Il gesto di Basaglia – di Luca Negrogno

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Laura Guerra

L’illustrazione è di Luna Ledi Prestint

Pubblichiamo la puntuale riflessione di Luca Negrogno, studioso e attivista nel campo della salute mentale, sull’eredità di Franco Basaglia a 40 anni dalla sua scomparsa.

(Per gentile concessione di Studi sulla questione criminale)

Il gesto di Basaglia

di Luca Negrogno

È necessario attualizzare l’opera teorica e pratica di Franco Basaglia per usarla nuovamente come strumento critico nei confronti dello sguardo oggettivante della psichiatria, della funzione ideologica che essa esercita (fornire una giustificazione tecnica all’esclusione) e dell’effetto che da essa promana sulla società, per cui è sempre più difficile l’appropriazione delle esperienze soggettive e collettive e la possibilità di una loro lettura situata all’interno dei rapporti politici e sociali. Per questo serve un nuovo uso “critico” della storia di Franco Basaglia, che sia utile a scavare nelle contraddizioni dell’attualità e, quando necessario, condannare il presente, per analizzare il rapporto attuale tra scienza e società e per interrogarci sulle nostre forme di impegno politico.

Un uso critico della storia di Franco Basaglia

Partiamo da una domanda: nelle condizioni attuali, non rischierebbe anche il discorso di Franco Basaglia di essere liquidato come un negazionismo complottista? Se l’interlocutore che vuole porre oggi il discorso della “messa tra parentesi della malattia mentale” avesse lo spazio di argomentare le sue posizioni e, soprattutto, lo spazio di agibilità per praticare una innovazione istituzionale alternativa che mostri il “praticamente vero” delle tesi sostenute, potrebbe, nel campo dei diritti conquistati dalle lotte degli anni ’70, sopravvivere senza snaturarsi all’attuale conformazione della governance, contrattare uno spazio con le amministrazioni, tirare avanti nel complesso circuito dei finanziamenti destinati al socio-sanitario e al terzo settore, guadagnarsi le necessarie alleanze accademiche, fare ricorso ad un difficile confronto con l’azione collettiva?

            Come scrive Davide Caselli nel suo recente “Gli Esperti. Come studiarli e perchè”[1], il miglior testo uscito negli ultimi anni sul problema dei competenti e della loro crisi di legittimazione,

il processo di critica e reinvenzione della scienza e delle professioni scientifiche operato da Basaglia e dalla sua équipe nel manicomio o da Oddone e dal suo collettivo nella fabbrica non avrebbero potuto svilupparsi senza una critica radicale del nesso tra l’istituzione specifica che volevano trasformare, le strategie dell’accumulazione capitalista dominanti e i processi di produzione e riproduzione dell’egemonia culturale. È attraverso il lavoro su questo nesso che le esperienze richiamate arrivano a connettere la scala micro delle regole che strutturano le loro interazioni con i pazienti e i cittadini secondo una specifica cultura e pratica professionale con la scala macro del funzionamento del sistema di produzione e del ruolo che questo assegna ai tecnici e agli esperti. L’expertise agisce e si riproduce su molte scale e su molti livelli contemporaneamente e lo sforzo che occorre per rendere visibile (e dunque discutibile e modificabile) questo lavoro è notevole”.

            Bisogna dunque tornare, come tecnici e come militanti, al gesto di Basaglia. Si tratta in primo luogo di cogliere “l’ubiquità dei processi di produzione e riproduzione istituzionale della realtà in cui gli esperti sono implicati”[2], a partire da noi che riflettiamo su questi temi e dobbiamo superare le forme di “falsa coscienza” e “malafede” che attraverso rassicuranti “ideologie di ricambio” [3], abbiamo usato per sopravvivere alla “sindrome istituzionale” della nostra esperienza universitaria (è Franco Basaglia a paragonare la carriera universitaria alla carriera morale del malato di mente nell’istituzione totale nel libro La nave che affonda [4]).

            Dovremo fare la stessa operazione anche rispetto al nostro impegno da tecnici o da politici, nelle pubbliche amministrazioni o negli enti di terzo settore, nelle esperienze di militanza e di mutualismo, dove la nostra attenzione deve essere posta sul dato, ben espresso da Foucault, che “l’individuo è il prodotto del potere”[5], che quel prodotto potremmo essere proprio noi se non mettiamo costantemente in questione le conquiste formalizzate nei “diritti” e non ci poniamo come partecipi di una dimensione di inchiesta volta a produrre una nuova capacità di creare saperi e discorsi politicamente legittimi, che vengono dalla subalternità e sappiano mostrare direttamente la relazione tra la tossicità delle condizioni di vita, i malesseri esistenziali e le loro forme (o non forme, o forme negate) di esprimersi.

