Un’altra ipotesi di spiegazione della depressione
V Conferenza della dr.ssa Miriam Gandolfi Martinelli del 28 ottobre 2022
PREMESSA
Per me è fondamentale muovermi dentro il solco del metodo scientifico, che significa:
– osservare
– descrivere
– riconoscere attraverso la casistica una tipologia specifica di fenomeni, cioè distinguere ed eliminare ciò che è aspecifico rispetto al fenomeno che si vuole comprendere.
Ad esempio, il mal di pancia non è una patologia è un sintomo evidente, importante, ma aspecifico e ha un significato diverso a seconda di quale patologia è indicatore.
– formulare un’ipotesi sulle cause del problema (cosa genera il sintomo mal di pancia)
– confrontare la capacità esplicativa tra le varie teorie (dire che si soffre di mal di pancia ricorrenti perché si è emotivi, senza aver escluso in modo documentato cause organiche è una teoria fragile)
– valutare gli esiti positivi e avversi degli interventi scelti, anche nel lungo periodo.
PER UN APPROCCIO SCIENTIFICO ALLA DEPRESSIONE
Ad oggi, quando parliamo di depressione, siamo tutti d’accordo su ciò che va osservato e descritto
Non mi dilungo, anche in internet ci sono siti affidabili che descrivono storia e sintomi di ciò che in modo generale si definisce “depressione”.
In sintesi, i criteri accettati da tutti sono che almeno uno dei sintomi dev’essere costituito da umore depresso o perdita di interesse o piacere nelle attività usuali, perdita di progettazione della propria vita.
Ciò si manifesta con una grave svalorizzazione del sé, senso di colpa, senso di inferiorità e indegnità, perdita del valore personale. Tra i disturbi psicosomatici più evidenti perdita del sonno, dell’appetito e dell’interesse sessuale. Questo stato deve durare continuativamente per almeno due settimane.
Per gli operatori (psichiatri e psicologi) che intendono restare fedeli ad un approccio scientifico i problemi cominciano quando si deve rispettare l’individuazione di criteri altamente specifici per non fare errori di diagnosi differenziale:
Ad esempio, essere disperati se l’azienda che si è costruita a prezzo di sacrifici fallisce a causa delle bollette esorbitanti e impagabili ciò è SANO, se si è disperati perché il figlio 18enne è stato ucciso da qualcuno che guidava sotto l’effetto della droga e dell’alcol ciò è SANO.
Se sono così addolorato da tentare il suicidio perché il partner mi ha abbandonato… qui è necessario avere qualche dubbio.
IL DOLORE E I PROBLEMI APPARTENGONO ALLA VITA, la patologia nasce quando il rapporto tra un evento che ci colpisce e la reazione ad esso si amplifica a tal punto da alterare in modo radicale la nostra possibilità di vivere. Interferisce, interrompendola, con la prosecuzione della vita di relazione e di sopravvivenza.
Ad esempio, l’abbandono di un moroso nei giovanissimi o la difficoltà a superare esami universitari viene molto spesso indicata come esordio di depressione o di disturbo alimentare restrittivo e perciò spesso viene fatta una doppia diagnosi (depressione e anoressia associate).
Se un evento tutto sommato frequente nella vita delle persone può generare un tale disastro sembra legittimo pensare che il soggetto sia mancante delle difese per farci fronte. Spesso per spiegarla si usa la metafora della iper-reazione come se fosse uno shock anafilattico da allergia. Ma è legittimo questo prestito concettuale?
Infatti qui arriva il punto dolente: mentre sulle cause di una reazione allergica possiamo avere prove di laboratorio, sulle cause della sofferenza psichica in generale e della depressione in particolare, siamo in alto mare. Usare una metafora medica come lo shock anafilattico o un diabete per spiegare la sofferenza psichica e i comportamenti “bizzarri”, non è una spiegazione. È una narrazione di ciò che appare. Così per sfuggire al buco di indimostrabilità, si ricorre al modello BIO-PSICO-SOCIALE che prevede:
Fattori biologici. Si riferiscono alle alterazioni a livello dei neurotrasmettitori, ormonale e nel sistema immunitario. Sappiamo che il dibattito è acceso e in corso, perché questa resta un’ipotesi non univocamente documentata. Non entro qui nel merito ma segnalo il recente articolo di J. Moncrieff (How to take the news that depression has not been shown to be caused by a chemical imbalance).
