Problema autismo. Tra le due fazioni in contesa cosa succede al terzo che ha bisogno di aiuto?
di Miriam Gandolfi, psicologa, psicoterapeuta, Bolzano
Il presente articolo è stato suscitato dalla turbolenta polemica tra gli agguerriti sostenitori del più tradizionale tra i metodi di stampo comportamentista, l’ABA, e i meno sponsorizzati, al momento, sostenitori della psicoanalisi (soprattutto della costola lacaniana). Le due fazioni sono impegnate nel contendersi la corta coperta dei finanziamenti decisi dai politici del momento. Come sempre in questi casi a soffrirne sono, non solo, la salute dei Cittadini (bambini e adulti), ma la salute della Scienza stessa
Prima di inserirmi nel merito del tumultuoso dibattito su teorie e interventi idonei a comprendere il, ed intervenire sul “fenomeno autismo”, ritengo opportuno chiarire a che titolo mi sento legittimata a farlo.
Mi sono laureata in psicologia ad indirizzo clinico nel luglio del 1976, a Padova, prima e unica sede allora funzionante (Roma era stata contestualmente istituita ma non riusciva a decollare). All’epoca, in Italia, non esisteva la facoltà di psicologia. Il corso di laurea era stato incardinato nella facoltà di Magistero, grazie agli sforzi immani e congiunti di alcuni docenti e intellettuali lungimiranti che afferivano ad altre discipline già consolidate (filosofia, sociologia, antropologia, statistica, medicina, pedagogia, ecc…). Credo che sia unanimemente riconosciuto che il merito di aver coagulato tante personalità diverse e di aver così dato lo status di nascente scienza psicologica in Italia sia da attribuirsi al professor Guido Petter. La condizione di “stato nascente” aveva il grande vantaggio di offrire agli studenti un dibattito acceso e continuo tra docenti e corsi obbligatori e facoltativi, imponendoci di pensare, di approfondire le diverse discipline e teorie che costituiscono lo studio del comportamento degli esseri viventi in generale e degli umani in particolare. Ciò era infatti indispensabile per saper scegliere i campi di intervento su cui investire il nostro futuro di scienziati del comportamento. Non è un’esagerazione la scelta della parola scienziati. Infatti venivamo formati, a prescindere dalle diversità dei docenti, al metodo scientifico che consiste nel trasformare osservazioni in teorie che spieghino i fenomeni osservati, controllando se il modo (tecniche e strumenti scelti) davano esiti verificabili, coerenti con le ipotesi di partenza e utili nei risultati reali.
Al termine del mio percorso universitario sapevo cosa mi mancava, per rispondere ai requisiti di una psicologa seria. Dell’approccio comportamentista apprezzavo la necessità di affinare i metodi di osservazione del comportamento e la necessità di documentare gli esiti, ma non condividevo che si potessero condizionare le persone, bambini o adulti (in vero nemmeno gli animali), a comportarsi in un modo definito “corretto” dallo sperimentatore a prescindere dalla volontà dei soggetti stessi, l’iper-valutazione della razionalità e l’idea che si potesse trasformare in un numero, considerato una misura oggettiva del soggetto stesso, ogni suo comportamento (QI, e ogni altro tipo di quoziente). Dell’approccio dinamico apprezzavo l’importanza attribuita alle emozioni e alle relazioni, ma trovavo altrettanto manipolatorio il fatto che qualcuno (lo psicanalista) potesse conoscere meglio del soggetto stesso cosa egli provasse e perché lo provasse, riferendolo ad un buco nero (l’inconscio) che solo l’esperto riteneva di conoscere.
Nel settembre 1976 scelsi deliberatamente di iniziare la mia carriera professionale presso il Centro Spastici della provincia di Bolzano.
All’epoca esistevano le classi speciali e comunque i bambini più gravi vivevano in casa finché la famiglia ce la faceva e poi finivano in istituto: chi in Regioni anche lontane, chi oltre confine, poiché le famiglie di madrelingua tedesca privilegiavano il mantenimento della lingua con cui erano abituate a comunicare al loro interno. Fu in quel contesto che cominciai a comprendere l’importanza e a metter a frutto una cosa del metodo scientifico che avevo studiato sui libri e che ora capivo essere fondamentale: il ruolo dell’osservatore e il concetto di diagnosi differenziale. Ovvero, gli occhi di chi guardano vedono cose diverse e possono cambiare l’identità stessa di ciò che osservano. Inoltre non tutti i comportamenti che si assomigliano hanno la stessa causa e si spiegano nello stesso modo.
