Pillole di riflessione – Dalle cattive alle buone pratiche nei percorsi di cura in salute mentale
Ho fatto diverse riflessioni come familiare e come diretta interessata: cosa si intende per cattive pratiche e buone pratiche in psichiatria?
Dal mio punto di vista tutto ciò che corrisponde alle aspettative del diretto interessato in primis e dei familiari poi rappresenta le buone pratiche.
Cosa intendo per aspettative della persona?
SAPER INSTAURARE UN RAPPORTO DI FIDUCIA: è buona pratica
ASCOLTO: è buona pratica saper ascoltare con empatia e attenzione cosa vuol comunicare una persona che manifesta un disagio psichico o un comportamento insolito e anche saper osservare con occhio esperto e leggere dietro le righe.
LAVORARE CON E NON PER LA PERSONA: è buona pratica, aiutarla ad autodeterminarsi e a diventare più autonoma possibile.
TEMPO: il tempo è un elemento preziosissimo, infatti c’è sempre poco tempo per ascoltare, condividere, parlare, chiedere e ricevere informazioni. I colloqui di psico-educazione sono incontri brevi, spesso diradati a intervalli non sufficienti per poter fare un quadro ampio della situazione e per cercare valide soluzioni personalizzate, spesso sono basati sulla letteratura e i protocolli.
FARMACI: utilizzando il tempo e l’ascolto attivo ed empatico, (e qui ritorna la questione del tempo come protagonista) si può evitare di far uso di metodi sbrigativi e coercitivi per gestire in fretta situazioni complicate.
Il farmaco usato con attenzione e sapienza è buona pratica, usato e abusato è una cattivissima pratica.
PRESCRIVERE E NON SAPER DE-PRESCRIVERE: cioè non sapere come scalare gli psicofarmaci in sicurezza è da incoscienti e sprovveduti, secondo me.
INFORMARE LA PERSONA SUGLI EFFETTI DESIDERATI E INDESIDERATI DEI FARMACI, CONCORDARE INSIEME A LEI LA TERAPIA: è buona pratica.
Il piccolo chimico è un gioco, non deve essere una cattiva pratica in psichiatria.
IMPORRE COSE CHE NON SONO GRADITE E MINACCIARE DI TSO È VIOLENZA VERBALE CHE FA LEVA SULLA PAURA: cattivissima pratica.
Troppi farmaci vengono usati per sedare emozioni e sentimenti, che se potessero essere espressi e condivisi con persone che li sappiano capire, gestire e incanalare potrebbero evitare, a volte, comportamenti e gesti estremi.
CONSENSO INFORMATO: è una buona pratica. Il prescrittore deve esporre i potenziali effetti collaterali degli psicofarmaci prima di prescriverne l’uso.
In modo particolare degli effetti sulla sfera sessuale che viene compromessa notevolmente, soprattutto per i giovani ma non solo, e che diventa un problema sul problema.
Talvolta, l’uso di alcuni psicofarmaci (antidepressivi SSRI, ndr) può avere gravi conseguenze e indurre la cosiddetta PSSD o disfunzione sessuale post-SSRI, di durata indefinita. Questa sindrome, ancora poco studiata, viene sottovalutata dagli psichiatri, i quali spesso affermano che i sintomi sarebbero conseguenze dovute alla depressione. Noooooo, non è così e di questo si deve parlare!!
PEER SUPPORTERS o PEER SPECIALISTS: un grande supporto potrebbe essere coinvolgere con il loro intervento i peer supporters o specialists (supporto alla pari) o ESP (esperto per esperienza).
RIABILITAZIONE PSICHIATRICA: è buona pratica. Non associare una riabilitazione psichiatrica a una corretta gestione dei farmaci è come andare al ristorante e farsi servire il pranzo senza il bere. Il pranzo risulta incompleto e non soddisfacente. Il pranzo, preferibilmente servito con amorevolezza e il sorriso, fa sicuramente la differenza, ma deve essere anche gustoso e soddisfare i nostri fabbisogni nutritivi.
PIANO TERAPEUTICO PERSONALIZZATO: è buona pratica. Fare una ricerca approfondita della situazione reale dei vari aspetti che riguardano la persona; fare una diagnosi differenziale è importante per capire se il disagio viene da una condizione fisica, chimica o biologica.
ANALIZZARE IL CONTESTO IN CUI LA DEPRESSIONE O IL DISAGIO SI MANIFESTA: è buona pratica.
Ma quante volte viene fatto? Forse dopo l’assunzione dei farmaci che a volte creano complicazioni, che innescano situazioni complesse da gestire che difficilmente sono riconducibili alla causa iniziale.
IL CONTESTO FAMILIARE NON DEVE ESSERE SCOLLEGATO DALLA PERSONA DIRETTA INTERESSATA: l’aspetto sistemico relazionale va preso in considerazione, sempre, se si vuole parlare di buone pratiche.
TSO e CONTENZIONE: fare tutto il possibile per evitare un TSO (trattamento sanitario obbligatorio, ndr) è buona pratica.
Minacciare una persona di TSO se non si vuole sottoporre al trattamento depot (LAI o long lasting injection), cosa che succede molto spesso, seminando paura e usando modalità paternalistiche, è cattivissima pratica.
CONDIVISIONE DI ESPERIENZE: è buona pratica. Mi riferisco ad es. all’incontro di Parole Ritrovate del 11 giugno 2022 a Corte Franca (BS), da cui nasce questo articolo e nel quale ho esposto queste mie riflessioni.
IL FARE ASSIEME: è buona pratica. Condividere la propria esperienza e testimonianza, unire le forze tra operatori, persone con disagio mentale e i loro familiari e anche i cittadini che vogliono comprendere e portar il loro contributo.
OCCUPARSI DEI GIOVANI NELLA PREVENZIONE DEL DISAGIO PSICHICO: è una buona pratica informare e formare le famiglie sui vari disagi a cui potrebbero andare incontro i ragazzi nell’età evolutiva, in modo da evitare complicazioni potenzialmente pericolose ed a volte irrimediabili.
Il più delle volte parte tutto da lì!!!!
GRAZIE!
SUSANNA BRUNELLI