Mondo giovani: come comprenderli per prevenire situazioni drammatiche.

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Marco Vinicio Masoni
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Iniziamo liberandoci dell’espressione di senso comune “ragazzi a rischio”, che ci ha disturbato per più di vent’anni producendo effetti nefasti che nessuno ancora ha misurato.
Se il ragazzo/a è a rischio significa che si è già visto che è nei guai, che è già nelle sabbie mobili, e se un ragazzo è già nei guai non c’è prevenzione che tenga, c’è azione che segue; così come se avessi l’influenza, non prenderei il vaccino per curarla, avrei dovuto prenderlo prima. Inoltre se lo/la etichettiamo “a rischio”, lo/la stiamo autorizzando a comportarsi come tale, a ritenere normale e adatto a lui/lei commettere sciocchezze, e poiché i ragazzi, come noi, aspirano alla normalità, staremmo suggerendo che ci aspettiamo da loro solo sciocchezze. Chiamatela profezia che si auto-adempie, chiamatelo suggerimento identitario oppure invito ad indossare un abito narrativistico corrivo, di fatto si tratta di qualcosa non degno di essere accostato all’idea di prevenzione.
Che cosa dovrebbe essere e cosa dovrebbe “fare” allora la prevenzione? E con chi?
Altra perla di senso comune è che, messa da parte la persona, si dovrebbero prevenire i comportamenti a rischio. Ma, ancora, non può sfuggire ad alcun ricercatore degno di questo nome che l’assunzione di rischi è il sale della vita, e soprattutto della vita di ogni adolescente, tanto che apparirebbe oggi indicatore di problemi il fatto che un ragazzo si astenga sistematicamente dall’affrontarli (Colecchia, 1995, Masoni, 1999).
Nemmeno dovrebbe sfuggire che in tempi come questi, con albe che non preludono a giorni felici, con la certezza che il futuro dei giovani sarà molto peggiore di quello che hanno avuto i loro padri, con l’attesa di eventi oscuri l’analogia che subito viene a mente é quella dei giovani del Decameron che in tempo di peste si isolano e condividono i piaceri adatti alla loro epoca. Il racconto di storie d’amore e licenziose allora, lo sballo oggi.
I rischi vanno quindi definiti e seguono i mutamenti delle convinzioni culturali di senso comune e della realtà casuale del presente storico. Le sottoculture omofobe per esempio si sforzano (ancora) di prevenire l’omosessualità. Le idee su droghe pesanti e leggere dettano, secondo le loro differenze, le regole “etiche” di prevenzione, le ideologie sui livelli di tolleranza suggeriscono che cosa sia e che cosa non sia il bullismo o la distinzione fra azioni devianti o soltanto trasgressive. E così via.
Una posizione teorica moderna ed elegante dovrebbe affermare subito che molti tentativi di prevenzione mostrano di avere in comune un nocciolo duro: ciò che è ritenuto corrivo è “spiegato” dai nessi di causa/effetto, il ragazzo non usa precauzioni nelle attività sessuali a causa della sua ignoranza, o a causa della sua timidezza, o a causa del suo amore per il rischio; se si droga lo fa a causa dei cattivi rapporti in famiglia, o nella scuola, o a causa di un io non correttamente maturato, o a causa dell’influenza del gruppo dei pari ecc. (Masoni, 1999) Per teorie apparentemente più sofisticate i comportamenti devianti hanno luogo a causa di un gran numero di questi fattori che interagiscono e complessificano i propri effetti. Se i giovani insomma tendono a comportarsi in determinati modi, ciò è provocato da un insieme di fattori causali. Ma il tentativo di spiegare tutto tramite costellazioni di cause ha alla base l’illusione metodologica che esista realmente un insieme stabile e costante di fattori capaci di spiegare i comportamenti trasgressivi e/o devianti.