Marco, un bambino di 7 anni, inizio della seconda classe, segregato insieme ad altri cinque all’ultimo piano della scuola, (per non essere disturbati dal chiasso dei bambini normali, anche se così non potevano condividere la pausa perché non c’era ascensore nella vecchia scuola), restava passivo e con lo sguardo assente nonostante l’impegno dell’insegnante nel proporgli cartelloni, lettere, fogli, matite ecc. L’insegante sapeva che si trattava di un bambino menomato, tuttavia era lì per stimolarlo e si era accorta che a volte faceva il furbetto, perché “quando voleva…”, cioè sempre quando la maestra leggeva storie e aneddoti, Marco rideva e sapeva commentare nonostante la fatica ad articolare le parole. Insomma “pigro oltre che furbetto”. Quel bimbo aveva una diagnosi di paralisi cerebrale che aveva esitato in un’emiparesi fin dalla nascita. Decisi di mappare, davanti all’insegnate, il suo campo visivo: se a Marco gli oggetti venivano mostrati nella porzione del tavolino relativa all’emisoma paretico egli era completamente cieco, mentre il suo emicampo visivo destro funzionava bene. Era dunque un errore dell’insegnate proporre i materiali al centro del tavolo. Marco aveva dimostrato a me e all’insegnate quanto importante sia considerare il corpo come il primo e principale mezzo di comunicazione con il mondo e che non esistono solo bambini stupidi/intelligenti/furbi e bambini diligenti/attenti/distratti/ pigri. Marco avrebbe potuto con pochi accorgimenti frequentare una classe “normale”. Ma per quello ci sarebbero volute ancore molte battaglie.
Prima lezione: il bambino è il “maestro”, colui che guida “l’esperto” a capire come lui funziona.
Quel coacervo di sofferenza dei bambini e dei loro famigliari che era il Centro Spastici si rivelò una miniera ricchissima di insegnamenti ed incontri. Certamente fondamentale fu proprio quello con il direttore sanitario del Centro, il dottor Diego Uvietta. Poco dopo l’assunzione mi spedì a fare un internato di quattro mesi presso il reparto di psicosomatica e neuropsichiatria della Clinica Pediatrica dell’Università di Innsbruck. Esso era stato recentemente istituito a completamento del reparto pediatrico interno alla Clinica Universitaria di Neurologia e Neuropsichiatria, dove si seguiva da tempo il metodo comportamentista. La differenza tra i due reparti non va vista tanto nel metodo in sé, ma nel focus di partenza: la Clinica di Neurologia, nata storicamente a partire da pazienti adulti, era concentrata sui deficit/problemi, quella di Pediatria era nata per concentrarsi sul soggetto bambino.
Lì mi trovai per la prima volta non solo faccia a faccia, come nell’ambulatorio di Bolzano o delle sedi periferiche, ma corpo a corpo, 10 ore al giorno, anche con un bimbo autistico.
Dieter aveva 5 anni, un corpo filiforme, un viso allungato serio come quello di un adulto, non si lasciava toccare, bisognava “guidarlo” con cautela nei cambiamenti della giornata: il pasto, il letto, il bagno, le attività. Come si dice dei bambini autistici e come avevo studiato, Dieter sembrava totalmente disinteressato al mondo esterno (da qui la parola che gli esperti hanno scelto per designarli). Dieter muoveva in modo stereotipato le dita davanti ai suoi occhi, ma si interrompeva quando emetteva l’unico fonema che usava: “Huh”. Tuttavia il bimbo era in grado di modularne intonazione, acutezza, emetterlo isolato o ripetuto. Invece che una pura e vuota stereotipia poteva essere sentita, da un osservatore interessato, una lingua marziana per gli umani, ma una lingua. Egli era anche in grado di selezionare e decidere chi, tra operatori e altri bambini, accogliere nel suo cerchio fino a lasciarsi toccare e guidare da una bimba di 11 anni con un severo disturbo alimentare restrittivo.
