di Miriam Gandolfi, Psicologa Psicoterapeuta
(Per gentile concessione di Medicina&Società . ed. Giovanni Fioriti https://medicinaesocieta.it/dsa-in-aumento-una-proposta-efficace-per-un-intervento-alternativo/)
Come tutti i quadri psicopatologici, anche la definizione di DSA ha una sua storia che ne ha specificato le caratteristiche, le ipotesi interpretative del disturbo e i metodi di intervento. Dobbiamo attendere e insieme risalire al 1986 per trovare il primo congresso internazionale ad alto livello sul tema: Current Concepts in the Diagnosis and Treatment of Developmental Dyslexia and Learning Disorder, Venice, 25 and 26 April 1986. Da allora gli studi si sono moltiplicati in tutti i Paesi che devono affrontare i problemi di scolarizzazione e alfabetizzazione secondo il modello scolastico occidentale standard.
L’incremento del rilevamento di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) è tale da aver spinto anche il Governo Italiano a promulgare la legge 170/2010, che contiene le linee guida sia per i criteri diagnostici sia per gli interventi riabilitativi. Il testo è il frutto del lavoro della prima “CONSENSUS CONFERENCE” (2006/07), che con lo stesso nome designa il metodo proposto da un gruppo di associazioni e tecnici tra cui l’Associazione Italiana Dislessia e l’Associazione Italiana Ricerca Intervento nella Psicopatologia dell’Apprendimento.
Cosa sono i DSA, Disturbi Specifici dell’Apprendimento
I DSA si distinguono in disgrafia, dislessia, disortografia e discalculia, a seconda della prevalenza e della tipologia delle difficoltà presentate, mentre non sono presenti deficit cognitivi. Perciò i bambini che ne soffrono sono totalmente consapevoli delle loro difficoltà e sono continuamente esposti ad esperienze di insuccesso e a vissuti di autosvalutazione, sia come figlio deludente, sia come incapace nel gruppo dei pari.
Una corretta diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento deve perciò riguardare soggetti intellettivamente normodotati o spesso iperdotati. È necessario porre diagnosi differenziale da effetti secondari di disturbi della vista, dell’udito e dal deficit di attenzione (ADHD). Mentre per le prime due disfunzioni è più facile l’individuazione di interferenze, nel caso dell’ADHD il problema è assai più complesso, tanto che la letteratura corrente indica alta comorbilità tra DSA e ADHD.
Le linee guida sostengono che è possibile porre diagnosi di dislessia, disgrafia, disortografia solo a partire dal secondo anno di scuola primaria e di discalculia dal terzo. Sostanzialmente solo dopo l’ottavo anno di vita. Attualmente I tecnici deputati alla diagnosi e al trattamento sono il Neuropsichiatra Infantile, lo Psicologo, il Logopedista. Inoltre alla scuola è fatto obbligo di definire un piano didattico personalizzato e di fornire una serie differenziata di interventi, tra cui l’uso di strumenti elettronici.
Le stime epidemiologiche li indicano con un’incidenza che va dal 4% al 6%, variamente distribuito sul territorio nazionale. A livello internazionale ci sono stime assai discordanti, che vanno da meno del 2% in Finlandia fino al 10% ed oltre in alcuni Stati del Nord America. Queste stime si riferiscono però al primo decennio del 2000. Ad oggi sono ulteriormente aumentate, anche in Italia, oscillando tra il 12 e il 15%.
Questo costante incremento indica che non c’è ancora una vera comprensione del fenomeno sottostante, responsabile delle difficoltà segnalate da insegnanti e genitori. La letteratura scientifica attuale avanza solo ipotesi, e perlopiù si concentra su strumenti di tampone e controllo del fenomeno, basandosi su una presunta “carenza/lesione” neurologica, peraltro non documenta da test clinici (A. Biancardi et AA. 2017; C. Cornoldi, 2017), oppure su una, sempre presunta, anomalia genetico-strutturale (G. Vallortigara, 2014). I DSA sono comunque definiti disturbi del neurosviluppo.
Da alcuni anni si assiste inoltre ad un incremento di diagnosi tardive, effettuate su studenti delle scuole medie primarie, secondarie e addirittura universitari. Si può comprendere quanto siano devastanti le conseguenze sul piano psicologico e comportamentale e quanto precocemente si avvii un processo di patologizzazione dei soggetti, con tutte le conseguenze sul piano anche sociale di un tale fenomeno.
A questo punto sembra dunque legittimo chiedersi se, anche in questo caso, non ci si trovi di fronte alla creazione di “epidemie diagnostiche” come denunciato da psichiatri di chiara competenza ed esperienza, dunque non tacciabili di pregiudizio antipsichiatrico (A. Frances, 2013, P. Goetzsche, 2015,) e se il fenomeno andrebbe riconsiderato sia sul piano teorico, di comprensione dei processi sottostanti, sia sul piano degli interventi.