La “monumentalizzazione” di Franco Basaglia

Non si vuole con questo testo disconoscere l’importanza di chi tramanda oggi la figura di Franco Basaglia, avendone proseguito l’opera e la riflessione e dando continuità alle pratiche nate dalla sua esperienza. Bisogna tuttavia riconoscere che il mutamento dei rapporti di forza nella società, nella scienza e nella politica hanno fatto in modo che quella storia si tramandasse solo a costo di perderne qualcosa, di diventare un “monumento” la cui dirompenza è relegata nel passato, difficile da utilizzare nelle nostre lotte, nelle nostre interrogazioni e nella nostra sofferenza. Vediamo in Italia operare quella che Mario Colucci e Pierangelo Di Vittorio definiscono “monumentalizzazione”[6], l’utilizzo della storia che secondo Nietzsche fa chi “ha bisogno di esempi, maestri, consolatori e non riesce a trovarli fra i suoi compagni e nel presente”; ma a quest’uso della storia si accompagna l’insidia di una “impropria comparazione”, che sia “fatta entrare a forza l’individualità del passato in una forma generale” in cui ne risultano “attenuati tutti gli angoli acuti e spezzate le linee rette per il bene dell’accordo”[7].

Chi ha dovuto tenere vive fino ad oggi le conquiste realizzate nel periodo di lotte e sperimentazioni cha va dal 1961 al 1980 ha successivamente agito in un contesto di arretramento in cui la radicalità di quella storia rischiava costantemente di essere recuperata e diventare materiale inerte, schiacciato tra una vittoria legislativa difficile da applicare e l’isolamento quasi “esotico” dei territori e delle elaborazioni esemplari. In questo contesto si è affermata una ricezione e trasmissione dell’opera e della teoria di Franco Basaglia esemplificata dalla tendenza ad identificare con il suo nome la legge 180\1978: una tradizione che ha legato la sua figura alla prestazione politico/amministrativa del superamento dello scandalo del manicomio e della realizzazione di buone pratiche psichiatriche alternative a esso. Nel frattempo quello che accadeva nel rapporto tra politica, scienza e società rendeva sempre più angusti gli spazi per esercitare pienamente l’originaria critica basagliana: la crisi delle grandi narrazioni politiche emancipatorie si risolveva definitivamente nell’orizzonte debole di un “capitalismo compassionevole” (di fronte a questo Maria Grazia Giannichedda riconosceva l’inadeguatezza dei governi di centro sinistra nel difendere e mettere a sistema le sperimentazioni anti-istituzionali[8]); i territori, già innervati dal tecnicismo amministrativo fin dagli anni ’70 (si veda a questo proposito l’esemplare difficoltà di Franco Basaglia a realizzare le sue sperimentazioni in Emilia: a Bologna, dove viene giudicato non idoneo alla direzione dell’Ospedale Psichiatrico, come ha recentemente raccontato Angelo Fioritti nel Ricordo personale di un grande che non ho mai conosciuto[9], e a Parma, dove, pur chiamato a dirigere l’Ospedale Psichiatrico di Colorno, si scontra con l’immobilismo dell’amministrazione[10]diventavano definitivamente luoghi oggetto di valorizzazione competitiva; le scienze e le tecniche chiamate a dare la loro risposta ai bisogni sociali diventavano le tecnocrazie di una finanza globalizzata e, nel campo sociale, di una gestione “inclusiva” dei suoi scarti e delle sue frizioni attraverso il “new public management” e la sua “expertise”.

Per noi è oggi fondamentale invece evitare che la lotta anti-istituzionale venga sbrigativamente identificata con un momento di evoluzione progressista nella raffinatezza della sensibilità borghese, esaurito il quale, e solo grazie ad esso, vengono per decreto superati i lager del mal-trattamento psichiatrico, mentre la gestione della malattia mentale viene finalmente posta sotto l’alveo di una nuova capacità tecnico-amministrativa, compatibile con la cultura democratica. Il rischio è quello di una visione semplicistica che indica in Basaglia solo un umanista o un “filantropo” (l’espressione è di Benedetto Saraceno[11]) interessato al mero superamento dei manicomi, nascondendo tutta la sua riflessione sul mandato sociale della psichiatria e il suo legame con la produzione e riproduzione capitalistica, sul ruolo degli intellettuali nella società e sulle sfide che sempre si pongono nel rapporto tra politica ed esistenza collettiva e individuale.

