Chi ben comincia è a metà dell’opera: come, chi, quando convocare

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Miriam Gandolfi

Chi ben comincia è a metà dell’opera: come, chi, quando convocare

VII Conferenza della dr.ssa Miriam Gandolfi Martinelli del 20/5/2023

Introduzione

Di solito si dà per scontato che chi chiede aiuto – al medico, psicologo, assistente sociale, ecc… è colui che ha personalmente il problema. In realtà sappiamo che proprio in ambito psy sono spesso i famigliari a chiedere aiuto al posto di qualcun altro: genitori, oltre che ovviamente per bambini, per figli adolescenti o giovani adulti; sempre più spesso figli adulti per genitori anziani, uno dei partner nella coppia, fratelli o sorelle adulti. Spesso più lo stato di sofferenza individuale è grave e meno chi soffre chiede aiuto direttamente o pur riconoscendo lo stato di malessere lo accetta.

Il superamento della mancata collaborazione/compliance del “paziente” obbliga gli operatori a confrontarsi con il problema del ruolo inevitabile dei famigliari. Ritenuto, a seconda dei casi e della situazione, utile, necessario, ma anche destabilizzante o troppo intrusivo. Questo comporta di sapere come gestire il sistema originario di relazioni per la persona, perché resta in ogni caso fondamentale.

Ma come se ne esce?

Miriam Gandolfi ci propone un modo di affrontare e superare utilmente queste difficoltà attraverso la gestione della convocazione allargata, in una prospettiva che non considera la famiglia come patologica o causa diretta della sofferenza, ma come risorsa che  permette di vedere come funziona il modo specifico di comunicare anche fuori dalla stanza del terapeuta.

Di seguito l’intervista di accompagnamento alla video-conferenza 

Domanda: Come mai hai deciso di parlarci di questo argomento?

Miriam Gandolfi: Di solito si dà per scontato che chi chiede aiuto – al medico, psicologo, assistente sociale, ecc… è colui che ha personalmente il problema. In realtà sappiamo che proprio in ambito psy sono spesso i famigliari a chiedere aiuto al posto di qualcun altro: genitori, oltre che ovviamente per bambini, per figli adolescenti o giovani adulti; sempre più spesso figli adulti per genitori anziani, uno dei partner nella coppia, fratelli o sorelle adulti. Quando il problema riguardi minori, non solo lo chiedono ovviamente i genitori, ma non di rado nonni o zii che ritengono i nipoti in condizione di pregiudizio a causa di figli/figlie o fratelli/cognati. Spesso più lo stato di sofferenza individuale è grave e meno chi soffre chiede aiuto direttamente.

Con un termine della psichiatria classica, quando una persona riceve una diagnosi di quella che viene definita psicosi, cioè assenza di “coscienza di malattia”, manca non solo la richiesta di aiuto, ma anche il rifiuto di esso se offerto.  Con questo problema si sono imbattuti da sempre tutti i metodi di approccio alla sofferenza psicologica: tanto il comportamentismo o il più attuale cognitivismo, quanto la psicoanalisi nelle sue diversificazioni di scuole dopo Freud. È da qui che nasce l’intervento di TSO: la persona che mette in atto comportamenti ritenuti bizzarri da un osservatore, considerato pericoloso per sé e/o per gli altri e non collaborante veniva e viene trattato/ricoverato anche contro la sua volontà. Succede ancora anche se si cerca di farlo con la “persuasione”, ma a volte anche con l’inganno (esempi: minacciare la camicia di forza (si esiste ancora), allontanare la persona/bambino con una scusa, dire una bugia) proprio perché a causa dell’assenza di coscienza di malattia, non si può contare sulla collaborazione del “paziente”.

