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Primavera silenziosa – Quando l’animo non sboccia
Pubblichiamo l’articolo di Giovanna (nome di fantasia), familiare che gentilmente ci ha mandato la sua testimonianza.
L’articolo mette in luce le incongruenze che si manifestano durante il trattamento psichiatrico a cui è stata sottoposta la nipote.
Il racconto è importante perché è una testimonianza da parte di un operatore sanitario, che ha accompagnato, sia con discernimento professionale che affetto familiare, le vicende psichiatriche della ragazza.
Il punto essenziale, che purtroppo ne scaturisce, è che la “cura” può promuovere potenzialmente uno stato sostanziale di cronicità del disagio emotivo.
Primavera silenziosa – Quando l’animo non sboccia
Da dove iniziare?
Lavoro in salute mentale. Lavoro in un servizio pubblico.
È stata una scelta la mia professione. Volevo capire ed aiutare. Ideali ‘68ini, misti ad un malsano pragmatismo.
Ma Basaglia è morto da tempo e la variabile umana – costituita da: mancanza di adeguata formazione dei sanitari, resistenze personali e ideologiche, assoluto menefreghismo travestito da burnout, defaillance politiche e gestionali, varie ed eventuali… – mi ha ben presto fatto capire che era stata la scelta sbagliata.
Dunque, quando accade il fatto, ero già triste e pensierosa e, tutti i giorni, mettevo in discussione il mio operato e le mie scelte.
Mia nipote, la mia splendida gioiosa, solare, intelligente, appena maggiorenne nipote, “impazzisce”.
No, non ci arriva di botto, mostra graduali e crescenti segni di malessere. Ma, vabbè, sono solo la zia, e poi, è in crescita, si cambia molto a quell’età. Ma i segnali, poi ricostruisci, c’erano.
Alla festa del suo 18esimo, pochissimi presenti. Quasi tutti i suoi compagni disertano. La sala presa in affitto sembra enorme. E lei, pare non accorgersi di questo vuoto. Un giorno mi dice di non voler più andare a scuola. Ha paura. In età puberale era stata vittima di bullismo. “Forse è perché è molto carina?” La madre delega e nega.
Un giorno scappa, così. Esce di casa, fa autostop. Io sono lontana e saprò che la ritrovano confusa presso una stazione ferroviaria. Il primo approccio ai servizi di salute mentale è stato soft. Era un medico mio “amico”. Il consiglio, dopo un primo colloquio, che forse è stato l’unico sul-serio che abbia mai avuto, consigliava una mezza Ziprexa, giusto per contenere un po’ di pensieri sparpagliati e psicoterapia.
Ma i genitori, in quella fase, sono ostili ai farmaci. Sono ostili a interventi terzi. Rimane in famiglia e senza nessun intervento. La cosa velocemente degenera. Io mi rendo conto del pericolo. Ma sono sola. Poi lei scappa, di nuovo, e percorre 1000 km in una notte (non si sa come). La ritrovano i CC, l’andiamo a riprendere e rimane per settimane, catatonica a casa. Non parla, evita il cibo, deve essere guardata a vista.
E allora, forzo la mano, e avverto la cavalleria, i miei colleghi in psichiatria. La faccio visitare, la ricoverano. Il suo primo incontro con l’SPDC. Sono passati 10 anni da allora. E non c’è più niente, oltre il mio desiderio, che mi ricordi di lei.
Cosa è accaduto? Mi sono spesso chiesta se il mio lavorare nel suo contesto di cura, non fosse un ostacolo piuttosto che un bene. L’essere consapevole degli errori, delle mancanze, delle fughe ideologiche, è stato ed è, motivo di mia sofferenza. A 19 anni dovrebbe esserci la presa in carico globale. A 19 anni devono aiutarti a capire che ti sta succedendo (anche dopo) e che il tuo futuro non potrà mai essere come il tuo passato, ma farti capire che non lo sarebbe stato comunque, perché stai crescendo.
A 19 anni devono infonderti fiducia nel futuro. A 19 anni, quei 19 anni lì, vissuti come un post adolescenza molto faticoso (ebbene sì, forse la famiglia è disfunzionale).
È accaduto che era troppo giovane per essere trattata da adulta e non lo è stata considerata, ma i suoi genitori, non erano e non sono, purtroppo in grado di aiutarla e lei è divenuta il simulacro dei loro fallimenti personali e di coppia.
Tutto ciò il servizio psichiatrico pubblico avrebbe potuto gestirlo? La diagnosi? Lei leggeva i bugiardini la notte e il giorno dopo simulava. Istrionica, certo, con tanto bisogno di attenzioni. Ma la diagnosi (e la terapia), è delle più definitive.
Non posso qui descrivere il contesto in cui è cresciuta, sicuramente molto ideologico e atipico. Ma sicuramente per lei, molte situazioni, comunemente ritenute anomale, rientravano nella normalità, sia nella religione, sia nelle ideologie. Ma una siffatta anomalia di contesto di provenienza, una spiccata tendenza alla drammatizzazione istrionica, vengono velocemente etichettate e, a grandi salti, si arriva alla clozapina. Ora, per chi non la conoscesse, è un antipsicotico di nuova generazione, ritenuto l’ultima frontiera per la cura della schizofrenia.
Dopo qualche tempo dall’utilizzo, mi venne a trovare dicendomi: “Zia, mi sento strana, non provo più le cose. È come se le emozioni fossero lontane da me e io le guardassi dall’esterno”. Lei capiva che era il farmaco, io sapevo che era il farmaco. Ma non potevo interferire.
Ed è rimasta così, con quel farmaco che aliena le emozioni. Alessitimia, morte di emozioni e di partecipazione. Da allora, non mi cerca più, non mi parla più di ciò che prova e non lo fa con nessuno.
Ora è obesa, mangia in maniera smodata e fuma tantissimo. Esce raramente.
Sono stata “tagliata fuori” dalla sua famiglia (che sarebbe anche la mia), anche perché da un po’ di tempo, in maniera sempre più marcata, li invitavo ad effettuare dei cambiamenti, farmacologici, di stili di vita, rifiutati.
I genitori, tendono al mantenimento dello status quo, lei, la “pazza” è la garante delle loro attuali identità. La madre simulacro e il padre disimpegnato. La loro presunta normalità, nasconde alienazioni non codificate, ma evidenti. Sono loro il problema. Io mi sento inerme e attendo un epilogo non certo felice. Con me non parlano più. Questa è la storia.