La ricezione internazionale e il confronto con l’antipsichiatria

Interessante notare come questa immagine, che in Italia era utile a tenere salda la linea della riforma psichiatrica, corrisponda a un sostanziale rifiuto del valore scientifico dell’opera di Basaglia nei paesi anglosassoni e in generale nelle società più “stabili” dal punto di vista politico e istituzionale, dove a Basaglia si attribuisce un valore soprattutto “ideologico”, nel senso di “condizionato da un’eccessiva politicizzazione”, e come dice Benedetto Saraceno “genericamente associato all’antipsichiatria inglese” (Sul tema della ricezione è importante il confronto con il saggio di Joon Foot e Tom Burns recentemente uscito per la Oxford University Press, Basaglia’s International Legacy[12]).

            Certamente esiste una differenza tra la “produzione alta di dissenso culturale, una sorta di avventura individuale e disperata e tutto sommato deconnessa da una più collettiva prassi di liberazione” che Benedetto Saraceno vede nella “impresa di Laing e Cooper, pur nella sua radicalità” e la “prassi di trasformazione collettiva con decisive implicazioni sulle scelte di sanità pubblica” della psichiatria anti-istituzionale. Ma decisivo ora è chiarire, con le parole di Silvia D’Autilia (in Dopo la 180. Critica della ragione psichiatrica[13]), che questa etichetta di “antipsichiatria” è stata:

rilasciata frettolosamente da chi guardava con sospetto ai tentativi di distanziamento dall’ortodossia psichiatrica. In questi termini, c’è stata, c’è e continuerà ad esserci antipsichiatria ogni volta che la cura è stata, è e sarà scambiata per esercizio puro della sopraffazione e dell’emarginazione sociale: per questo tipo di amministratori del potere aleggierà sempre l’ossessione – è proprio il caso di dirlo – di vedere ovunque falsi profeti predicare una scienza antitetica alla loro.

Anche perchè, come spiega bene Michel Foucault nei passaggi dedicati a Franco Basaglia e alle altre esperienze di rinnovamento psichiatrico dei suoi Corsi al Collège de France, si potrà “chiamare antipsichiatria ogni movimento grazie al quale la questione della verità sarà rimessa in gioco all’interno del rapporto tra il folle e lo psichiatra”[14].

            In un ambiente culturalmente e politicamente ostile come quello anglosassone rivediamo agitare l’artefatto culturale della “antipsichiatria” nella lettura della vicenda storica di Franco Basaglia mentre, per gli stessi motivi, in Italia abbiamo quella “attenuazione” che oggi porta ad una essenzializzazione del concetto di anti-psichiatria, dimenticando che questo “bambino che non esiste” (l’espressione è di Franco Basaglia, intervistato sui 10 anni di esperienze “antipsichiatriche”[15]) è spesso un significante vuoto attribuito dai poteri dominanti ad ogni tentativo critico di mettere in discussione il funzionamento delle istituzioni.

            Ponendoci su un piano diverso da quello su cui insiste la distinzione netta tra “basagliano” e “antipsichiatrico”, che il movimento ha dovuto tracciare per assestarsi sulla linea dell’applicazione della riforma, consapevoli delle differenze tra una visione astratta della psichiatria come un’agente meccanicamente repressivo contro la “quintessenza della libertà e della soggettività” (parole critiche di Robert Castel a proposito delle tesi “romantiche” sulla liberazione della follia[16]) e un’indagine genealogica e pratica del suo rapporto con la società, recuperiamo quindi ciò che in questo processo di monumentalizzazione scompare e viene reso inerte: il senso scientifico e politico del gesto di Franco Basaglia. In primo luogo esso è un gesto di rifiuto pratico e teorico del ruolo dell’intellettuale, dello scienziato, del militante politico d’avanguardia che persegue l’emancipazione dei subalterni dettando loro la “linea” e la verità sul mondo, per come questi ruoli sociali erano e sono predisposti nel contemporaneo.