Lo stesso problema si pone per il controllo della corretta assunzione dei farmaci, per cui in alcuni casi si chiede ai famigliari non solo una collaborazione, ma un modo anche nascosto di somministrali. Lo stesso vale spesso per il personale di reparti o strutture ospitanti. Il trattamento farmacologico a depot rientra nei Trattamenti Sanitari Obbligatori, appunto per ovviare al fatto o al rischio che il paziente non sia affidabile nell’assunzione prescritta.

Non solo gli psicofarmaci, ma tutte le strategie di controllo del comportamento, come la ritornata di moda elettroterapia (nuovo termine per il vecchio elettroshock), il ricovero, le varie terapie “occupazionali”, si fondano sull’idea che il trattamento vada scelto e imposto dall’esterno finché il paziente non diventi collaborante e non accetti la sua condizione di malattia.

Il superamento della mancata collaborazione/compliance del paziente ha fatto scontrare gli operatori con un altro problema: il ruolo inevitabile dei famigliari.  Ritenuto, a seconda dei casi e dalla situazione, utile, necessario, ma anche destabilizzante o troppo intrusivo. Questo comporta di sapere come gestire il sistema originario di relazioni della persona, perché resta in ogni caso fondamentale.

Per questo motivo negli anni ’60 tutti gli approcci, anche così diversi tra loro, avviano ricerche in collaborazione (Scuola di Palo Alto, California) per riflettere su come gestire questo problema ineludibile e paradossale: se escludi in modo scorretto la famiglia rischi problemi, se la coinvolgi in modo scorretto rischi problemi.

Domanda: Quindi stai dicendo che il modo in cui fin dall’inizio si coinvolge o si limita il coinvolgimento dei famigliari e chi si sceglie a seconda del grado di parentela può cambiare l’esito dell’intervento di aiuto, che sia di psicoterapia, farmacologico o di inserimento in una struttura, ecc…? E si sono trovati dei criteri per farlo?

MG: Hai toccato il punto centrale, ma trattandosi di un problema complesso la risposta è complessa. Sì, è importante fin dall’inizio capire chi, come e se coinvolgere uno o più familiari. Ci sono dei criteri generali, ma non nel senso di “linee guida” standard uguali per tutte le situazioni. Il mio gruppo ed io abbiamo per questo ideato la “diagnosi contestuale”. Cioè come avere una mappa, un’ipotesi del modo di funzionare del sistema in cui vive colui che evidenzia il problema, prima di decidere come intervenire. Mi riferisco al sistema che per la persona in sofferenza è rilevante. Non decisa in astratto dall’operatore.

Domanda: Ma non basta capire come funziona la persona? La sua personalità, fare una diagnosi del suo comportamento o sintomi? Perché è così importante capire prima come funziona il suo sistema famigliare di riferimento?

MG: Dovete lasciarmi fare un passo indietro alla scuola di Palo Alto, a fine anni ’60, quando il governo americano stanziò i fondi per quella ricerca, con la motivazione che c’erano troppe persone con problemi psichici, in particolare ispanici e immigrati in genere, e che la loro gestione costava troppo, a fronte dei scarsi risultati. Non so se vi risuoni la situazione attuale!

Si era in un momento della storia della scienza in cui gli aspetti culturali e sociologici mostravano tutta la loro importanza, sia nel generare i problemi che per fornire le risorse per affrontarli.

Ci voleva un nuovo punto di vista. Non dimentichiamoci che la fisica, modello di riferimento per tutte le scienze, aveva da poco compiuto questo grande salto epistemologico: la teoria della relatività e l’inizio delle teorie quantistiche. Su questo tornerò più avanti. Cosa intendo con salto epistemologico, o cambiamento di paradigma?

Vi è mai capitato che mentre cercate di risolvere un problema, senza aspettarvelo scoprite una cosa inattesa e trovate così, non solo una soluzione nuova ma una visione nuova, un concetto nuovo, un modo diverso di vedere qualcosa? Questo è quello che è successo in fisica: il mondo e il concetto stesso di realtà materiale, come fino lì concepita, è stato messo in discussione.