Fattori psicologici e sociali. Eventi di vita stressanti sono stati riconosciuti come fattori precipitanti gli episodi depressivi, tra questi vi possono essere lutti, conflitti interpersonali e familiari, malattie fisiche, cambiamenti di vita, essere vittima di un reato, separazioni coniugali e dai figli.
Tra questi eventi possiamo trovare anche cambiamenti nelle condizioni lavorative o l’inizio di un nuovo tipo di lavoro, la malattia di una persona cara, gravi conflitti familiari, cambiamenti nel giro di amicizie, cambiamenti di città, ecc.
Questi eventi possono essere maggiormente impattanti in persone che hanno avuto esperienze infantili avverse e che mancherebbero quindi di abilità per affrontarli efficacemente.
Sarete d’accordo che questo elenco è una sorta di rete a strascico che tira su di tutto: sfido chiunque a non aver avuto o avere più di uno di questi problemi. In tal senso potremmo dire che la depressione è una grana davvero democratica.
Personalmente ritengo che questa lista viola il principio della specificità, necessario per un approccio scientifico a qualunque fenomeno si voglia spiegare. Segnalo anche il ricorso al concetto classico di “trauma infantile” come causa della “mancanza di abilità”. Chi di noi non ha avuto esperienze infantili avverse?
Infatti se una persona è vissuta fino ad un certo punto, nonostante la sua infanzia e le grane della vita, facendo un sacco di cose, come ha fatto a sopravvivere fin lì se non ha abilità acquisite nel passato? Segnalo che anche la storia della scienza e dell’arte ci consegna molti personaggi famosi, grandi depressi, alcuni anche suicidi.
Fattori genetici e fisiologici. È necessario sottolineare che le affermazioni che seguono non sono supportate da dati scientifici documentati, come ad esempio l’individuazione di uno o più geni specificamente correlati.
Esse sono il frutto di osservazioni di operatori che seguono un consensus (cioè un accordo tra clinici): “familiari di primo grado di individui con depressione maggiore hanno un rischio di sviluppare il disturbo da due a quattro volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Ad essere ereditata geneticamente è la predisposizione a sviluppare il disturbo non il disturbo vero e proprio”.
In un articolo comparso qualche tempo fa su Le Scienze è emerso che si sono trovati ben 180 geni che potrebbero correlare con i disturbi psichici (schizofrenia, paranoia, depressione ecc.). Perciò genetisti di mestiere hanno dichiarato che non è possibile definire tali disturbi come geneticamente determinati, appunto per mancanza del criterio di specificità.
Vedremo più oltre come il punto più fragile di questa ipotesi genetico/ereditaria, che infatti non è confermata dai genetisti, tira in campo il ruolo giocato da chi osserva i fenomeni e raccoglie i dati. Sul problema dell’oggettività dell’osservatore vedremo cosa ha scoperto la fisica quantistica.
Il problema della genericità delle tre ipotesi descritte è la causa del fenomeno generale in ambito psicopatologico, noto da tempo, dell’iperdiagnosi di psico-patologie e della nuova prassi di fare diagnosi a sommatoria definita come “comorbilità”. Fenomeno in grande aumento soprattutto nei bambini dei bambini.
Il pericolo di confondere ciò che si osserva (sintomi/comportamenti) con la spiegazione del fenomeno osservato è alla base dell’allarmante crescita esponenziale di diagnosi psichiatriche, anche gravi, registrato dall’inizio della pandemia di Covid -19 e tutt’ora in corso. È discutibile sul piano scientifico confondere gli effetti della gestione della pandemia di Covid-19 con una patologia individuale del soggetto slatentizzata dal virus o dallo stress della situazione. In questa prospettiva la sofferenza psichica sarebbe un indicatore o un evidenziatore di una sorta di debolezza costituzionale congenita dei singoli soggetti (vedi articolo Giuseppe Bersani).