Ma cosa ci faceva un bambino autistico in un reparto del genere? I genitori, dopo aver ricevuto la diagnosi, due anni prima, volevano provare la novità di qual reparto che accettava bambini in difficoltà e lavorava in modo totalmente diverso rispetto all’altro reparto specializzato e suddiviso in sottogruppi per patologie. In questo i genitori erano coinvolti con colloqui anche famigliari dal neuropsichiatra innovatore e perfino in alcuni trattamenti individuali.
Così, nelle sedute di team e di supervisione il neuropsichiatra responsabile del reparto mi regalò un altro pezzo di conoscenza. Mi istruì sul nascente modello sistemico. Era entusiasta di avere una tirocinante italiana e rimase deluso quando gli confessai che di quel modello, nella prestigiosa università di Padova, avevo sentito sì parlare della professoressa Mara Selvini Palazzoli, ormai famosa nel mondo tedesco e americano, ma quasi clandestinamente. Nemo profeta in patria!
Quel modello nasceva dalle intuizioni di due scienziati affini nel modo anticonformista di pensare, ma diversi per ambito di ricerca. Erano entrambi interessati agli esseri viventi, che secondo loro non potevano essere osservati, studiati, misurati e trattati con lo stesso distacco possibile e utile per gli oggetti inanimati, come la scienza classica e come i due modelli/teorie comportamentista e psicoanalitica impongono. Il primo era Ludwig von Bertalanffy, biologo. Che in quel momento stava studiando e comprendendo le risposte immunitarie delle cellule ai trapianti di tessuti. Il secondo era Gregory Bateson, antropologo, che si occupava di studiare le culture preletterate che i suoi colleghi occidentali definivano ancora “primitive”. Il merito dei due Personaggi fu quello di intravvedere come le rivoluzioni scientifiche, degli inizi del XX secolo, si prestassero a rinnovare radicalmente le discipline che si occupavano del comportamento umano, meglio degli esseri viventi, con particolare riferimento alla psicopatologia e alla psichiatria.
Seconda lezione: nessun essere vivente può sopravvivere senza una rete di relazioni. La vita non esiste senza un sistema di comunicazione che lo consenta. Quindi ogni essere vivente è sempre attivo nel mettersi in relazione/connettersi e perciò non può non comunicare. Quello che viene definito deficit o patologia nei viventi (cellule, animali, umani) è visto invece il modo possibile di attivare e mantenere la relazione. Dieter ce lo aveva dimostrato.
Terza lezione: se la vita è comunicazione, il comportamento non è giusto o sbagliato, può essere più o meno efficace, ma sempre portatore di un significato. Per comprendere e modificare un comportamento è necessario mettersi d’accordo sul significato da assegnarvi. Accettando che gli “Huh” di Dieter non erano stereotipie ma il suo linguaggio, imparammo come lui e la bimba anoressica riuscivano a capirsi.
Quarta lezione: per capire il significato che un essere vivente dà al proprio comportamento e a quello del suo interlocutore deve essere inserito nel contesto di vita (spazio e tempo storici) del soggetto con cui si intende interagire/comunicare/capirsi. Grazie alla disponibilità dei genitori di Dieter potevamo capire cosa era andato storto in quel processo miracoloso che lega un bambino ai membri del suo sistema famigliare e iniziare un lavoro di traduzione che consentisse anche ai genitori di vedere il loro bimbo da un punto di vista diverso.
Questa teoria sistemica, che il comportamento umano non è né solo il frutto di un cervello intatto, né solo di un patrimonio genetico perfettamente replicato, né della fortuna di non aver subito qualche trauma relazionale o di avere in sorte qualche genitore problematico (e volgiamo parlare di chi nasce e vive in contesti di guerra?) , ma frutto del processo di comunicazione tra chi interagisce, altamente co-costruito dal contesto, finì col catturare gli psicologi e psichiatri più lungimiranti del tempo, qualunque fosse il loro orientamento originario: comportamentista, analitico, fenomenologico, sociologico. Si cominciò così a modificare il concetto di psicosi, ed in particolare quello di schizofrenia, per arrivare a modificare il concetto stesso di processo evolutivo del bambino, incluso il modo di guardare al comportamento etichettato come autismo. Dunque con queste premesse un comportamento “inatteso”, bizzarro, “anormale” è l’indicatore di un groviglio interno ad uno specifico processo di comunicazione, che coinvolge specifici interlocutori in specifici contesti. Non malattia mentale frutto di una descrizione/misurazione convenzionale, ritenuta oggettiva, che tuttavia nulla offriva alla sua spiegazione: questa è invece la premessa su cui si fondavano e si fondano DSM e ICD.