In cucina succede continuamente: non so se conosciate la storia del Keiserschmorn (letteralmente il pasticcio dell’imperatore): le uova sono diventate un’altra cosa: da un banale piatto salato, un dolce speciale!

Torniamo alla psicologia e al gruppo di Palo Alto. Mentre si cercava di capire come affrontare il problema di gestire “il malato mentale”, si è capito che la sofferenza mentale poteva essere un’altra cosa, rispetto a come la si era guardata e pensata fino a lì.

Qui avviene il grande salto della teoria sistemica applicata ai sistemi viventi (biologia) e da lì alla psicologia: la scoperta dell’importanza del passaggio delle informazioni, quindi della comunicazione e delle interconnessioni tra particelle. Cioè non basta studiare quello che avviene dentro la testa delle persone: materialmente nel cervello e immaterialmente nella mente, grazie ai pensieri. Si è compreso che era fondamentale osservare e comprendere ciò che avviene tra le persone. È questo TRA che rappresenta il cambiamento radicale, il cambiamento di “paradigma”, perché il corpo (tutto non solo il cervello) è certamente individuale, ma la mente, come la conoscenza, è un processo collettivo, che si genera grazie ai corpi ma anche a tutto il contesto che consente alle persone di essere in relazione tra loro.

Tra i testi fondamentali che documentano questo cambiamento di visione della realtà c’è quello di Bateson che raggruppa i suoi primi scritti e che si intitola Verso un’ecologia della mente.Verso” perché da lì scaturirà il concetto di mente ecologica che evolverà in quello di mente sistemica interconnessa e poi di mente conversazionale, concetto formulato da me e dal mio gruppo. Perché tutti gli esseri viventi, gli umani in particolare, sono sempre collegati grazie ai modi di comunicare; diventano essi stessi le loro forme di conversazione. Quindi capendo e cambiando il modo di “stare in conversazione” si possono cambiare i comportamenti e anche la definizione di sé stessi, quella che viene chiamata “la personalità”.

Domanda: puoi spiegarci meglio cosa intendi e perché è così importante questa teoria di mente per il problema della convocazione?

MG: Devo prima chiarire come funzionano i processi di comunicazione:

tutti gli esseri viventi sono interdipendenti. Non possono sopravvivere senza relazioni. Per gli esseri umani le relazioni sono sempre generanti emozioni, è questo che rende contemporaneamente possibile ma anche difficile, a volte impossibile separarsi, autodeterminarsi.

Proverbio: I parenti sono come le scarpe; più sono stretti più ci fanno male. Ma non possiamo camminare senza scarpe. E appunto le scarpe andrebbero cambiate mano a mano che si cresce. Fuor di metafora: senza relazioni che generano appartenenza non possiamo crescere e costruire un’identità. Ma se le relazioni e l’appartenenza sono troppo vincolanti, ciò impedisce di scegliere e costruire la propria identità.

– l’interdipendenza si crea e si mantiene attraverso la comunicazione

-tutti gli esseri viventi comunicano sempre e comunque, anche oltre l’intenzionalità: è impossibile non comunicare

attraverso gli scambi comunicativi costruiamo la nostra identità personale

– la comunicazione umana avviene sempre attraverso due livelli inseparabili: uno è il contenuto, uno è la definizione della relazione (chi sei tu per me/chi so no io per te)

– quando questi due livelli sono confusi o aggrovigliati si genera la patologia della comunicazione, quella che si chiama, tecnicamente, “doppio legame”. Cioè il messaggio non è più comprensibile, è ambiguo e indecidibile.

Ecco la grande scoperta: per la sistemica/teoria ecologica della mente, la patologia non è più una malattia individuale ma una patologia della comunicazione.