È questa confusione tra ciò che si osserva e il suo significato complesso ad avere come conseguenza sia la formulazione scorretta di diagnosi sia l’abitudine di prescrivere sbrigativamente e superficialmente antidepressivi a chi segnala problemi di salute o chiari effetti avversi post inoculazione del pro-farmaco per il Covid-19.
Una sorta di coperchio che impedisce di cogliere la complessità del processo messo in atto.
TRATTAMENTO
Qualunque sia l’orientamento e la preparazione dell’operatore l’idea mainstream si fonda sui principi della fisica classica e della medicina classica, ovvero solo se si riesce ad individuare la causa, si può o rimuoverla, e allora si guarisce, o cercare di gestirla, cioè raggiungere uno stato di salute vigilata.
Concetto certamente corretto in teoria, ma spesso insufficiente per affrontare la complessità degli esseri viventi e in particolare gli umani. Per questo motivo concentrarsi sulla ricerca di una causa può essere addirittura dannoso, perché impedisce di cogliere la complessità dei processi in atto.
Gli psichiatri e psicologi che condividono la teoria classica che individua la causa primaria nella costituzione organica (genetica e biochimica) scelgono l’uso di sostanze chimiche, che non possono “riparare” un danno congenito, ma solo controllarne gli effetti. Per questo motivo gli operatori spiegano il loro procedere attraverso la metafora dell’analogia con diabete o ipertensione.
Oltre a questo approccio organicista, a livello di teorie psicologiche del comportamento i due approcci più noti, che pure si fondano sulle premesse della scienza classica sono quelle cognitivo-comportamentale e psicoanalitica. Esse differiscono più nel metodo che nelle premesse di fondo.
Infatti condividono che vi siano delle cause psicosociali, che vi siano dei traumi nella storia del paziente, prevalentemente legati all’infanzia e nel rapporto con i genitori e che il paziente mette in atto delle strategie scorrette per gestirli. Entrambi considerano i problemi comportamentali un problema, un’anomalia del singolo individuo. Anche queste due teorie, come tutte le teorie scientifiche si sono modificate nel corso del tempo e differenziate al loro interno. Quelli citati sono comunque i pilastri teorici essenziali tutt’ora fondanti.
La teoria cognitivo-comportamentale attribuisce prevalente peso ad una scorretta, esagerata, irrazionale valutazione e gestione degli eventi attuali, si concentra sul presente per superare e ridimensionare eventuali traumi, tra essi gli scorretti stili di attaccamento precoce infantile (sempre colpa delle mamme ma, per rispettare la parità di genere, direi anche dei papà).
La terapia cognitivo comportamentale aiuta la persona a sviluppare una modalità di pensiero più equilibrata e razionale. Lo psicoterapeuta ritiene di poter insegnare/trasmettere alla persona modalità comunicative più efficaci o strategie per risolvere i problemi nei quali si trova coinvolto nel qui ed ora.
La psicoanalisi mette l’accento sul vissuto di lutto, perdita precoce dell’oggetto amato, che però vive nell’inconscio del paziente, e che si riattiva nel presente in una situazione di perdita reale. Poiché il trauma originario risiede in una esperienza precoce è necessaria una ricostruzione dettagliata della storia passata per poterla riconoscere nel presente.
Oltre a ciò, a differenza dell’approccio cognitivo-comportamentale, la psicoanalisi dà maggior peso agli aspetti emotivi che sarebbero la causa dello scorretto funzionamento dell’Io, l’istanza razionale e del controllo cosciente.
Lo psicoterapeuta ritiene di poter interpretare ciò che nel presente si manifesta in modo inconscio e incomprensibile per il paziente, ricostruendo il passato e rendendo così chiaro alla persona il collegamento oscuro tra i due eventi.
Entrambi questi approcci di fondano sul modello scientifico energetico offerto dalla fisica classica:
stress/trauma = causa che genera una pressione eccessiva esterna e una perdita di energia (“de-pressione”) interna
errore razionale = eccesso di emozione che interferisce sulla cognizione (la capacita che controlla la pressione/energia irrazionale/pulsionale)
Il modello classico di mente è la macchina a vapore: se per qualche motivo o trauma esterno o difetto di fabbrica la macchina ha uno scorretto flusso energetico nasce la patologia.