La “disindividualizzazione” e il rapporto con le lotte di base

            Partendo da una critica alla psichiatria positivista e attraversando la fenomenologia, Franco Basaglia riconnette l’epochè alla lotta per la trasformazione, verificando praticamente il legame tra l’esclusione sociale e la disciplina psichiatrica che emergeva dagli studi genealogici di Michel Foucault e da quelli microsociologici di Erving Goffman e della Scuola di Chicago[17]. Questo permette una critica più generale dell’incontro tra il tecnico e il bisogno sociale su cui opera e di riflesso una critica del rapporto tra l’intellettuale, anche politicamente impegnato, e la società; critica che negli stessi anni formulava Frantz Fanon a proposito dell’intellettuale socialmente inserito che in un contesto coloniale non può che scegliere tra la rivoluzione e il lavoro di oppressione tecnica dei subalterni[18]. A testimoniare la continuità di questi momenti, senza alcuna artificiosa separazione tra fasi dell’opera di Basaglia e del suo pensiero, sta il problema filosofico di fondo dell’incontro dell’uomo con se stesso, declinato nell’analisi successiva delle scappatoie che costantemente, come “tecnico” o come “politico”, egli (e il movimento stesso) può trovare nella “malafede”[19], nelle “ideologie di ricambio”[20] rassicuranti sulla linearità del progresso, nella posizione di comodo del produrre analisi teoriche generali senza possibilità di verifica pratica.

            Questa critica si inserisce nell’insieme di tensioni sociali, politiche e culturali che caratterizzano l’Occidente tra gli anni ’60 e ’80, quando emergono nuovi movimenti di base che solo marginalmente vengono assunti e sintetizzati nei macroprocessi sociali di cambiamento (in parte interpretati e in parte rifiutati dai vecchi partiti politici di massa, finendo questi ultimi per esserne poi travolti). L’emergere dei movimenti di base corrisponde a una radicale messa in discussione delle divisioni tra saperi e discipline e contribuisce alla trasformazione in senso antiautoriatario delle istituzioni classiche e delle scienze, così come delle forme politiche tradizionali. Ne è un esempio la medicina critica italiana che nasce negli anni ’70 sulla base di un gesto politico di “disindividualizzazione” (un’espressione usata da Michel Foucault in altro contesto, che però riteniamo utilissima per descrivere questo movimento[21]): il tecnico del sapere medico fa emergere i “saperi assoggettati” mettendosi a disposizione di un contesto in cui sono i “gruppi omogenei” e le comunità autonome a descrivere i fattori di nocività del lavoro di fabbrica o della “malaria urbana” (l’espressione è di Giovanni Berlinguer e costituisce uno dei titoli più rappresentativi della collana “Medicina e potere” della Feltrinelli, diretta da Giulio Maccacaro e importante per una tematizzazione sistematica del rapporto tra politica e medicina. Di Giulio Maccacaro si veda l’importantissima raccolta di saggi “Per una medicina da rinnovare”[22]).

            In questi casi, come ha sottolineato Davide Caselli parlando della vicenda della “psicologia di fabbrica” inaugurata da Ivar Oddone, “la critica alla dimensione disabilitante del potere professionale si intreccia a una critica complessiva del capitalismo”[23] producendo una nuova forma di definizione delle oggettività scientifiche: una scienza consapevole dei poteri cui decide di legarsi. Si tratta di una irruzione di nuovi corpi e nuovi saperi che piegano le oggettività scientifiche all’analisi dello sfruttamento, all’interno di processi complessivi di emancipazione e di presa di parola, come raccontano i movimenti femministi e le pratiche innovative di quegli anni sulla salute della donna intesa come rifiuto dell’incorporazione della subalternità.

            Questo nuovo equilibrio politico tra saperi “minori”, militanti e scienze viene però superato da una nuova fase restaurativa in cui i politici si richiudono nell’esaustività del loro ruolo, allucinatoriamente rappresentato come quello di una gestione separata su una complessità indomabile, e la società viene pervasa da nuovi dispositivi di controllo, spesso ricalcati sull’involucro di quelle critiche anti-gerarchiche. In assenza di questa tensione politica i saperi innovativi nati dalla distruzione delle strutture autoritarie si sistematizzano come branche amministrative, individulizzanti, dell’igiene pubblica e del controllo biopolitico e statistico della popolazione.

