Dismissione del Tavor (lorazepam) in terapia con Antipsicotico e Antidepressivo. Ecco la nostra esperienza diretta

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Laura Guerra

 

Francesco, familiare di Paolo, un ragazzo in trattamento farmacologico da molti anni, seguito dai servizi di salute mentale, ci ha fatto pervenire questa testimonianza che ci auguriamo possa essere utile ai professionisti del settore.

Francesco mette in luce alcune delle criticità con le quali gli utenti si trovano a fare i conti e che ostacolano il percorso di una buona ripresa dai disturbi psichici.

Quella che segue è la sua testimonianza

 

A mio avviso, questo post può essere importantissimo per gli “addetti al settore”. È un bagaglio d’esperienza che io porto a testimonianza e che può essere senz’altro utile agli psichiatri e psicologici che vogliano prenderne atto per avere un successivo raffronto con i propri pazienti.

Dieci mesi fa, su richiesta diretta di Paolo, comunicammo allo psichiatra di riferimento del C.P.S. (Centro Psico Sciale) che Paolo voleva dismettere il Tavor (lorazepam), benzodiazepina dalle proprietà ansiolitiche, sedative, anti-convulsivanti e miorilassanti.

Tale farmaco solitamente viene prescritto “al bisogno” quando di base ci sono già a supporto altre classi di psicofarmaci. È chiaro che il Tavor può essere anche prescritto in terapia da solo, (ma non è il nostro caso) da assumere nei periodi di forte stress emotivo o situazioni in cui sia necessario avere un supporto farmacologico aggiuntivo per superare con maggior “facilità” determinati periodi della propria vita.

Fatto sta che Paolo assumeva lorazepam costantemente ogni giorno, dal 2003, assieme alla base terapeutica standard, che comprendeva un antipsicotico (Clozapina) e un antidepressivo (Sertralina).

Paolo dichiara che almeno il lorazepam vuole toglierlo perché, a suo parere, è il farmaco che gli dà più disturbi.

In accordo sempre con lo specialista di riferimento, già dal giorno seguente, Paolo non assumerà più i 1,25 mg di lorazepam (pastiglia da 2,5mg diviso 2) che assumeva quotidianamente da molti anni, insieme agli altri due farmaci. Nello specifico quindi, non era poi stato prescritto così tanto “al bisogno”, ma era una vera e propria costante giornaliera.

Le informazioni preliminari che erano state date a Paolo durate il colloquio prima della dismissione si sono limitate nell’accennare al “forse potresti sentirlo”. Nessun’altra informazione, come ad es. se fosse corretto dismettere quella quantità tutta insieme e se ci potessero essere eventuali effetti collaterali dovuti ad una potenziale dipendenza fisica e psicologica dal farmaco e come eventualmente affrontarle.

Ciò che posso fare è semplicemente narrare come sono andate le cose, giurando che ciò che dico, è la pura e semplice verità.

Paolo assumeva il lorazepam (ansiolitico/miorilassante) al mattino. La scelta dell’orario di assunzione era dovuta al fatto che Paolo doveva frequentare una cooperativa al mattino (motivo principale per cui gli era stato prescritto il lorazepam) in quanto nel tragitto casa/cooperativa, diceva che a volte sentiva il cuore accelerato, che aveva sensazioni di svenimento e preoccupazione.

Ebbene, il giorno seguente alla dismissione dei 1,25 mg di lorazepam, alle 8,30 del mattino (lo prendeva alle 8) mi chiama per chiedermi se potessi venire da lui perché non stava bene. Nell’ordine dice:

 

– Faccio fatica a respirare;

– Ho paura che mi stia succedendo qualcosa;

– Non riesco ad alzarmi dal letto;

 

Prendo la macchina e arrivo a casa sua. Parliamo (circa 20 minuti) e al termine della discussione chiedo come si sente, ovvero se sentisse le stesse identiche sensazioni di quando non ero ancora lì. Mi risponde che il respiro è migliorato, che ha molta meno ansia e che ora va meglio (dopo 20 minuti di chiacchierata).