Me ne tornai a casa con la quinta lezione: osservare e comprendere il contesto in cui un bambino si trova a comunicare con il mondo che lo circonda con il suo specifico bagaglio biologico, che è ignoto all’adulto quando egli atterra sul pianeta.
Fu proprio in quei mesi di tirocinio, e alla passione per la condivisione della conoscenza del professor Burkart Mangold, che presi ad occuparmi e interrogarmi intensamente sia dei bambini con diagnosi di autismo, sia di bambini che allora ricevevano la diagnosi di legastenia/dislessia, oggi di DSA. Ma questa è un’altra storia che ho raccontato altrove, ma che come quella dell’autismo dimostra come l’attuale insistenza sulla teoria genetica o lesionale cerebrocentrica ci stia portando pericolosamente fuori strada con il fenomeno dell’iperdiagnosi.
Sesta lezione: lì avevo imparato che non dovevo cercare cosa mancava ai pazienti piccoli o adulti che fossero, ma cosa continuava a mancare nella mia conoscenza e dove andare a cercarlo: nelle continue evoluzioni che devono caratterizzare il pensare scientifico. In particolare in quella disciplina che si chiama epistemologia, che si occupa di verificare e modificare le premesse su cui le teorie scientifiche si fondano. La scienza, essendo un prodotto degli umani, può contenere errori, può partire da affermazioni corrette e condivisibili, ma raggiungere conclusioni scorrette o parziali e dunque necessita di continui processi di verifica degli esiti utili e di confronto con la realtà.
Con gli inizi degli anni ’70, era ormai evidente che senza un modello complesso che considerasse le connessioni multiple e simultanee tra tutte le variabili in gioco (biologiche, psicologiche individuali, famigliari, micro e macroculturali) del soggetto studiato, e il peso delle premesse implicite dell’esperto (le convinzioni non dichiarate -spesso non consapevoli- e date per scontate di chi osservava) non fosse possibile comprendere la complessità dell’interazione umana alla base di tutti i comportamenti.
Ecco perché oggi siamo impantanati nelle dispute che tante energie e risorse sottraggono all’aiuto reale a bambini e famiglie in difficoltà.
Dichiaro esplicitamente cosa non mi sento di condividere dell’attuale modo di affrontare il tema generale della psicopatologia e in specifico quello dell’autismo, di cui qui si discute:
- l’abbandono della prima lezione fondamentale del concetto di diagnosi differenziale. In primis la perdita della distinzione tra autismo secondario (quindi sintomo, dovuto a quadri lesionali documentati e conclamati) e primario (specifico di una sofferenza di altra natura, presente in soggetti in cui non è documentabile alcun particolare danno biologico o che, se presente, lo è in misura tale da non giustificate un disturbo della comunicazione interpersonale così invalidante).
- Un ulteriore errore di diagnosi differenziale è implicito nel concetto stesso di “spettro” (un continuum di gradienti di intensità) dove viene considerato un dato di gravità quantitativo. Come dire che il mal di pancia dovuto ad una appendicite è più forte di quello dovuto ad una intolleranza alle proteine del latte. Non è rilevando il grado di intensità del dolore che si capisce che si tratta di esiti di due processi diversi, mentre sono quelli a dover essere identificati. Infine, non condivido la conseguente “uscita di sicurezza” o alibi ad usum dagli operatori, accolto universalmente, in cui la pura descrizione dei comportamenti viene fatta coincidere con la diagnosi. Metodo mutuato dalla scienza classica newtoniana, in cui si sommano tratti/comportamenti osservati senza comprenderne il significato comunicativo.
Avviene così che rituali, ascrivibili ad un problema ossessivo, vengano computati come stereotipie solo più “lievi”. Analogamente i problemi di contatto fisico o visivo possono dipendere da altri quadri di sofferenza psicologica e non sono spiegabili con il gradiente di lieve o severo disturbo dello spettro autistico. In sostanza, attualmente, fare la diagnosi richiede solo di essere obbedienti alle caselle da barrare fissate da altri.
Si tratta dello stesso errore concettuale che fino all’800 faceva ritenere, perché basato solo sul puro dato osservativo, che il polline fosse di natura animale (simil-spermatozoi), perché non si erano ancora compresi i moti convettivi interni ai liquidi in stato di quiete (moto browniano).
