Storia di Ajsha

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Marcello Maviglia

 

Quella che segue è la testimonianza di Ajsha, una giovane che racconta di come sia stata  allontanata dalla famiglia e sottoposta a trattamenti psicofarmacologici.
Ajsha non ha ricevuto le informazioni necessarie da parte degli operatori sanitari riguardo il trattamento che le veniva proposto.
Nessuna informazione riguardante l’uso degli psicofarmaci e i rischi legati alla loro sospensione è stata condivisa con lei.
La storia ci dimostra che gli operatori sanitari dovrebbero essere più meticolosi nello spiegare gli interventi proposti agli individui e a proporre ed elucidare possibili alternative non farmacologiche.

 

Storia di Ajsha

Ciao a tutti,

Mi chiamo Ajsha ed ho 21 anni, sono italiana e all’età di dodici anni ho iniziato ad accusare dei malesseri a livello psicologico.

Ero spesso triste, rimuginavo sulla morte, mi ferivo e spesso vomitavo dopo ogni pasto.

Mia madre, da genitore diligente, mi ha prontamente portata in neuropsichiatria infantile e lì mi presero in cura ambulatoriamente con una psicologa.

La psicologa non era molto professionale, difatti discuteva molte volte con mia madre sul fatto che io invece di migliorare peggioravo di volta in volta e cominciai a tentare il suicidio.

Con il passare del tempo la neuropsichiatria infantile cominciò a dire che il problema era la mia famiglia e per qualche mese vennero i controlli  degli assistenti sociali per minori a casa e infine mi portarono in una casa famiglia.

Io lì mi trovavo molto male, venivo bullizzata dagli altri ragazzi che avevano problemi più gravi dei miei.

Così, fino ai miei diciotto anni venivo spostata da una clinica/comunità all’altra mentre cercavano invano di darmi una patologia.

A diciotto anni, finalmente, fui trasferita al Centro di Salute Mentale di Pescara (la mia città) dove conobbi la mia psichiatra di riferimento che mi fece fare tanti test e finalmente giunsero dopo anni alla mia patologia.

Disturbo di Personalità Bordeline.

Nessuno mi diede una spiegazione, una motivazione.

Mi etichettarono come malata e mi portarono di nuovo in altre comunità poco efficaci.

Mia madre, stanca di vedermi soffrire, prese in mano la situazione e riuscì a portarmi in un’ottima comunità: la Raymond Gledhill di Marino Laziale, vicino Roma.

Purtroppo, e qui devo essere sincera, interruppi due volte il percorso per via di tutte le volte in cui per errore mi chiusero in strutture errate. Ero stanca di essere chiusa e di non poter vivere con la mia famiglia.

Ero migliorata dopo i due percorsi nell’ultima comunità citata ma purtroppo nessuno mi aveva preparata a gestire le mie emozioni negative e i momenti no e nessuno mi aveva preparata all’importanza che hanno i farmaci nei disturbi mentali, così li tolsi tutti e subito.

A maggio 2019 mi chiusi in casa in preda a psicosi fortissime.

Andai al pronto soccorso dopo essermi presa un’intera scatola di Delorazepam prescritta da una psichiatra al pronto soccorso qualche giorno prima. In seguito al mio gesto mi ricoverarono per una settimana con la certezza che ero guarita.

Ma io non stavo bene, vedevo cose e sentivo cose che altri non vedevano e neanche sentivano!

Così a metà giugno 2019 aggredii i miei nonni e fui ricoverata d’urgenza in ospedale e ci restai per un mese.

La cosa buffa è che non trovavano mai la cura adeguata e quindi spesso deliravo, a volte ero iperattiva, a volte dormivo sempre. In un mese il mio organismo, per colpa dell’incompetenza dei medici, saltava dall’euforico allo stabile e infine al depresso.

Poi trovarono  dopo un mese questa comunità, situata in una casa di cura privata. Ora sono qui e non facciamo nulla di riabilitativo, la tecnica è poco presente anche se viene sempre, uguale l’assistente sociale.

Siamo abbandonati a noi stessi.

La cosa che mi fa rabbia è che nessuno mi ha mai spiegato la mia patologia, mi sono dovuta leggere libri e manuali sulla mia patologia. E ancora di più che ci sono voluti anni per diagnosticarla.

Quanta incompetenza c’è nell’ambito sanitario nella mia adorata ma odiata Italia?

E quanto stigma ci sottopone la società sui disturbi mentali!?

Alla fine io mi sento sana nonostante l’etichetta che mi hanno imposto da malata.

Io sto bene, perché alla fine è ok non stare ok.

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Marcello Maviglia, psichiatra e specialista in tossicodipendenza, si interessa di problemi di salute mentale nel contesto dei determinanti della salute in generale e dei principi che facilitano il Recovery degli individui.

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