Intuisco quindi che il suo disagio, dovuto a questo suo primissimo giorno di dismissione dal Tavor, è dovuto probabilmente ad un fattore psicologico/psicosomatico:

– Tutte le mattine da anni prendevo anche il Tavor. Improvvisamente non lo prendo più. Ansia e preoccupazione.

 

Ma con la dismissione di un farmaco ci sono solo ripercussioni psicologiche/psicosomatiche o anche fisiche? Sono molte, infatti, le fonti di informazione che avvertono della grande dipendenza fisica provocata dalle benzodiazepine.

Accade, infatti, che per una intera settimana e poco più (10 giorni circa), Paolo improvvisamente ha enormi difficoltà semplicemente ad uscire di casa. Paura, angoscia, persino terrore che uscendo di casa potesse star male. Cosa che non accadeva da diversi anni con tale portata ed evidenza improvvisa.

Intendo dire… uscire di casa per andare a prelevare al bancomat a 1 km da casa. Andare a prendere il giornale. Fare un giro attorno a casa in auto accompagnato. Ogni volta che usciva di casa, tremava come una foglia. Mani che tremavano scendendo dalla macchina. Passo insicuro come se stesse per perdere l’equilibrio (piegarsi sulle gambe e distendere le mani per cercare equilibrio), giramenti di testa. Viso pallido. Poche parole da strappare a forza per chiedere come si sentiva mentre era fuori casa per quei pochi minuti.

Era evidente che “il togliere” la routine dell’assunzione del Tavor dopo tanti anni, aveva destabilizzato diverse sue sicurezze. Sostanzialmente togliere il Tavor corrispondeva a togliergli un riferimento, una sicurezza per cui senza il farmaco poteva accadere il peggio. Dipendenza della propria sicurezza da un farmaco, piuttosto che dalle proprie risorse. Questa è quella che io ho rilevato, essere la principale dipendenza. Almeno per il Tavor.

Ma quindi, come è possibile rendersi conto se i sintomi della crisi sono determinati da una dipendenza psicologica o fisica? Perché la dipendenza da benzodiazepine non è un fattore etereo. È un fattore fisico riconosciuto, scientifico, inconfutabile ed è comunque un farmaco che ha delle controindicazioni sia fisiche che psicologiche.

Per l’esperienza che abbiamo avuto, credo sia stato un mix dei due fattori. Destabilizzazione principale dovuta ad un cambio improvviso di routine (non assumo più quel tipo farmaco), unita nei giorni seguenti anche ad una dipendenza fisica, pur essendo tale effetto attenuato dalla Clozapina, che ha importanti proprietà sedative.

Fatto sta che in quei 10 giorni Paolo aveva sia sintomi ansiosi che problemi di equilibrio e di percezione spaziale del suo corpo nell’ambiente (doveva guardare dove mettere i piedi, aveva vertigini, necessità di sedersi o ritornare in macchina prima di prendere il giornale o fare due passi).

Dopo quei 10 giorni, Paolo non ha più avuto bisogno del Tavor. Questo perché lui stesso non lo ha mai più richiesto, nonostante gli sia stato poi più e più volte riproposto di assumerlo. Soprattutto non lo ha più assunto in quanto al suo fianco c’ero io che potevo aiutarlo. Se non avesse avuto il mio supporto, Paolo avrebbe barattato ancora per molti anni le sue potenzialità nell’affrontare eventi improvvisi con una pastiglia.

Quindi? Dal 2003 al 2018 che cavolo è successo? Tutti questi anni di Tavor e poi in 10 giorni improvvisamente è anche stato possibile non prenderne più neanche un briciolo? Sono passati 10 mesi e il Tavor ce lo siamo tolto dalle scatole, con enorme soddisfazione soprattutto da parte di Paolo.

Non ne ha più bisogno. Non ne ha più motivo e di situazioni “critiche”, nuove ed impreviste ne abbiamo passate tante dopo la dismissione, senza la necessità di riassumerlo nuovamente.

Resta il fatto che non ci è stata data alcuna informazione riguardo le modalità di scalaggio del farmaco e delle eventuali reazioni di astinenza. Inoltre, la prescrizione è durata per 15 anni, quando le linee guida prevedono al più un paio di settimane, dal momento che a lungo andare provocano importanti effetti collaterali!