Una proposta alternativa: un approccio complesso ai processi di sviluppo e di conquista della letto-scrittura
Lo studio dei processi di sviluppo rappresenta materia elettiva della psicologia, dal momento che comprendere come si sviluppa un bambino aiuta a costruire l’adulto. Si tratta di un ambito in cui sguardo complesso e interdisciplinarietà sono indispensabili. Comprendere comportamenti e difficoltà della prima e seconda infanzia è dunque una priorità per costruire la società del futuro.
In quanto responsabile della ricerca di Officina del Pensiero, che si occupa da 40 anni di psicologia e psicopatologia dell’età evolutiva, ho avviato nel 2018, in collaborazione con colleghi della Lombardia, Trentino-Alto Adige e Veneto, un lavoro di ricerca per verificare la validità di un approccio non cerebrocentrico, al problema e coerente con il concetto di “mente conversazionale” da me sviluppato (M. Gandolfi 2015). In questo approccio acquistano centralità tutti i processi di connessione/comunicazione tra soggetto e contesto.
Per questo viene assegnato un peso fondante al sistema plurisensoriale, in particolare a quello più arcaico e primario, la propriocezione , presente già nel feto e nel neonato, e prima via di accesso alla “conversazione con il mondo”. In quest’ottica l’oggetto di indagine è il sistema mente-corpo. (S.W. Porges, 2014, A. J. Ayres, 2012).
Risultati della ricerca
La ricerca, prevista nell’arco del triennio 2018/2020, interrotta a causa del Covid-19, verrà ripresa appena possibile, in particolare per la parte di retest del campione, ma ha già consentito di raccogliere e verificare ipotesi e utilità dell’approccio proposto.
Questi dati, considerati dal team di ricerca (composto da psicologi e neuropsichiatri infantili) ancora parziali, benché chiaramente significativi, sono stati presentati in una giornata di studio/convegno organizzata dal Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Bergamo, a cura del Professor Attà Negri, tenutosi il 30 novembre 2019: ” I bambini sanno scrivere, ma gli adulti sanno leggerli? Giornata di studio sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento”.
L’aspetto particolarmente innovativo della ricerca non riguarda solamente il fatto che ha coinvolto bambini di età compresa tra i 4 e i 6 anni di età, frequentanti gli ultimi due anni di scuola materna, ma la modalità di reclutamento. Essa infatti è stata preceduta da conferenze ai genitori e agli insegnanti organizzate dagli stessi istituti comprensivi. Solo successivamente sono stati testati i bambini con gli strumenti idonei ad evidenziare i processi percettivo motori e psicomotori, che la nostra ipotesi riteneva fondanti per il processo di acquisizione dei prerequisiti della letto-scrittura e del calcolo. Quindi è stata data una restituzione collettiva a genitori ed insegnati.
Uno dei maggiori successi, dal nostro punto di vista, è stato il cambiamento di sguardo nei riguardi del bambino, visto come competente e non come danneggiato. Questo ha comportato un cambiamento spontaneo delle attività o del modo di gestirle: meno “intellettualistico” e più aderente alle modalità “naturali” di approccio al mondo tipico dei cuccioli d’uomo.
Il campione selezionato ha riguardato 98 bambini di 4 anni e 68 bambini di 5 anni. Distribuiti in contesti socio-culturali sia cittadini che più periferici, dopo una breve raccolta sui dati storico/culturali dei singoli nuclei familiari ed escludendo bambini con patologie del neurosviluppo conclamate.
L’analisi dei dati ha consentito:
- di validare su larga scala il metodo diagnostico ideato (scelta dei test e del contesto di somministrazione) già applicato da tempo nell’ambito dell’attività clinica.
- di validare l’ipotesi esplicativa del nostro approccio sistemico-connessionista secondo cui le difficoltà non sono il frutto di un deficit (danno) neurologico (organico/strutturale/genetico) del cervello, bensì il frutto di un percorso di organizzazione funzionale alternativo rispetto a quello standard fissato da parametri esterni ed estranei al reale funzionamento di un bambino. (M. Gandolfi, 2018)
- di convalidare l’ipotesi che le difficoltà diagnosticate rilevate con gli attuali strumenti standard siano solo indicatori del grado di conformazione/adattamento di uno specifico bambino ad uno specifico ed unico modo, culturalmente predeterminato, di accedere alla produzione grafica.