Faccio un esempio:

Pensate ad una coppia che litiga spesso, perché la moglie si lamenta che il marito lascia sempre sul pavimento i calzini sporchi, o il bicchiere del whisky vuoto della sera prima in salotto. Il marito si arrabbia perché, la moglie non lo apprezza, con tutto quanto lavora e guadagna per garantire alla famiglia un buon livello di vita, possibile che una sciocchezza del genere sia una tragedia, come se la tradisse?  La moglie si lamenta perché, proprio essendo una sciocchezza, non capisce perché mai lui non possa farlo? Lei si sente trattata come una serva, quella addetta alle cose poco importanti.

Ecco cos’è la definizione della relazione: la coppia non sta più parlando di calzini e bicchieri, bensì di quanto ognuno valga per l’altro e cosa ciò significhi per sé stesso: parlano del proprio significato personale (chi sono io per me) e di come l’altro lo confermi (chi sono io per te), ma in modo implicito/ambiguo.

Le crisi di coppia o famigliari iniziano sempre con delle apparenti “sciocchezze” che poi degenerano nel processo di schismogenesi, fino alla rottura, anche drammatica. (vedi il pezzo teatrale Chi ha paura di Virginia Woolf e successivi remake filmici).

Domanda: Ma come se ne esce?

MG: Qui arrivano due altre scoperte degli studiosi della comunicazione: il potere del contesto e la metacomunicazione.

Se il terapeuta, invece di dare buoni consigli all’uno o all’altra, chiede al marito “In effetti è una sciocchezza quello che le chiede sua moglie, ma se Lei non lo fa anche solo per farle un piacere e risparmiandosi di litigherete furiosamente, vuol dire che per Lei aderire alla richiesta della signora deve avere un significato più importante, che non centra con voi due”.

Analogamente, può chiedere alla signora: “Perché mai si arrabbia così tanto quando basterebbe che avvisasse suo marito che lascerà lì i calzini e lui scoprirebbe da solo che è utile metterli nella cesta. Perché per Lei è così importante dirglielo continuamente? Cosa significa per lei non essere ascoltata?”

Così facendo il terapeuta allarga il contesto e le risposte che arrivano possono essere diverse a seconda della loro storia, ma tutte fondamentali per capire il significato profondo di cui si sta davvero parlando.

Il marito: <<Quando fa così mi sembra mia madre a cui non andava mai bene niente di quello che facevo>> // <<Ha ragione mio padre, non dovevo sposarmi, le donne vogliono sempre comandare>> // <<Se solo stesse zitta io lo farei, non sopporto che mi si diano ordini non sono un burattino come mio padre che taceva mentre mia nonna, che viveva con noi, comandava tutti a bacchetta>> o altre spiegazioni che hanno significato solo per lui e l’operatore non può conoscere.

Così la moglie: <<In casa mia i maschi potevano fare tutto quello che volevano: uscire fin tardi, non fare i lavori di casa, non sopporto i maschilisti come mio padre>> // <<La cosa che mi fa più arrabbiare è che mia mamma non mi ha mai appoggiata anche se si lamentava: non ho mai capito se ce l’aveva con i maschi (detestava mio padre) o erano i suoi preferiti (adora i miei fratelli)>> //

<< Quello che facevo io non era mai importante. Se io prendevo bei voti a scuola era normale, se mia sorella, una tantum, prendeva un bel voto mancava solo che facessero i fuochi d’artificio per lei>>.

Questo è il livello della metacomunicazione: una sorta di traduzione dal contenuto apparente al significato implicito degli scambi comunicativi, che non riguarda il contenuto (calzini e bicchieri), ma il significato personale di valore o disconferma (sei giusto/normale, sbagliato/matto). La metacomunicazione è completamente diversa dall’interpretazione psicoanalitica, perché è solo il “paziente” che può aiutare l’operatore a capirne il significato.