Questo modello “meccanicistico” viene utilizzato anche per assimilare i disturbi psichici a quelli di chi soffre di pressione arteriosa bassa o alta. Ma comunque ormai sappiamo che anche per capire come regolarizzare la pressione sanguigna, non basta assumere una pillola: va compreso l’intero processo (complesso) che la genera.
Qualcuno ha sentito parlare del recente premio Nobel per la fisica? Lo cito perché ci offre un altro modello scientifico più adatto per cercare di comprendere i fenomeni complessi, anche se Parisi in un’intervista sul tema ha detto che in realtà la fisica quantistica non si capisce e la si accetta a scatola chiusa. Chi scrive è altamente allergico alle “scatole chiuse”, perciò offre un’estrema sintesi dei concetti e suggerisce un romanzo scientifico ai più curiosi (Gabriella Greison, L’incredibile cena dei fisici Quantistici, Salani, 2016). La fisica quantistica afferma che non è possibile avere un punto di vista assolutamente oggettivo (giusto versus sbagliato). Che l’osservatore è condannato ad alterare la realtà mentre la osserva. Nel nostro caso vale per il paziente ma ancor di più per lo scienziato/operatore. La quantistica ha scoperto anche che ciò che muove l’universo non è sempre e solo una certa quantità di energia fisica materiale. Ad esempio se, mentre cammino, mi cade in testa un panno steso o un cornicione la loro diversa energia di caduta mi causerà danni ben diversi. Ma quando inviamo una mail non usiamo energia fisica come se spedissimo una lettera di carta. Il premio Nobel 2022 è stato assegnato ad Alain Aspect, John F. Clauser e Anton Zeilinger, perché sono riusciti a dimostrare un fenomeno, intuito già da Einstein e osservato per la prima volta da Aspect nel 1981, che nell’universo esistono delle particelle “intrecciate”, cioè che si influenzano a vicenda quasi simultaneamente anche a grande distanza (ciò viola il principio di località). Ciò che procura il cambiamento non è energia fisica ma la capacità di alcune particelle di trasmettersi informazioni comunicando simultaneamente senza contatto materiale, essendo misteriosamente in relazione tra loro. La scoperta di questo fenomeno (entanglement) modifica il concetto di tempo lineare classico (prima e dopo) che risulta modificato in un concetto di tempo circolare simultaneo.
Non ci avete capito nulla? A questo punto vi racconto la storia del Signor Abele
Il Signor Abele (1960) arriva spinto, anzi trascinato, dalla moglie. Ha 62 anni. Due anni prima è morta la madre Lina (89 anni, 1931-2020); dopo alcuni mesi egli inizia a scivolare in una forte depressione, al punto che rischia di perdere il lavoro a un soffio dal pensionamento. In casa il clima è diventato insostenibile anche perché hanno due figli, un maschio di 30 anni in procinto di sposarsi e desideroso di godersi questo momento e una figlia che sta terminando l’università (26 anni) ed evita di tornare a casa il più possibile, sono stati due anni di lutto collettivo. Il tempo si è fermato, ma la moglie e i figli vogliono giustamente riprendere a vivere, quindi lui deve curarsi.
La storia personale: Abele è il secondogenito di 4 figli. La prima è una sorella, Anna, due anni più vecchia (62 a. al momento della morte della madre) seguono una femmina del 1963, Marina, e un maschio del 1965, Giovanni. Il loro padre 4 anni più anziano della moglie (1927) muore a 50 anni di infarto. La moglie era casalinga e lui lavorava in un’azienda come impiegato con posizione di fiducia, dopo essersi guadagnato sul campo le sue competenze.
Avrebbe voluto studiare ma all’epoca avere un diploma professionale di contabile era già una posizione di rilievo. Per questo motivo asseconda il figlio Abele nella scelta di frequentare il liceo classico. Mentre la prima figlia si avvia alla professione di sarta. Benché con un titolo di studio professionale saprà farlo fruttare per essere contesa dalle signore bene della città.
Alla morte inattesa del padre la terzogenita sta frequentando la prima ragioneria e il piccolo Giovanni la seconda media. Si può immaginare il tornado scatenato dalla morte dell’uomo. La famiglia non ha parenti vicini e comunque non in grado di aiutarli economicamente.