Il disturbo dello spettro autistico finisce così con il diventare un grande contenitore in cui gettare qualunque soggetto, ora anche con diagnosi “postuma”, cioè ad adulti, con qualche tratto sospetto. Ci si risparmia così la fatica di esercitare quella pratica delle diagnosi differenziali, per cui tratti simili in contesti diversi non significano la stessa cosa. Ma soprattutto trasformano gli esseri umani nella sommatoria di pezzetti di manichino senza tener conto che sono, ancora una volta, i modi con cui i singoli pezzi si connettono che cambiano l’esito finale (ciò vale per le cellule, per i geni, per i neuroni, per ogni essere vivente, proprio perché non potrebbero vivere se non inseriti in un sistema).
- Ancora non condivido la spasmodica ricerca di un’unica causa, preferibilmente genetica. Questo approccio oltre ad alimentare aspettative irrealistiche sulla possibilità di cure geniche, sottrae risorse economiche ed energie allo studio delle possibilità, che nell’immediato convoglino sforzi in ricerche alternative, che diano aiuto a soggetti e famigliari. Oscura inoltre un importante tema etico: come si intende legare la possibile manipolazione genetica al destino degli esseri umani considerati portatori imperfetti?
- Considero l’efficacia del metodo ABA iper-valutato e in alcuni casi inappropriato, perché si fonda sulla premessa che tali soggetti essendo “rotti”, necessitano di essere in qualche modo “riprogrammati”; mentre in quanto esseri viventi, attivano relazioni proprio grazie a quello che gli esperti chiamano il “problema da de-condizionare” o comportamento “inatteso/scorretto”. L’impressione di poter controllare comportamenti indesiderati per un osservatore non coincide con il benessere dei soggetti che vi vengono sottoposti/obbligati.
- Considero riduttiva anche la premessa del modello analitico che mette l’accento sui pattern di attaccamento bambino/care giver, ignorando tutti i rapporti simultanei tra adulti che intorno al bambino si muovono (famiglia estesa e dinamiche tra operatori). Allo stesso modo, non condivido il peso centrale ancora assegnato al concetto di trauma. Anche questo modello condivide con il modello comportamentista l’idea che il bambino e chi se ne occupa siano in qualche modo “rotti”, mancanti di qualcosa o incompetenti.
In entrambi i casi l’accento è messo su ciò che manca rispetto ad una normalità esterna, piuttosto che al tentativo di comprendere come i membri di quel sistema comunicano tra di loro, proprio grazie al fatto che ogni bambino “sano” o “altro” diventa portatore di significati personali dentro la sua famiglia allargata
Ora il lettore si chiederà con quale autorità mi arrogo questa sfilza di riserve. Il mio lavoro di ricercatrice, consulente per servizi, formatore e supervisore è documento negli atti del convegno tenutosi nel novembre 2016 a Bolzano, dove oltre a dar voce all’esperienza concreta di operatori impegnati sul campo, ospite d’onore era un ricercatore di storia della scienza e studioso della biografia di Einstein, Pietro Greco. Titolo del convegno: Global Health e Connessionismo nel lavoro sociale e sanitario. Esperienze professionali DI e CON Persone diversamente utili, Gandolfi M. e Martinelli F. (a cura di), 2016, Officina del Pensiero, Bolzano.
L’attuale stallo nel campo della salute mentale e lo sconcertante aumento di diagnosi a fronte di scarsi risultati a lungo termine sono, a mio avviso, da imputarsi ad una scarsa, poco solida ed aggiornata formazione scientifica (metodo) a fronte di una iper valutazione tecnica (utilizzo di strumenti di rilevamento sempre più tecnologici) da parte degli operatori “psy”. E’ venuto meno infatti l’abitudine ad interrogarsi su sé stessi e sulle premesse del proprio operare. Mi riferisco agli aspetti basilari dell’epistemologia: la disciplina che si occupa della correttezza delle procedure di ricerca, che si fondano sui metodi di invalidazione/verifica delle ipotesi/teorie, su cui poggiano gli interventi successivi. Gli operatori sono sempre più disponibili ad appiattirsi su linee guida di cui si è perso senso e storia del processo che le ha costruite.
Per questo motivo non intendo qui sponsorizzare nuovi metodi psicologici, nuove scuole di pensiero psicologico, nuovi inventori di protettive linee guida.