Questo esempio abbastanza “semplice” ci aiuta a riconoscere l’importanza di altri due concetti fondamentali: il contesto, e i giocatori assenti ma rilevanti. Come si vede dall’esempio, la comprensione del conflitto avviene quando, allargando il contesto, si individuano persone importanti nella storia dei soggetti che entrano nello scenario presente, interferendo. Quello che si chiama un’intrusione del là allora nel qui ed ora

Questo ultimo aspetto è un modo tipicamente umano di gestire la manipolazione comunicativa. Conoscete il proverbio: dire a nuora perché suocera intenda? Ma spesso ciò avviene in modo inconsapevole e perciò incomprensibile.

Domanda: Quindi vuoi dire che il terapeuta dovrebbe tradurre la comunicazione tra le persone?

MG: Esattamente. Nell’ottica sistemica corretta, il terapeuta non solo non interpretata, ma non dà consigli pedagogici (parent training) non spiega comportamenti “giusti”, non controlla chi obbedisce: offre i mezzi per tradurre il significato effettivo dei comportamenti in contrasto con le parole, però per fare questo deve prima capirli lui.

Torniamo alla nostra coppia. Se il terapeuta si appella al buon senso e cerca di “far ragionare” i due contendenti, di fare il mediatore, corre il rischio che, a seconda di quel che dice, uno lo veda come alleato dell’altro e coalizzato contro di lui. A quel punto si troverà, suo malgrado, a diventare il nemico di uno dei due. Anche lui sarà assimilato alla “madre, alla suocera, al padre, alla sorella, ecc.” Oppure alla categoria di genere: “voi donne”, “noi uomini”. Il terapeuta verrà assorbito e assimilato al contesto originario dei due “contendenti”.

Come si vede prima di iniziare la terapia o ogni altro intervento è importante che il terapeuta prenda il tempo per avere le informazioni necessari a capire come funziona quel sistema di comunicazione.

Domanda: Stai dicendo che nel momento di convocare si deve pensare con chi o senza chi fare i colloqui e per deciderlo bisogna cercare di capire in che rete di relazioni si entra?

MG: Esattamente! Per questo è fondamentale fissare una breve, ma chiara fase di consultazione preliminare, dove non è fondamentale chi viene, purché sia esplicito che non sono “i sani” che vengono a parlare “del malato”, ma che tutti hanno una sofferenza comune.

Torniamo alla coppia di prima e poniamo che il problema sia diventato così acuto che in un momento di forte litigio uno dei due si rivolga ai suoceri perché intervengano sulla/sul figlia/o che minaccia la separazione o che uno dei due cada in una situazione di prostrazione che magari il medico curante definisce di depressione.

Riuscite ad immaginare le combinazioni di coinvolgimento e confusione? Se poi ci sono figli, bambini o adolescenti?

Ci sono suocere/i che telefonano e si danno disponibili ad accompagnare il “fuori di testa”. Spesso è una moglie che telefona per il marito, dicendo in confidenza che lui beve, ma non vuole andare da nessuno. Oppure genitori che pensano che la figlia/o stia male perché manipolata/o dal partner. O che è caduta/o in depressione da quando abbandonata/o dal moroso e non superato un certo esame. O altro ancora apparentemente “banale”.

Se il terapeuta, in assoluta ingenua buonafede, non sa come capire i significati impliciti di quegli eventi, il modo in cui regolano le reciproche definizioni di relazione di quel sistema, non solo si troverà cieco a decidere come agire, ma rischierà di aggravare la situazione, ottenendo che il definito “paziente” lo veda come un nemico, oppure come uno che non può fare niente.

Domanda: Però è pur vero che chi sta male spesso o non lo ammette o se lo ammette rifiuta di chiedere o accettare aiuto

MG: Sì, ma l’errore sta nella premessa che a stare male, ad avere il problema, a fare cose bizzarre sia solo la persona considerata “il paziente”. Non l’intera rete comunicativa. Ad esempio se telefona una madre per un figlio/a maggiorenne è importante chiedere subito se la/il figlia/o sa che mi sta chiamando per lui/lei, e spesso la risposta è <<No, perché si arrabbierebbe! O mi direbbe sei matta tu lasciami in pace>>. In questi casi offro questa possibilità: << Se vuole il mio aiuto le chiedo di dire che ha telefonato perché Lei sta male, è preoccupata e chiede aiuto per sé, che la/il figlia/o è libera/o di non venire, ma che certamente si parlerà anche di lei/lui. Se Lei è sposata o convivente è invitato anche suo marito/compagno>>. In base a chi accetta o rifiuta l’invito è già possibile avere un’informazione preziosa.