La madre di Abele dopo un brevissimo periodo di disorientamento sembra aver costruito una scialuppa di salvataggio a cui si mette al timone e su cui imbarca tutti i suoi figli. Da quel momento lavorerà ad ore come domestica mentre ad ognuno dei figli verrà assegnata la propria parte di lavoro. La grande, Anna, grazie al suo lavoro può contribuire anche economicamente oltre che seguire i fratelli minori.
Non Abele, che presa la maturità classica, abbandonerà il suo sogno universitario per accettare il posto offerto dalla ditta dove lavorava il padre. Con quello stipendio la scialuppa può riprendere a navigare veramente. Marina e Giovanni potranno infatti laurearsi, benché contribuendo alla propria autonomia con lavoretti stagionali o borse di studio. La madre non cercherà mai di rifarsi una vita sentimentale. Abele si sposa a 30 anni e continuerà a pianificare la sua vita per garantire sicurezza e futuro alla moglie e ai suoi figli, senza dimenticarsi della madre.
Ad occuparsene sono prevalentemente lui e Anna dividendosi i compiti in modo “gerarchico”: Anna delle questioni pratiche di casa e di salute; Abele di quelle da “studiato”: spese e problemi condominiali, denuncia dei redditi, pensione ecc. Marina e Giovanni, una volta diventati adulti, sono presenti con visite o per portare a turno la madre in vacanza.
La scialuppa costruita dalla madre sembra diventata un’imbarcazione solida in cui tutti hanno uno spazio confortevole e condiviso e insieme ognuno procede nella propria vita.
Poco dopo aver compiuto 85 anni Lina ha un ictus, non gravissimo, ma che limita la sua autonomia. Non può più essere lasciata sola. Da questo momento la scialuppa comincia a mostrare qualche crepa e ad imbarcare acqua.
Il problema? Cominciano divergenze su come occuparsi della mamma. Abele e Anna riusciranno a mantenerla a casa sua: Anna organizzando e coordinando le badanti e Abele occupandosi dei problemi contrattuali e della burocrazia assistenziale, spesso sacrificando il suo tempo libero, ma facendolo di buon grado per non appesantire i fratelli minori in altre faccende affaccendati.
Lina muore. Dopo tre mesi inizierà la depressione di Abele. Proverà ad affrontarla prima con l’aiuto del medico di famiglia, che prescrive antidepressivi. Poi con l’invio al servizio psicologico dell’azienda sanitaria. Inizierà un ciclo di psicoterapia individuale, ma al raggiungimento del primo step delle dieci sedute lo psicologo lo invia al servizio psichiatrico per riconsiderare la prescrizione farmacologica.
Viene suggerito un ricovero di quatto settimane in clinica convenzionata specializzata per pazienti psichiatrici. La struttura offre oltre al controllo farmacologico, psicoterapia individuale e di gruppo e terapia occupazionale. Il protocollo prevede un ricovero di quattro settimane ripetibile per una volta. Abele usufruirà delle otto settimane in convezione. L’andamento altalenante di Abele gli farà raccogliere una catena di variazioni diagnostiche sempre sul tema depressivo. Ma quella fondamentale resta “depressione”. I sintomi ci sono tutti e durano ormai da due anni.
Se guardiamo i criteri dei dati osservativi espressi in premessa, necessari per emettere la diagnosi, essi ci sono tutti. Ciò che autorizza la diagnosi di “malattia” è proprio quella sproporzione nella durata e nell’intensità della reazione dolorosa alla morte di una madre anziana e la negazione di tutti i piaceri che la vita gli sta per riservare: è sano, sta per andare in pensione, pieno di hobby che condivide con la moglie, ha due figli che gli stanno dando molte soddisfazioni. Anche eliminando il sospetto genetico, visto che né la madre né i fratelli hanno reagito in modo depressivo ai lutti, per Abele appare legittimo pensare ad una sua caratteristica costituzionale. La causa/lutto c’è. Anzi sono due!