Nei CPS c’è la tendenza a proporre prevalentemente terapie farmacologiche

Vorrei ora esprimere il mio punto di vista sull’assistenza che si riceve dai centri di salute mentale in base alla nostra esperienza.

Ciò che ancora prevale nella maggior parte dei C.P.S. è la tendenza e la facilità nel proporre soluzioni farmacologiche dovute al fatto che spesso gli stessi C.P.S.:

 

Non dispongono di personale disponibile per mettere al centro la persona, con interventi costanti di recovery al di fuori di un ospedale. Manca proprio il personale.

 

– Nel caso in cui esistano servizi al domicilio per la persona, questi sono attuati da personale che propone interventi che non coinvolgono il contesto familiare. Ovvero, si propone un modello di recupero basato su ciò che potrebbe essere meglio per il paziente, ma non su ciò che desidera veramente il paziente, in quanto viene ritenuto a prescindere “persona cronicamente fragile che non riesce ad esprimere le proprie emozioni”.

Di conseguenza si propone all’utente cosa fare, ma non gli si chiede mai il perché non vuole fare le cose proposte. Soprattutto, i servizi propongono un inserimento sociale con varie iniziative senza però affrontare mai il reale disagio dell’utente.

Non lo si vuole affrontare semplicemente perché non si conosce quale sia il disagio dell’utente.

È un po’ come voler dire:

Ti facciamo fare tante cose belle e divertenti, ti proponiamo di fare amicizia con altre persone, ma fondamentalmente non sappiamo come intervenire su ciò che ti fa stare male tutti i giorni, specialmente quando sei da solo, perché non lo sappiamo cos’è che ti fa stare male. Di conseguenza, continuerà ad esserci un malessere emotivo da parte della persona che si farà sempre sopraffare dai suoi problemi, proprio perché nessuno si preoccupa di chiedergli di che cosa ha realmente bisogno.

Di conseguenza, il risultato è che di solito gli interventi psicosociali, nei centri diurni, al domicilio, nelle cooperative o in qualunque altro ambito, sono inefficaci. È un po’ come cercare di abbellire il quadro di un pittore che ha perso la sua capacità di dipingere mettendoci attorno una splendida cornice che a tutto serve, tranne che portare l’attenzione al centro di questo dipinto, che è l’utente psichiatrizzato.

 

Moltissimi psichiatri hanno una formazione scientifica e pratica sull’uso del farmaco che mal si adatta con un percorso di recovery degli utenti psichiatrizzati. Mi riferisco all’impossibilità pratica della maggior parte degli psichiatri in C.P.S. di impostare una vera e propria relazione personale con i propri pazienti nella fase post esordio psicotico, in quanto i colloqui mensili si limitano a 10 minuti / un quarto d’ora.

Motivo per cui la relazione con il medico psichiatra è di solito sostanzialmente inesistente, pari a quella con un farmacista. I colloqui vengono incentrati quasi unicamente sul controllo dei sintomi. La relazione tra paziente e medico viene quindi delegata al “team di cura” composto da più persone, che hanno ciascuna una formazione differente, esperienze differenti, modi di approcciare il paziente differenti che potrebbero rappresentare un vantaggio per l’utente, ma il team dovrebbe sempre agire in modo coordinato, facendo capo alle direttive del medico che in primis dovrebbe conoscere la persona, i suoi bisogni e pianificare quindi le modalità di intervento.

 

Cosa potrebbe migliorare il servizio nei C.P.S.?

Quali potrebbero essere quindi le soluzioni pratiche per un C.P.S. che segue utenti in cura da anni, data l’enorme scarsità sia di risorse umane, sia d’informazione e varietà d’esperienza al di fuori di un S.P.D.C. dopo l’esordio psicotico?

Nei brevissimi colloqui mensili, mettere sempre al centro la persona.

Il che significa non condurre un colloquio finalizzato ad assicurarsi sulla stabilità del paziente, ma sfruttare quei minuti per instaurare un legame “empatico” con il proprio paziente.