Se è vero che tutti noi siamo una conversazione sapendo come far emergere la forma conversazionale di un sistema e come gestirlo è possibile lavorare anche se il “definito paziente” non si presenta. Ma sempre in trasparenza, sapendo cosa condividere e cosa no, ma soprattutto non facendo lavorare chi si presenta, come controllore/aiutante del “paziente” e/o dell’operatore.

Ho documentato questo metodo di lavoro in un capitolo del mio libro Manuale di tessitura del cambiamento, che si intitola appunto Terapia in contumacia.

Domanda: Ma ci sono delle indicazioni a seconda dei casi?

MG: Ad esempio, se il problema riguarda un bambino fino ai 13-14 anni, prima si fa una seduta con i soli genitori, o con il genitore che viene delegato, questo se sono conviventi. Se sono separati, prima con il genitore richiedente e poi, se è necessario vedere anche il bambino, separatamente ma solo se il genitore non richiedente autorizza ed è d’accordo. Altrimenti il minore non può essere visto. È bene che i genitori sappiano che hanno questo diritto/dovere.

Se si tratta di un adolescente, si può già fare la consultazione allargata. Cioè con papà e mamma e i fratelli compresenti. Anche in questo caso vale quanto già detto nel caso di genitori separati.

Il motivo per cui si fanno consultazioni separate è dettato dal voler evitare conflitti tra i genitori di cui i figli si sentono responsabilizzati e finire con il dover di nuovo occuparsi del conflitto tra partners piuttosto che del rapporto di ciascun genitore con i figli. Questa opzione consente di lavorare anche solo con il genitore che chiede aiuto se l’altro non è disponibile. Nella visione sistemico-connessionista, e per esperienza, imporre sedute congiunte a genitori separati è altamente controproducente. In particolare se un genitore non vuole dare il consenso, è possibile ovviare al problema lavorando con il genitore che chiede aiuto, aiutandolo cioè a separarsi veramente, piuttosto che continuare a mantenere rapporti conflittuali a “causa/per mezzo” del figlio o figli.

Una casistica importante è quella di genitori di figli maggiorenni ma ancora conviventi e con problemi di sofferenza psicologica importante. Sono le situazioni in cui i figli sono magari autonomi lavorativamente, ma ancora conviventi, o con storie sentimentali travagliate in continuo entrare e uscire da casa dei genitori, o con trattamenti psichiatrici in corso, o rientrati in casa dopo una separazione e dove ci siano anche dei bambini (figli/nipoti). O che vivono autonomamente in appartamento messo a disposizione dalla famiglia, ma in modo considerato non idoneo e non veramente autonomo.

In tutti questi casi è importante che la persona, considerata sofferente, ma che non vuole presentarsi, sia informata che qualcuno della famiglia sta chiedendo aiuto e che nulla avvenga alle sue spalle. È importante che chi chiede aiuto dica che lo fa per sé stesso e non per convincere “il malato di portarlo da qualcuno che lo curi”. Questo è un punto fondamentale perché accettare di parlare/dare consigli/ far fare ai famigliari partendo dal presupposto che loro sono “sani”, mentre il malato è tale, perché non riconosce che sta male, creerà problemi di efficacia e di fiducia tra operatore e persona in sofferenza, interni alla famiglia stessa e spesso peggiore il problema.