Dunque se ci si mette sulla sedia dello Psy di turno (psichiatra, psicoterapeuta cognitivista o psicoanalista) è evidente che qualcosa si è rotto. Altrimenti non sarebbe possibile che la morte di una madre di 89 anni, ormai non più in salute, possa aver scatenato una reazione che gli fa perdere tutto ciò di più caro e piacevole che è riuscito a costruire in 30 anni di vita, mettendo anche a rischio la tenuta dei rapporti con tutti i suoi cari: moglie, figli e fratelli.
In soccorso degli Psy, non del signor Abele, viene un’etichetta, anzi un mantello adatto a tutte le stagioni, che sembra giustificare tutto (trovare finalmente la causa), ma non spiega nulla (non trova il senso di ciò che succede all’uomo). Questo mantello, che confonde la descrizione con la spiegazione si chiama Disturbo Post Traumatico da Stress.
Ad uno psicoterapeuta cognitivista, appare evidente che Abele ha reagito all’evento della morte della madre in modo irrazionale ed emotivamente esagerato. È questa insensatezza a far pensare che si è rotto qualcosa nella sua macchina mentale, che rendendo insufficiente la psicoterapia, legittima l’invio all’esperto di chimica. Ma anche lo psicoanalista non avrà maggior fortuna. Dopo aver lavorato sul passato di Abele potrà comprendere che il primo lutto, quello per la morte del padre, ha scatenato il vero lutto quello della perdita del suo sogno universitario e di vita. La morte della madre ha riattivato quel dolore, quella perdita ormai irrecuperabile. Stando alla durata dello stato depressivo è evidente che anche questa illuminazione sul reale e antico lutto non elaborato, non è stata sufficiente per Abele.
Ora vi chiedo di alzarvi dalla sedia dell’operatore, di colui che, osservando dall’esterno, cerca la causa in un passato lineare sperando di rimuoverla; e di sedervi su quella di Abele. Cioè dell’unico che può spiegarvi che senso, che significato ha per lui quello che gli succede, perché guardato attraverso i suoi occhi.
Mettetevi nei panni di un detective, cioè di uno curioso che non ha già deciso di sapere come sono andate le cose. Ricostruite la scena da quando è iniziata: 3 mesi dopo la morte di sua madre.
Potete immaginare il racconto di Abele e di sua moglie? Già perché di fronte ad una sofferenza (patologia) grave sono necessari più occhi.
Appena morta la madre, Anna e Abele si sono suddivisi le incombenze necessarie come al solito: Anna per vestire la mamma, scegliere i fiori, organizzare l’accoglienza dei parenti lontani, ecc, aiutata anche dalla cognata. Abele per l’elenco e mail alle persone da avvisare, Comune, INPS, sistemare il licenziamento della badante, ecc. Sarà proprio un bel funerale: si incontra qualche vecchio zio, ma soprattutto i cugini con i quali riportare alla memoria marachelle da bambini, stupidaggini da ragazzi e aggiornarsi su cosa fanno figli e nipoti per chi è già nonno. Emerge la saggia consolazione che la vecchia e battagliera signora ha avuto il dono della buona morte, a casa propria, prima di un tracollo totale, senza sofferenza.
Dunque, cosa è accaduto dopo? Ovvio, il calo di adrenalina: dopo uno stress prolungato la pressione scende e si resta prostrati. Ecco il Disturbo Postraumatico da Stress che ci permette di dare un’etichetta, un nome. Ma il detective serio non tira conclusioni affrettate e riconsidera tutta la scena, ma soprattutto non esclude nessuno di coloro che hanno a che fare con il fatto.
Cosa hanno fatto Marina e Giovanni in occasione della morte e del funerale? Cosa ne è stato delle cose personali e dell’appartamento della mamma? Vi lascio lavorare di fantasia o forse di esperienza personale. Vi offro solo la sintesi della narrazione di Abele e di sua moglie che mi aiuterà a portare virtualmente in seduta anche il punto di vista di tutti gli altri: fratelli e cognati, figli e nipoti.