            Di Vittorio esemplifica queste tensioni culturali con il passaggio da una ricezione italiana “minore” di Michel Foucault, intrecciata con le lotte e le pratiche della psichiatria anti-istituzionale, a una dispersione di questi temi nel dibattito astratto degli ultimi quarant’anni, in cui il problema dell’intellettuale specifico è stato soppiantato da una volontà di ritorno all’intellettuale universale, magari un guru televisivo con rinnovate funzioni sacerdotali[24]. (Si pensi solo ai format di divulgazione della psicanalisi, autonominatisi fonti di moralizzazione paternalistica dell’agone sociale e politico – la distopia realizzata del Freud in svendita per le masse proletarie preconizzata da Nanni Moretti – ai tanti filosofi che hanno speculato sulla nozione foucaultiana di biopolitica o al ruolo dei virologi nell’informazione pubblica durante la pandemia di Covid: competizione affettiva sul mercato della comunicazione di massa con esiti nefasti di infantilizzazione della popolazione, di frivolezza epistemologica e di nascondimento delle dinamiche sociali e politiche sottostanti alla diffusione del contagio e alla sua variabile dannosità in termini di salute pubblica).

Innescare le micce

            È necessario oggi riaprire gli archivi basagliani con l’obiettivo di innescare nuove lotte e nuove visioni su noi stessi. È necessario in un contesto in cui le forme governamentali e gli esperti che le riproducono sono largamente tecnicizzati e il discorso pubblico nega l’opportunità di un dibattito scientifico critico attraverso la nozione, insieme descrittiva e performativa, dell’“anti-scienza”, in cui si verifica quello che Mattia Galeotti definisce “un meccanismo di complementarietà artificiale, tra scienza e anti-scienza, che viene agitato in maniera da normalizzare le spinte contro-scientifiche, cioè i saperi conflittuali”[25].

Riprendiamo allora gli elementi conflittuali che nella gestione amministrativa della 180 non si risolvevano, neanche agli occhi di Basaglia. In primo luogo la sua consapevolezza che il modello di gestione dei sistemi assistenziali determina la condizione problematica a propria immagine: “in epoche successive la malattia e i suoi sintomi sono sempre stati influenzati e condizionati dai nuovi orientamenti terapeutici […], noi produciamo una sintomatologia – il modo di esprimersi della malattia – a seconda del modo col quale pensiamo di gestirla, perché la malattia si costruisce e si esprime sempre a immagine delle misure che si adottano per affrontarla”[26].

            Dobbiamo allora indirizzare la critica a “ciò che resta del manicomio”, come ha scritto recentemente Antonio Esposito, facendo riferimento a un ricorso diffuso ai dispositivi amministrativi di internamento che pervade la società nel suo insieme in un contesto caratterizzato dal “ritrarsi della politica con il sopravanzare di logiche economicistiche e di poteri decisionali non democratici”[27], come per esempio si vede nelle forme di trattamento di anziani, disabili, migranti e altri marginali nelle istituzioni residenziali, dove l’utenza è valorizzata soprattutto secondo economie di scala ancora rivolte alla concentrazione e all’intrattenimento. Consapevoli nel frattempo che sulla base di una radicale “fragilità epistemologica” (l’espressione è di Roberto Beneduce[28]) la psichiatria diventa anche campo a maglie larghe di medicalizzazione di ogni contraddizione sociale: con il presupposto indimostrato della teoria dello scompenso neurochimico, attraverso un riduzionismo biologico funzionale alla biopolitica liberale, si oggettivizza scientificamente ogni sorta di comportamento deviante e problematico mentre la società ha visto il diffondersi di una psicomedicalizzazione “cosmetica” funzionale all’adeguamento individuale alle norme della produttività e dell’adattamento flessibile.

            Nei vecchi archivi dell’epidemiologia critica da tornare ad innescare, invece, si coglieva l’obiettivo teorico e pratico dell’incontro tra bisogno e oggettivazione psichiatrica (come scrive Giulio A. Maccacaro in Appunti per una ricerca sull’epidemiologia dell’istituzione psichiatrica come malattia sociale, in Fogli di informazione, 1976). Riattiviamo l’indagine a partire dalle ricerche di Richard Warner (in Schizofrenia e guarigione. Psichiatria ed economia politica[29]), che da psichiatra e antropologo formatosi alla scuola marxista di Marvin Harris produce per l’OMS la prima meta-analisi mondiale dei dati su internamento manicomiale, dimissioni, diagnosi di schizofrenia e relative guarigioni dal 1880 al 1980, giungendo a dimostrare la correlazione inversa tra internamento manicomiale e richiesta di manodopera industriale, secondo la tesi marxista “forte” dell’esercito industriale di riserva, sulla base della quale poi analizza l’evolversi delle culture psichiatriche come fenomeno sovrastrutturale; questa tesi sarebbe oggi da rinnovare e adattare alle dinamiche della produzione postfordista.

