo ai miei genitori i miei punti di vista e la rivolta che si agisce in genere a quell’età. Ma trovai muri di gomma.
Dunque presi questi miei bisogni e iniziai a sentire insinuare il disturbo molto invalidante dei pensieri ossessivi.
Quando accadde un incendio doloso proprio sotto casa nostra, mettendoci in pericolo di vita, incominciai a sentire incertezza e un grave senso di precarietà.
Le manie, come le chiamavo io, erano costanti, una di seguito all’altra e mi bloccavano in totali paranoie. Non erano fondate, si basavano sul terrore di remote conseguenze se avessi reso manifesti gli “Innominabili” che erano esattamente come sentimenti: La rabbia, il desiderio sessuale e la grande voglia di crescere e di emanciparmi.
Denunciavo a tutti i miei dottori questo problema, ma i terapeuti dicevano di non preoccuparmi (il ché è abbastanza una beffa, visto che quelle stesse erano preoccupazioni), oppure dirottavano la mia attenzione alla storia dei miei genitori; altri, come per esempio lo psichiatra, non si sbilanciava in interpretazioni e si limitava a darmi ancora più antidepressivi e neurolettici.
Mentre la mia giovinezza veniva letteralmente lasciata scivolare tra le mani a causa di queste paranoie totali, nessuno mi aiutava per il fatto aggiuntivo che nemmeno ne avevano strumenti. Ero sempre io che piano piano comprendevo me stessa e ciò che mi accadeva. Studiai anche me stessa.
I farmaci non alleviavano di una virgola questi blocchi emotivi, questi pensieri che giravano sempre nella mia testa.
Passarono molti anni e vidi che qualcosa iniziò a sbloccarsi, e ciò era concomitante probabilmente con quell’emancipazione e quella crescita che mi concedevo. Tanto che il primo giorno al CRA come residente per provare di mia scelta un percorso riabilitativo, mi sentii in colpa di aver abbandonato la mia famiglia.
Erano sintomi che si appoggiavano però nella realtà, perché mio padre mi scriveva in sms che li avevo abbandonati e che sarei stata molto male.
Anche l’educatrice non fu da meno, appena capii che il CRA aveva importanti limiti, interruppi il percorso e lei iniziò a telefonarmi minacciandomi letteralmente che sarei stata male anche per la scelta di tornare all’università (un corso di fumetto post diploma per la precisione).
In tutta questa mia storia, il fare arte, soprattutto da quando avevo iniziato il corso di fumetto, è sempre stato il mio vero e unico aiuto. L’inserimento al corso di arte-terapia del Niguarda, mi aiutò a organizzare e a inquadrare i miei sentimenti e le mie idee in una prospettiva nuova e illuminante . Questa consapevolezza progressiva iniziò a essere nitida, ovvero senza più tanto chiasso, che non era proprio mio ma era il rumore che alla fine avevo subito per tanti anni.
Iniziò il mio risveglio di coscienza nel 2010. Ancora però i rimuginii non erano passati, anche se qualcosa iniziava a smuoversi in me.
Erano sicuramente, rispetto agli inizi della decade 2000-2010, più lievi e meno paralizzanti.
Anche la terapia di gruppo, avviata un anno prima rispetto all’arte terapia, permise di esternare i miei pensieri e di trovare persone che capivano ed empatizzavano. Fu il seme, per l’esperienza della condivisione che poi si potenziò con l’arte terapia.
Quando iniziai a ribellarmi al fatto che fossi obbligata da famiglia e in primo luogo dai clinici ad assumere farmaci inutili e nocivi, fu anche la prima volta che affrontai la realtà nella mia vita, con grinta e determinazione ai massimi livelli: Fu proprio in quel momento che il senso di colpa che sosteneva quel disturbo del pensiero cadde, constatando che i miei tentativi di stare bene venivano a tutti gli effetti contrastati.
Ognuno come poteva, non da meno una giovane psicoterapeuta, che non voleva più seguirmi se io non avessi ripreso il prima possibile i farmaci. Farmaci, che sottolineo, nemmeno rendevano quei sintomi meno pesanti per me da vivere e quindi del tutto inutili.
Avrei potuto sentire una nuova ondata di senso di colpa, ma ero riuscita a scardinare il “loop”, quel qualcosa che aveva creato e nutrito le ruminazioni. Passai dalla paura di deludere alla voglia di essere una persona libera e di stare bene: non potevo deludere più nessuno dal momento che erano gli altri a deludere irreversibilmente me.
Io ho saputo successivamente assumere un atteggiamento amorevole e in pace, ma non ho mai dimenticato questi abusi e semplicemente li utilizzo come ricordi per sentirmi a posto e nel diritto di essere felice.
L’arte come dicevo mi ha sempre accompagnata. Anche nei miei primi tentativi di interrompere le cure farmacologiche, realizzai fumetti e graphic novel che testimoniavano gli accadimenti sia esterni che interni a me.
La prima storica volta che ci provai a smettere i farmaci, potevo contare solo su me stessa come non mai. Tutti erano contro e miravano a farmi riprendere i farmaci. Visualizzai una luce, una forma rotonda che chiamavo Essenza, fu una specie di angelo soccorritore, era forse un lato di me.
Essenza era semplice e fu proprio tramite il silenzio e la semplicità che ho vissuto giorni di vera e propria catarsi, una decompressione da tutti gli stress e da tutti i pensieri. Pensieri che si sciolsero come biscotti sottili nel latte bollente, nella presenza di questo stato dell’essere dell’estate 2012, in cui lasciavo andare tutto, non c’era più alcuna contrattura e resistenza. Finalmente ero. Finalmente non mi opponevo, illusoriamente o meno.
Sentivo tutta la forza della vita in me e che scorreva proprio nel lasciare andare.
La chiave era stata ottenuta: sapevo che non ero più tenuta a controllare coi pensieri le vicende, ma che avrei potuto contare sul farne fumetti e osservarne tutti gli sviluppi senza intervenire e “inquinare le scene del crimine”.
Ancora oggi sono tanti anni ormai che non presento una mezza giornata o qualche ora in preda alle “manie”. Sono per certo un sintomo che fa parte del passato, ed è stato anche giusto che si fossero presentate in altri miei punti evolutivi.
Tranne qualche rara eccezione che mi ha visto assumere qualche goccia di En, nei fatti è dal 4 settembre 2016 che dalla mia decisione di smettere per sempre i farmaci e riuscirci definitivamente, non assumo giornalmente e in modo continuativo più alcun psicofarmaco, alcun antiepilettico, alcuna sostanza per il cervello.
Oggigiorno sto bene, mi sento io, vera. Vi ho voluto raccontare principalmente alcuni pensieri e il mio percorso a 360°che mi ha permesso risolvere i miei problemi, e spero che questa mia esperienza, in cui l’arte ha avuto un ruolo fondamentale, possa aiutare gli altri.
Grazie Laura e grazie Mat in Italy e a \Mad in Italy.😍👍🏽
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Laura Guerra è laureata in Scienze Biologiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Farmacologia all'Università di Ferrara. Si interessa dei trattamenti psicofarmacologici nel contesto psicosociale del disagio emotivo. Pone particolare attenzione ai problemi dell'eta giovanile e infantile. Ha tradotto il libro di Peter Breggin "La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie". Ha inoltre tradotto il libro di Joanna Moncrieff "Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici". Recentemente, insieme a Marcello Maviglia e Miriam Gandolfi, ha pubblicato il libro "Sospendere gli psicofarmaci: Come e perché. Costruire un percorso personalizzato ed efficace.