Marina e Giovanni si erano subito attivati per sgombrare casa, a chi potevano interessare vecchi abiti e mobili? Abele resta profondamente deluso dal fatto che i fratelli minori abbiano preso iniziative rapide e autonome senza consultare né lui né Anna. Quando si è trattato di decidere come utilizzare l’appartamento i fratelli “si erano già portati avanti con il lavoro”. “Non che ci fossero cose di valore o litigi sulla divisione di quel po’ che la mamma aveva lasciato”. Improvvisamente Abele realizza che tutto il suo lavoro per non gravare sui “fratellini” non veniva riconosciuto. L’idea certamente narcisistica che lui era più esperto ed efficiente era crollata miseramente. La cosa più insopportabile era che quando lui cercava di spiegare “Beh avreste potuto prima consultarci me e Anna (ma il sottinteso era me)” la risposta era “Ma lo stiamo facendo ora, abbiamo pensato che così avevi una cosa in meno da fare”. E via con discussioni infinite, su dettagli anche banali fino a giungere su recriminazioni del passato. In quella scialuppa costruita 30 anni prima, tutti avevano il loro lavoro, ma non c’era mai stato tempo o necessità di comunicare e di scambiare informazioni su “chi sei tu veramente per me”.
Abele aveva costruito la propria identità sul sentirsi importante e indispensabile ed ora si sentiva dire che era stato anche ingombrante, che non lasciava spazio che non capiva che anche gli altri erano capaci e avevano le loro idee. Ma allora perché non si erano fatti avanti chiedendo di occuparsi di tutta la noiosa burocrazia? E poi sentirsi dire che tutti quei raduni famigliari, loro li facevano solo per la mamma, perché sapevano che ci teneva a vederli tutti insieme.
Abele, solo ora riesce a dire e dirsi ad alta voce come fosse infastidito quando andava in visita da sua madre e lei continuava a parlarle soprattutto di Giovanni, lagnandosi con lui che lo vedeva poco. Ma non aveva mai osato arrabbiarsi con lei! Aveva masticato amaro e ingoiato.
Ed ecco qui il vero protagonista della depressione: la rabbia, anzi il furore. Una forza vulcanica che deve essere tenuta a bada per proteggere chi si ama ma che è contemporaneamente è causa del furore.
Abele, solo nella fase successiva alla morte di sua madre rivede, guarda con altri occhi, la sua posizione nella famiglia: pensava di essere importante invece era solo utile. Ma la cosa più insopportabile è che gli altri non capiscano dov’è il problema. Guardato con i suoi occhi il suo stato emotivo è assolutamente comprensibile e tutt’altro che bizzarro e incomprensibile. È pieno sì di senso.
Abele ha bisogno che gli venga detto che non è sbagliato lui, ma che lui non ha considerato il punto di vista altrui e gli altri il suo. Lo sbaglio sta nella scelta del punto di vista scelto.
Avete compreso perché ho chiamato questo signore Abele? Perché, guidato dal suo legittimo punto di vista, era rimasto tutto preso dal suo essere un buon e bravo figliolo, senza vedere e considerare anche il punto di vista, altrettanto legittimo, di Caino. In questa storia non esistono solo buoni e solo cattivi, come sempre nella vita, ma persone che hanno costruito la storia insieme senza accorgersene e senza comunicare tra loro.
A questo punto torniamo alla teoria di mente e del comportamento che vi sto proponendo e che usa uno sguardo complesso. Questo modo di vedere e agire non cerca nel passato la causa di un trauma, cerca nel presente cosa fa sì che tutto il passato si modifichi, si ricomponga in modo inatteso. Cambiando il passato, la storia in cui mi vedevo inserito e che dava un senso alla mia vita, cambia il mio significato personale: credevo di essere un direttore d’orchestra apprezzato e amato – sono l’assistente che gira i fogli dello spartito al pianista.
Questo è il nocciolo dell’approccio sistemico-connessionista. Noi siamo la nostra storia, ma non una storia individuale. La storia è costruita insieme e narrata a più voci, attraverso un filo, un processo continuo e simultaneo, da tutti i personaggi. Questa costruzione avviene attraverso la comunicazione. Se la comunicatone non è chiara ed esplicita la storia, il filo, si aggroviglia e il ragionamento e le emozioni non trovano un modo per essere condivise cioè capite. Diventano nodi dove non si vede più l’inizio e la fine del bandolo.
Questo modo (teoria) di intendere il funzionamento della mente (conversazionale) porta ad un’altra ipotesi di spiegazione non solo della depressione, ma di ogni altro quadro definito “psicopatologico”.