            Nel campo della ricerca sulle connessioni tra nocività delle politiche urbanistiche e condizioni di salute mentale è intervenuta recentemente Agnese Baini sul sito del Forum Salute Mentale, denunciando come nelle retoriche del degrado urbano e del decoro si realizzi una nuova esclusione della povertà simile a quella che si sintetizzava nella funzione del manicomio[30]. Giuseppe Allegri e Renato Foschi hanno mostrato, in un articolo sul Reddito di Base Incondizionato Universale, l’effetto positivo che le sperimentazioni in questo senso hanno avuto sul mercato del lavoro, sul capitale sociale e sulla salute mentale delle popolazioni coinvolte in vari paesi europei[31]. Un numero consistente di gruppi statunitensi di operatori e utenti dei servizi comunitari di salute mentale hanno aderito durante l’estate alle campagne favorevoli al definanziamento o all’abolizione dei corpi locali di polizia, denunciando il loro ruolo strutturale nella violenza sistemica ai danni delle minoranze e i disastri sociali causati da un’impostazione delle politiche di sicurezza che ne privilegia il lato poliziesco e repressivo a detrimento degli aspetti redistributivi. Sono questi tre esempi di sconfinamenti, di “uscita dallo specifico tecnico” per avventurarsi nel campo delle politiche urbane, delle politiche di welfare e della gestione dell’ordine pubblico. In questo modo si riprende esplicitamente il gesto di Franco Basaglia.

            Si tratta di un gesto che richiede il coraggio di uscire dal proprio ruolo rassicurante e confrontarsi con la voce delle esperienze escluse e subalterne, permettendo ad esse di assumere legittimità nel discorso e nell’azione, anche contro le oggettività scientifiche e anche quando la vicinanza con loro ci fa sentire troppo “odore di merda” (sono le parole di Franco Basaglia, quando descrive l’esperienza provata prima in carcere, da antifascista, poi in manicomio, al suo primo giorno da direttore[32]).


[1]    Caselli, Davide; “Gli Esperti. Come studiarli e perchè”, Il Mulino, 2020

[2]    Caselli, Davide; 2020

[3]    Falsa coscienza”, “malafede” e “ideologie di ricambio” sono temi ricorrenti in tutta l’opera di Franco Basaglia. Cfr Basaglia, Franco; “Scritti”, 1 e 2, Einaudi, 1981

[4]      Basaglia, Franco; Ongaro Basaglia, Franca; Pirella, Agostino; Taverna, Salvatore; “La nave che affonda”, Raffello Cortina, 2008

[5]    In “ Introduzione alla vita non fascista”, Prefazione all’edizione americana de “L’Anti-Edipo” di Gilles Deleuze e Félix Guattari, 1977

[6]    Colucci, Mario; DI Vittorio, Pierangelo; “Franco Basaglia”,  Alpha Beta, 2020

[7]    Nietzsche, Friederich Whilelm; “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, traduzione a cura di Monica Rimoldi, tratto da “Contenuti digitali”, in De Bartolomeo, Marcello; Magni, Vincenzo; a cura di; “Storia della filosofia”, Atlas, 2011

[8]    Giannichedda, Maria Grazia; Atti del Convegno “Strada facendo – Droga: la ricerca e la proposta. Torino, 20 – 21 – 22 settembre 2002” (Documentazione tratta da “Narcomafie”). Report tratto da ristretti.it/convegni/torino/index.htm consultato il 09/12/2020

[9]    Fioritti, Angelo; “Ricordo personale di un grande che non ho mai conosciuto”, su “Una certa idea di…Il blog dell’Istituzione Gian Franco Minguzzi” https://unacertaideadi.altervista.org/2020/08/franco-basaglia-ricordo-personale-di-un-grande-che-non-ho-mai-incontrato/ consultato il 09/12/2020

[10]    Cfr Gallio, Giovanna; a cura di; “Basaglia a Colorno”, “Aut Aut” n. 342/2009, Il Saggiatore