Mi è parsa allora calzante e funzionale, a questo punto, una “vecchia” teoria della motivazione che viene suggerita dalla posizione etnometodologica: gli atti delle persone, senza distinzione fra atti devianti e atti “normali”, sono compiuti affinché, dopo, possano acquistare un senso e un significato socialmente condivisibile. Non sfuggono a questa lettura nemmeno le ricerche degli scienziati sociali poiché le loro scoperte e i loro metodi ricalcano sempre, in modo più meno mimetizzato, le conoscenze, le convinzioni e i metodi che la gente utilizza con il comune buon senso per fornire le sue spiegazioni del comportamento sociale. In tal modo gli scienziati sociali lavorano affinché dopo la gente accetti le loro posizioni in quanto già note e già, tutto sommato, implicitamente accettate. Esattamente come facciamo tutti, adolescenti compresi.
Questa scelta teorica ci ha permesso di aggirare il limite meccanicistico del nesso semplice di causa /effetto.
Essa consente infatti di leggere gli atti come non più provocati da cause “meccaniche” (situazioni sociali, economiche ecc.), ma prodotti (non importa se in modo consapevole o no) affinché ne venga condiviso il significato, cioè come atti comunicativi.
Abbiamo quindi scelto il punto di vista per il quale i problemi, i disagi, i “sintomi” delle persone sono messi a punto per affrontare il futuro e acquistare significati affinché il mondo degli altri comprenda anche loro.
Una prima posizione assiomatica delle attività di prevenzione: tutti i ragazzi vanno incontro a rischi e quindi occorre che si stia attenti a tutti i ragazzi.
Secondo assioma: andare incontro a rischi è un “fare comunicativo intenzionale”, non importa quanto consapevole.
Corollario: si fa prevenzione mostrando in modo convincente che gli obiettivi perseguibili con azioni trasgressive e devianti possono essere raggiunti tramite modi meno rischiosi e/o dispendiosi.
Ora entriamo in quella nube chiamata in generale “prevenzione”, termine così vasto da apparire quasi una metafora. Se ne parla a qualcuno e chi ascolta traduce il termine a modo suo, secondo la sua cultura, la sua esperienza e il suo lavoro: se è un operaio, pensa all’elmetto, ai guanti del ferraiolo, alle scarpe corrazzate di chi lavora in fonderia; se è un medico, pensa alle vaccinazioni, se è un fanatico dell’alimentazione pensa alle diete salutari.
Noi pensiamo ad altro: la scuola pensa soprattutto a conoscenza e informazione.
“Prevenzione” indica tutto un “attrezzare” in vista di un eventuale cambiamento. Una co-costruzione di strumenti per poter cambiare strada, per combattere, affrontare eventuali futuri pericoli. E il cambiamento, malgrado le voci correnti su magiche ed eteree strategie di cambiamento, su mosse da mago e su magie da guru, è sempre dovuto al fatto che si danno nuovi significati agli eventi. Il grande agente di cambiamento è chi consente e trasforma in competenze la scoperta di nuove letture di eventi letti prima diversamente.
Quindi conoscenze e informazioni capaci di ribaltare i significati correnti (di senso comune) sono fondamentali.
Ma, ahimè, tali comunicazioni, conoscenze, notizie, non basta che siano espresse con le frasi asettiche di un manuale o di un volonteroso insegnante. Occorre la presenza di altro.
Tenterò di mostrare l’ “altro” necessario tramite esempi, implicitamente, secondo il metodo che Wittgenstein riteneva il più efficace per dare luce e rendere più chiari i discorsi.
Primo esempio, i manifesti londinesi.
Una trentina di anni fa (negli anni Ottanta), a Londra, al tempo dell’eroina regnante e della sua massima gloria, per combattere la diffusione della droga, il municipio mise in atto questa manovra preventiva: riempì la città con migliaia di manifesti che rappresentavano volti di tossicodipendenti all’ultimo stadio, devastati dalla droga, brutti, sdentati, sgradevoli da vedere. Cosa accadde? Che molti ragazzi strappavano dal muro il manifesto, lo portavano a casa e lo appendevano in camera loro. Il manifesto piaceva.