Vantaggi emersi
La nostra proposta di lavoro, oltre a fondarsi su un impianto teorico innovativo, benché rigoroso e già ben supportato dalla letteratura scientifica, consente uno screening precoce del modo in cui ogni singolo bambino, già a partire dal 4-5° anno di vita, è in grado di mostrare il proprio modo di rappresentare, anche graficamente, il mondo che lo circonda. In altre parole vi sono più percorsi per giungere all’acquisizione finale della produzione grafica di lettere prima, di cifre poi ed infine alla loro lettura.
L’ampio anticipo di individuazione di modi altri di affrontare in maniera altrettanto efficiente il processo di lettoscrittura, pone il bambino al riparo dalle inevitabili esperienze di frustrazione e autosvalutazione, sempre riportate dalla letteratura accreditata. Evita la pericolosa idea di comorbilità con l’ADHD, con tutto ciò che comporta specie per il rischio di somministrazione precoce di psicofarmaci (P. Goetzsche, 2017). Infatti comportamenti di eccitazione o disagio comportamentale sono chiaramente effetti collaterali dell’esposizione alla paradossale situazione di essere ed essere considerati intelligenti ma inefficienti.
Vi è infine un ulteriore vantaggio tutt’altro che secondario. La diagnosi precoce e la possibilità di intervento nei normali contesti del vivere (famiglie e scuola) consente al bambino, salvo casi limite, di giungere ed affrontare la scuola primaria senza necessità di misure speciali, mezzi compensativi (insegnanti d’appoggio, computer, tablet, calcolatrice, esonero dalla produzione grafica) concepiti come veri e propri supporti “ortopedici”. Essi infatti, benché finalizzati all’inclusione, di fatto li trasformano in veri e propri portatori di handicap, rendendo problematico l’inserimento sociale e lavorativo sia in classe che una volta terminato il percorso scolastico. Inoltre esiste già una seria e documentata ricerca scientifica circa gli effetti secondari degli strumenti elettronici utilizzati ormai come protesi dei soggetti: sembrerebbe un rimedio peggiore del male. (S. Greenfield, 2016; M. Spietzer, 2013).
Prospettive
Un’idonea formazione del personale chiamato ad occuparsi dello sviluppo del bambino nella prima infanzia consentirebbe di evitare falsi positivi, riconoscimento tardivo di problemi funzionali, amplificazioni di difficoltà con conseguente “costruzione” di patologie inesistenti. I vantaggi non solo per il singolo soggetto e per la sua famiglia, ma anche per la collettività, sono facilmente intuibili. Per questo motivo l’Università di Bergamo ha ritenuto qualificante organizzare un Corso di Perfezionamento sui DSA, che metta a confronto teorie e metodi di intervento su soggetti con queste difficoltà, dedicando un cospicuo numero di ore a presentazione di casi clinici e materiali anche in video. L’inizio del corso è stato rimandato a settembre 2020 a causa del Covid-19.
Bibliografia
Ayres A. J. (2005). Il bambino e l’integrazione sensoriale. Le sfide nascoste della sensorialità. Roma: Giovanni Fioriti, 2012.
Biancardi A., Mariani E., a cura di (2017). Disturbi del calcolo e del numero. Modelli neuropsicologici, diagnosi, trattamento. Trento: Erickson.
Cornoldi C. (2017). Attraverso 50 anni di psicologia italiana. Trento: Erickson.
Frances A. (2013). Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie, Torino: Bollati Boringhieri.
Gandolfi M. (2015). Manuale di tessitura del cambiamento. Un approccio connessionista alla psicoterapia. Roma: Giovanni Fioriti.
Gandolfi M., L’importanza di chiamarsi Ernesto e di essere mancini. Per un approccio connessionista complesso ai disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) Ricerca Psicanalitica, n. 2/2018, pp. 53-73. Milano:Franco Angeli.
Goetzsche P. (2013). Medicine letali e crimine organizzato. Come le grandi aziende farmaceutiche hanno corrotto il sistema sanitario. Roma: Giovanni Fioriti, 2015.
Goetzsche P. (2015). Psichiatria letale e negazione organizzata. Cosa resta dei miti della psichiatria biologica dopo un riesame attento della letteratura scientifica. Roma: Giovanni Fioriti, 2017.
Greenfield S. (2015). Mind Change. Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli. Roma: Giovanni Fioriti, 2016.
Porges S. W. (2011). La teoria polivagale. Fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dell’attaccamento, della comunicazione e dell’autoregolazione. Roma: Giovanni Fioriti, 2014.
Spitzer M. (2012). Demenza digitale. Milano: Garzanti, 2013.
Vallortigara G., Panciera N. (2014). Cervelli che contano. Milano: Adelphi.
Dr. Miriam Gandolfi
Psicologa psicoterapeuta
Bolzano/Trento
www.officinadelpensiero.eu
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