Questa è una situazione molto frequente anche nella coppia quando uno dei due è definito patologico e l’altro, quello che chiede aiuto, il sano. In realtà stanno male tutti e tutti concorrono alla “patologia comunicativa”.

Ad esempio se un genitore o un partner telefona, all’insaputa di colui che sta male (colui che in sistemica è definito colui che esprime/evidenzia anche un disagio a nome di tutto il sistema) o chiede colliqui riservati al terapeuta, l’operatore si troverà a dover gestire il problema spinoso del segreto professionale. Come fa a garantire riservatezza sui contenuti rivelati dal famigliare e insieme gestire la necessità di condividere alcune spiegazioni, scelte, fasi della terapia? Lo stesso vale se avvia una terapia individuale con la persona sofferente, ma in condizioni di dipendenza fisica o materiale dalla famiglia. È necessario prima di iniziarla chiarire e concordare   come avverrà il passaggio di informazioni di cui è bene che i famigliari siano informati.

Ecco perché fin dalla prima convocazione è bene chiarire esplicitamente chi sarà accolto, chi no, in quale modo si possono condividere le informazioni o il progetto terapeutico. La cosa fondamentale è che ciò venga spiegato dall’inizio e condiviso, chiarendo che non si accettano contatti all’insaputa del “paziente”. Se un famigliare ad esempio non desidera accettare l’invito all’inizio delle convocazioni, è naturalmente un suo diritto, ma deve venir informato che poi non potrà chiedere informazioni riservate a lavoro avviato. Nel caso solo se il “paziente” poi acconsentirà e comunque sempre in sua presenza.

Domanda: quindi, il problema del terapeuta non è coinvolgere sempre il o i famigliari come aiutanti (parent training) o individuare chi sbaglia in famiglia e fare la terapia a tutta la famiglia anziché ad uno solo. Sia che si faccia una terapia individuale o di coppia o con famigliari il problema del terapeuta è mostrare quando si parlano tra loro ma non si accorgono che dicono cose diverse da quelle che vorrebbero?

MG: Infatti nella prospettiva teorica della complessità che ho scelto il terapeuta non è uno che aggiusta le persone o scava in cerca di chissà che traumi. Il suo compito è bonificare il modo di comunicare, perciò deve porre attenzione a comunicare lui per primo in modo “sano”, cioè esplicito, non ambiguo. Solo così le persone possono vedere dove si aggrovigliano, come mai volendo aiutare si impasticciano di più. Uso il verbo “vedere” non a caso. Spesso questi “grovigli” comunicativi sono legati a presunti segreti della famiglia. Già Mara Palazzoli Selvini suggeriva che spesso chi sta male cerca di dare voce ai “segreti di Pulcinella” del sistema famigliare allargato. Non è necessario che il segreto sia terribile ma che sia ambiguo, nascosto solo per alcuni e non per altri.

Per chiarire questo concetto faccio l’esempio che è senz’altro capitato a tutti: provare a spingere una porta che non si apre. Se continuando a spingere non si apre non ha senso spingere sempre più forte, pensando che sia rotta. Si dovrà cambiare prospettiva: forse invece che spinta va tirata, oppure ha uno scrocco che non ho visto.

Quando faccio terapia, in qualunque setting, so che il cambiamento comincia quando la o le persone mi dicono. << Beh vista così può essere>> o <<non l’avevo mai vista così>>.

Questo modo di lavorare, questa competenza a tradurre le comunicazioni è molto efficace per gli operatori che lavorano in strutture terapeutiche che ospitano persone con diagnosi di patologia grave, dove da anni dò supervisione. Imparando a leggere ogni comportamento come una comunicazione, lo scopo degli operatori non è “correggere” o controllare, premiare o inibire un comportamento “matto”, bizzarro, irrazionale, insensato, bensì comprenderne il significato. Un classico è una “crisi”, prima o dopo una visita di famigliari o una loro telefonata. Non è che i famigliari “agitano il paziente” o è colpa loro se il paziente si agita.