[11]    Questa e le successive citazioni virgolettate sono tratte da Saraceno, Benedetto; “Prefazione” in D’Autilia, Silvia; “Dopo la 180. Critica della ragione psichiatrica”, Mimesis, 2020

[12]  Burns, Tom; Foot, John; a cura di; “Basaglia’s International Legacy: From Asylum to Community”, Oxford University Press, 2020

[13]  D’Autilia, Silvia; “Dopo la 180. Critica della ragione psichiatrica”, Mimesis, 2020

[14]  Foucault, Michel; “Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973 – 1974)”, Feltrinelli, 2004

[15]  “Basaglia e l’antipsichiatria” https://www.youtube.com/watch?v=xFYX144BrV8 consultato il 09/12/2020

[16]  Castel, Robert; “Michel Foucault e le critiche della psichiatria: una lettura soggettiva”, in “Rivista sperimentale di Freniatria”, VOL. CXXIX, N. 3, SUPPLEMENTO, 2005

[17]  Basaglia, Franco; Ongaro Basaglia, Franca; “Introduzione ad Asylums”, Basaglia, Franco; Scritti, 2, Einaudi, 1981

[18]  Basaglia, Franco; “Il problema della gestione”, Scritti, 1, Einaudi, 1981

[19]  Basaglia, Franco; “Ansia e malafede (La condizione umana del nevrotico)”, Scritti, 1, Einaudi, 1981

[20]  Cfr. Basaglia, Franco; Ongaro Basaglia, Franca; “La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale”, Einaudi, 1971

[21]  In “ Introduzione alla vita non fascista”, Prefazione all’edizione americana de “L’Anti-Edipo” di Gilles Deleuze e Félix Guattari, 1977

[22]  Maccacaro, Giulio Antonio; “Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976”, Feltrinelli, 1981

[23]  Caselli, 2020, vedi nota 1

[24]  Cfr. Di Vittorio, Pierangelo; “Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base”, Ombrecorte, . 1999

[25]  Galeotti, Mattia; “Ripoliticizzare le scienze”, su “Jacobin Italia”, https://jacobinitalia.it/ripoliticizzare-le-scienze/ consultato il 09/12/2020

[26]  Basaglia, Franco; “Ideologia e pratica in tema di salute mentale”, in “Scritti”, 2, Einaudi, 1981

[27]  Giannichedda, Maria Grazia; Esposito, Antonio; “L’internamento prêt-à-porter e altri dispositivi del post manicomio. Dialogo tra Maria Grazia Giannichedda e Antonio Esposito”, in Cennini, Elena; Esposito, Antonio; a cura di; “COSA RESTA DEL MANICOMIO? Riflessioni sul fascino indiscreto dell’internamento”, in “Cartografie Sociali. Rivista di Sociologia e Scienze Umane”, n. 9, 2020, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa

[28]  Beneduce, Roberto; “Illusioni e violenza della diagnosi psichiatrica”, in Colucci, Mario; a cura di; “La diagnosi in psichiatria”, Aut Aut, 357/2013, Il Saggiatore

[29]  Warner, Richard; “Schizofrenia e guarigione. Psichiatria ed economia politica”, Feltrinelli, 1991

[30]  Baini, Agnese; “Lo spazio pubblico non è più pubblico”, su “Forum Salute Mentale”, http://www.news-forumsalutementale.it/lo-spazio-pubblico-non-e-piu-pubblico/ consultato il 09/12/2020

[31]  Allegri, Giuseppe; Foschi, Renato; “Universal Basic Income as a Promoter of Real Freedom in a Digital Future, World Futures”, DOI: 10.1080/02604027.2020.1792600, https://doi.org/10.1080/02604027.2020.1792600 consultato il 09/12/2020

[32]  Basaglia, Franco; “Conferenze Brasiliane”, Raffaello Cortina, 2018

Per citare questo post: Negrogno, L. (2020) Il gesto di Basaglia. in Studi sulla questione criminale online, al link:https://studiquestionecriminale.wordpress.com/2020/12/10/il-gesto-di-basaglia/

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Laura Guerra è laureata in Scienze Biologiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Farmacologia all'Università di Ferrara. Si interessa dei trattamenti psicofarmacologici nel contesto psicosociale del disagio emotivo. Pone particolare attenzione ai problemi dell'eta giovanile e infantile. Ha tradotto il libro di Peter Breggin "La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie". Recentemente ha tradotto il libro di Joanna Moncrieff "Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici".

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