Domande come:

– Cosa vorresti fare domani?

– Che cosa hai fatto di bello oggi?

– Ti piacerebbe che ci fosse qualcuno in particolare quando fai qualcosa di bello per te?

– La terapia che stai assumendo pensi che ti stia dando dei vantaggi oppure stia ostacolando la comprensione di quello che ti succede?

– C’è qualcuno nella tua vita che capisce quando stai male o ti senti solo?

– Hai provato a pensare cosa vorresti fare nei prossimi mesi per sentirti felice?

– C’è qualcuno nella tua famiglia o tra le persone che conosci che vorresti fosse più partecipe nella tua esistenza?

– Secondo te, ti sto aiutando nel migliore dei modi oppure non sono ancora riuscito/a a capire che cosa ti fa stare male?

 

Infine, credo che le domande più importanti che un medico psichiatra possa fare a sé stesso, si riassumano come segue:

 

– Sono effettivamente in grado di aiutare una persona psicotica indipendentemente dalle nozioni che conosco e dalle esperienze fatte in C.P.S. o S.P.D.C.?

– Quali risultati ho avuto in questi anni per portare all’autonomia un mio paziente?

– Ho veramente voglia di portare avanti questa professione delegando al mio team di collaboratori ciò per cui non ho la possibilità di occuparmi di persona?

– Sono veramente in grado di prendermi la responsabilità di prescrivere farmaci ben sapendo che non posso fisicamente seguire il mio paziente nei mesi o negli anni?

– Quando mi si presenta un mio paziente per il colloquio mensile in C.P.S. devo sempre vedere la storia della sua cartella clinica per ricordarmi di lui oppure conosco a memoria il suo passato, il suo presente e cosa lui vorrebbe per sé stesso nel futuro?

– Le decisioni che prendo nel corso della mia professione sono influenzate dai dirigenti che stanno sopra di me oppure sono realmente un medico indipendente dalle gerarchie ospedaliere per i miei modi di approcciare il disagio psichico dei miei pazienti?

– Quando mi alzo al mattino e torno a casa la sera dalla mia famiglia, ho ancora voglia il giorno dopo di ascoltare sinceramente i pazienti che vedrò durante il giorno?

– Sono disposto/a a fare qualcosa oltre il mio ruolo di medico psichiatra in ospedale pur di dare una speranza di guarigione ai miei pazienti?

– Sono in grado di prendere una posizione e una direzione di cura in base ai sì e ai no che il mio paziente mi comunica e ad essere pronto/a a rivalutare le miei opinioni su di lui mettendo da parte ciò che conosco e ciò che ho imparato direttamente sul campo?

– Sono mai riuscito/a ad abbracciare un mio paziente o a fargli una carezza dimostrandogli che, prima di essere un medico, sono prima di tutto una persona con dei sentimenti, delle fragilità, delle emozioni esattamente uguali a quelle della persona che ho in carico?

– Quanto c’è realmente nel mio vissuto da medico psichiatra, nella mia vita privata, sociale e sentimentale, che possa essere d’aiuto o semplicemente essere accostata come spunto di confronto con ciò che vivono i miei pazienti?

– Che cosa posso fare o posso dire ai miei pazienti in C.P.S. per fare in modo che si ricordino di me a distanza di 30 giorni, prima del successivo colloquio? Voglio dire… che cosa posso fare per far sì che io come medico, per il voto che ho fatto alla mia professione, possa essere degno/a di aiutare una persona che ha richiesto il mio aiuto?

Francesco

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Laura Guerra è laureata in Scienze Biologiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Farmacologia all'Università di Ferrara. Si interessa dei trattamenti psicofarmacologici nel contesto psicosociale del disagio emotivo. Pone particolare attenzione ai problemi dell'eta giovanile e infantile. Ha tradotto il libro di Peter Breggin "La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie". Ha inoltre tradotto il libro di Joanna Moncrieff "Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici". Recentemente, insieme a Marcello Maviglia e Miriam Gandolfi, ha pubblicato il libro "Sospendere gli psicofarmaci: Come e perché. Costruire un percorso personalizzato ed efficace.

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