Il fatto è che solo comprendendo, cioè chiedendo al paziente cosa significa per lui quella visita o contatto possiamo capire la sua reazione. Può essere rabbia perché spera di andarsene o rabbia perché vorrebbe dire che non ha voglia di vederli ma non se la sente. Oppure che non sa se vengono volentieri o perché devono e l’ha deciso la struttura.

Se non si esplicita o metacomunica non si può capire il significato del comportamento. Ogni persona ogni situazione, in ogni incontro c’è un significato specifico che si può comprendere solo conoscendo il contesto conversazionale allargato. Quelli che ho chiamato i “conversatori assenti” (vedi sopra).

Al termine di questa conversazione vorrei che rimanessero chiari questi concetti chiave:

Chi si convoca all’inizio di un rapporto/progetto terapeutico e come si gestisce il coinvolgimento o l’esclusione dei famigliari cambia l’assetto della conversazione e perciò l’intero percorso di aiuto e il suo esito.

Non si convoca la famiglia perché è patologica o causa della patologia, ma perché permette di vedere come funziona il modo specifico di comunicare anche fuori della stanza del terapeuta. O della struttura di accolglienza.

 Si può vedere anche solo una parte del sistema famigliare, perché esso funziona come un ologramma cioè avendo a disposizione una parte si può completarne l’immagine attraverso la “conversazione triadica”.

Note bibliografiche

Miriam Gandolfi, Manuale di tessitura del cambiamento. Un approccio connessionista alla psicoterapia. (2013), Giovanni Fioriti, seconda edizione ampliata 2015.

Presentazione del libro: Psicoterapia, manuale di tessitura del cambiamento. Di Miriam Gandolfi – Mad in Italy (mad-in-italy.com)

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Si laurea in Psicologia nel luglio 1976 presso l'Università di Padova e da subito di occupa di temi di integrazione e contrasto alle istituzioni segreganti, ambito che resterà sempre di suo maggior interesse. Infatti nel settembre 1976 accetta di lavorare per il neocostituito Centro Spastici di Bolzano che dopo alcuni anni diventerà il Servizio Provinciale Specialistico per la Riabilitazione dei Neurolesi e Motulesi, occupandosi del superamento delle scuole speciali e degli istituti per adulti incluse le strutture manicomiali. Completa la sua formazione presso il reparto di psicosomatica della Clinica Pediatra dell'Universita di Innsbruck ( 1977) dove si avvicina all'approccio sistemico alla malattia mentale, noto poi come Milan Approch. Proseguirà e concluderà la sua formazione in questo indirizzo a Milano, nel periodo 1980- 1985 divenendo, nel momento della sua fondazione, membro e didatta della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica (S.I.R.T.S.). Dal 1999 al 2018 è docente presso l' Istituto Europeo di Terapia Sistemo-relazionale di Milano.( EIST riconosciuta MIUR nel 2001). Lascia il Servizio pubblico nel 1992 mantenendo attività di formazione e supervisione per vari servizi socio-sanitari pubblici e docenze a contratto universitarie. Dal 2020 è docente a contratto presso l'Universita di Bergamo per il corso di Alta Formazione sui Disturbi Specifici dell'Apprendimento. Dal 1992 è co-titolare del Centro di Psicologia della Comunicazione e dell'Officina del Pensiero ( Bolzano e Trento) dove svolge e coordina attività di ricerca in particolare nell'ambito di autismo, DSA e ADHD , temi su cui ha prodotto pubblicazioni. Si è sempre impegnata anche per valorizzare la categoria professionale degli Psicologi assumendo la carica di Segretario provinciale del sindacato degli psicologi prima della costituzione dell'Ordine Professionale (1989) è poi quella di primo presidente dell'Odine Provinciale Provincia Autonoma di Bolzano. Dr. Miriam Gandolfi Psicologa psicoterapeuta Bolzano/Trento www.officinadelpensiero.eu 0471/261719