Sappiamo che per ogni quadro sintomatico troveremo posizioni particolari e specifiche dentro il sistema famigliare. Ed è la loro specificità a dare significato a quello specifico senso di sofferenza, a quei sintomi, agli attacchi di panico, alla claustrofobia, ai gravi disturbi alimentari, ecc…
Per questo non si considera malato, rotto disfunzionante il soggetto che porta il comportamento definito inappropriato, bensì malata, rotta, disfunzionante, paradossale la comunicazione che lega le persone in interazione.
Questo approccio è quello che per primo Gregory Bateson ha definito teoria ecologica della mente. L’ecologia non è primariamente la disciplina che si occupa di alberi, animali in via di estinzione e co2. È la disciplina che si occupa di come gestire la complessità e l’imprevedibilità degli esseri viventi.
“C’è chi pensa che l’affermazione <<tutti i viventi sono connessi tra loro>> sia l’idea centrale dell’ecologia. Ma per Ostfeld questa è solo una banale tautologia. Il vero obiettivo della scienza è capire quali creature sono più intimamente connesse di altre e in che modo, e quali risultati si ottengono se si cambia o si disturba l’equilibrio” (p. 269 David Quammen, Spillover 2012, Milano Adelphi, 2014)
Cioè ciò che guida il comportamento di un essere vivente non è tanto o soprattutto la sua struttura individuale ma le connessioni e gli scambi comunicativi tra lui e il contesto (oggetti e viventi) con il quale è in relazione. Se parliamo di esseri umani significa che l’identità, chi sono io per me, si costruisce giorno per giorno attraverso la comprensione del chi sono io per gli altri. Chi sono io Abele per me? Ma questo passa attraverso il chi sono io per i miei fratelli, mia madre, mia moglie, i miei figli.
Quindi per capire l’identità di una persona devo capire la sua “posizione” nella sua famiglia: sarò il figlio stupido se c’è qualcuno altro che occupa il posto dell’intelligente, il figlio buono e sacrificale perché ci sarà qualcuno egoista e assente. Il mio modo di essere maschio o femmina dipenderà dalla posizione che nella mia famiglia hanno i maschi e le femmine e se io vorrò essere simile, avere la stessa posizione, o essere diverso
Un altro aspetto fondamentale è che ogni comportamento è una comunicazione, che ne siamo consapevoli o no, perciò quando ci comportiamo, ricaviamo un’informazione anche sul chi siamo. Pensate a quando vi lamentate perché il partner non vi aiuta a stendere i panni, la sua risposta è spesso: come lo faccio io non ti va bene, se sono un incapace allora fallo tu.
Mentre noi ci comportiamo diamo un messaggio che definisce chi siamo noi per gli altri e chi sono gli altri per noi. La mente ecologica è questo intreccio inevitabile ed è un processo in continuo movimento. La personalità è questa continua conversazione tra noi e il mondo. Passato e presente sono sempre connessi, al punto che il presente può cambiare il passato. Ma può farlo in meglio o in peggio. È questo “viaggio nel tempo” che può darci benessere o malessere perché cambia la nostra stessa identità, il nostro significato personale: chi sono.
Lo psicoterapeuta sistemico connessionista (evoluzione dell’approccio sistemico anni ’70) non dà consigli, non insegna strategie migliori, non interpreta qualcosa che è incomprensibile perché sepolto nell’inconscio. Rende visibili cose che sono lì, spesso sotto il naso, ma non vengono percepite. Come quando cerchiamo le chiavi e le abbiamo in mano e ci vuole qualcuno che ci dica “ma non sono quelle le chiavi che cerchi?”. Non cerca nel profondo dell’inconscio, guarda allargando la percezione.
Il cambiamento avviene quando l’operatore ha costruito, insieme alle Persone che soffrono, la mappa più ampia per vedere dove si trovano, ma alle Persone resta la scelta e la responsabilità se cambiare la propria posizione e verso dove e con chi dirigersi.
“NON SI PUO’ ANDARE DA NESSUNA PARTE SE NON SI SA DOVE SI È”
Manfred Spitzer (Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, Corbaccio Garzanti, Milano (2012), 2013 )