Trovo più utile condividere con i lettori, le parole di scienziati che si occupano di studiare e di prendersi cura della salute della Scienza.
Il primo a cui mi riferisco è Enrico Bucci, biologo, già ricercatore del CNR fino al 2014, ha fondato nel 2008 Biodigitalvalley, azienda indipendente dedicata all’analisi su larga scala dei dati biomedici e all’analisi delle frodi nelle pubblicazioni scientifiche a livello mondiale in tutte le discipline.
Il fenomeno delle frodi e manipolazioni dei dati scientifici è molto diffuso e legato al problema del publish or perish (pubblica o muori). I ricercatori per motivi diversi, di cui quelli legati ai finanziamenti è uno dei fondamentali, se non pubblicano non riescono a fare carriera. Così oltre a ricorrere a veri metodi di manipolazione dei dati si occupano prevalentemente di ricerche con lo scopo di confermare quelle già accreditate piuttosto che di cercare spiegazioni nuove o criticare quelle già accolte dal mondo accademico. Questo rende difficile l’innovazione o l’invalidazione di teorie, prassi e misure di intervento. Se il lettore è in grado di reggere i numeri relativi a tale fenomeno può aggiornarsi con Cattivi scienziati. La frode nella ricerca scientifica (2015), add editore, Torino, 2020
Un secondo contributo, che riguarda in specifico il nostro ambito, è quello offerto da Jordan Ellenberg, professore di matematica alla Wisconsin-Madison University e divulgatore scientifico, I numeri non sbagliano mai. Il potere del pensiero matematico, Ponte alle Grazie, Milano, (2014), 2015. Anche considerando la buona fede dei ricercatori egli segnala i gravi rischi di una
“metodologia ben poco rigorosa di quei ricercatori di neuroscienze che utilizzando la diagnostica per immagini (e compiono) l’errore di ignorare una verità fondamentale: … Quando si esegue la scansione di un cervello, persino del freddo cervello di un pesce morto, i sensori rileveranno una certa quantità di rumore bianco proveniente da ciascun voxel…” perciò mette “in guardia sul fatto che i metodi standard di valutazione dei risultati sperimentali, il modo in cui tracciano un confine tra un fenomeno reale e un rumore di fondo casuale, sono soggetti a una pressione pericolosa in quest’epoca di giganteschi insiemi di dati ottenibili senza fatica… allora dobbiamo considerare con molta attenzione se davvero le nostre valutazioni standard di ciò che è una prova scientifica siano sufficientemente rigorose .
“in una porzione notevole degli articoli di neuroscienze basati sulla diagnostica per immagini … esaminati non si adottavano quelle misure di sicurezza statistiche (note con il nome di << correzioni per confronti multipli>>) che tengono conto del carattere ubiquo dell’improbabile… (è infatti necessario) tenere conto di tutto il resto” (storia e contesto del paziente N.d.R.) p.133-134.
Affido infine la mia conclusione alle parole di Guido Tonelli, fisico del CERN di Ginevra e professore all’Università di Pisa.
“La fisica del XX secolo archivia definitivamente ogni tentazione di realismo grossolano e di meccanicismo materialistico… (p. 173) … Il metodo scientifico non è in discussione… (p.175) … Il metodo che ha dato risultati così eclatanti non si applica all’intero reale…Tanto è efficace nell’identificare i meccanismi che regolano i processi materiali misurabili e riproducibili, quanto balbetta, o risulta del tutto impotente, nell’affrontare i fenomeni privi di queste caratteristiche… una comunità umana di individui pensanti, liberi e interagenti fra loro non può essere trattato come un sistema fisico… L’illusine di capire il funzionamento del cervello umano usando gli stessi strumenti che ci hanno permesso di capire il funzionamento di altri nostri organi è tramontata da tempo. Nessuno più ragiona come Pierre Jean Georges Cabanis, medico francese del Settecento, rimasto famoso per questa sua sentenza: “Il cervello secerne il pensiero, così come il fegato secerne la bile”. (p.176)
Questo è il salto nella forma di pensiero di cui necessitiamo per comprendere e affrontare la sfida intellettuale a cui la complessità del fenomeno della sofferenza psichica ci obbliga. Salto che ci impone di riconsiderare il concetto stesso di autismo e di altre gabbie diagnostiche come ADHD, DSA, ecc. ecc. fino alla più recente e devastante “Disforia di genere”.
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