Prima indicazione importante: non basta informare. Quel manifesto informava: “guarda che diventi così”. Non basta. Abbiamo a che fare con l’adolescenza, già, ma cosa diavolo è l’adolescenza? Non è un fenomeno metastorico, non c’è sempre stata in questo modo e cambia con le culture. L’adolescenza occidentale, europea, americana, neozelandese, australiana, l’occidente in pratica, la vive in un certo modo, con qualche differenza al suo interno; altre culture in altri modi, con tempi diversi, con durate diverse. Il ragazzo amazzonico si lega la liana alla caviglia, si butta da venti metri da un albero: se non schiatta dopo la caduta è adulto. Pochi secondi di adolescenza.
Per noi dura circa diciotto anni, coincide con la scuola, con il rituale scuola. E nel nostro mondo in quei diciotto anni accadono cose molto interessanti.
Si è pensato per molto tempo, annoiando con questa convinzione, che adolescenza e pubertà fossero strettamente connesse e cronologicamente apparentate: non è semplicemente così, la pubertà è un accidente di questa età. L’adolescenza è soprattutto un fatto culturale, si sta abbassando la sua età. Abbiamo adolescenti di sette, otto anni. Abbiamo esempi di bambini di sette anni che hanno stuprato una coetanea. Probabilmente perché hanno visto uno spezzone pornografico dove l’adulto faceva così. “Quindi” avrà forse pensato il bambino ” se voglio essere adulto, grande, farò così anch’io”. L’adolescenza è questo. In quei diciotto anni in cui non si è né carne né pesce, non più bambini autorizzati al gioco continuo e neanche adulti, cioè senza diritti in pratica, il ragazzo incomincia a mettere a punto, condivide, assorbe, beve, apprende che c’è un compito che scatta, sempre prima.
Il compito è: sii adulto, sii autonomo, sii grande.
E autonomo per il ragazzo significa, in generale, non obbediente alle gerarchie.
La figura dell’adulto viene spesso semplificata.
L’adulto viene visto come chi non obbedisce. Sappiamo che non è vero, ma la loro lettura è questa. “Lui sì che è libero” E se voglio essere grande adulto, occorre che io non obbedisca, non rispetti, non legga le gerarchie.
Da qui una frustrazione profonda. Il ragazzo dice ormai a otto anni, a nove, a dodici, non più a sedici “dovrei essere già grande, già autonomo, ma di fatto non lo sono, non ho soldi, di fatto non lavoro, ho la paghetta che svanisce in due giorni, non ho le competenze per le battaglie della vita, ho un lessico limitato, sono una nullità”. Frustrazione profonda alla quale si risponde di solito con una geniale scoperta. Un mio collega americano, del quale non ricordo mai il nome, formulò questa bella sintesi:
“l’adolescente sereno ed equilibrato (non ce n’è, è solamente un’ipotesi, una simpatica utopia) fa le cose che ritiene utili e sane per sé, cioè si cura, si lava, mangia bene, non fuma le canne, non si fa le pere, fa palestra, eccetera, anche se i genitori sono d’accordo”.
Il che vuol dire che se il genitore, o, in altri casi, l’insegnante, il vigile urbano, l’istituzione in generale mi richiede qualcosa e io dico di no a quelle richieste, sto disobbedendo, sono quindi adulto. Questo è un surrogato accettabile: per essere grandi, adulti, basta essere disobbedienti.
Questa è l’adolescenza oggi in occidente. Certo che l’ho tremendamente semplificata, ma vedete, l’arricchimento di questo nocciolo, di questo catalizzatore del cristallo, l’abbiamo intorno a noi, visibile, prorompente: demotivazione, apatia, bullismi di vario genere, aggressività, passività eccessiva …Tutto questo è attributo, arricchimento della visione, allargamento retorico della descrizione sintetica del disobbediente.
Allora occorre, ed è primo ingrediente necessario oltre alla conoscenza e all’informazione, che si sappia passare conoscenza e informazione senza che queste vengano in qualche modo oscurate e inquinate da un’aura autoritaria, da un’aura che comunica la gerarchia: “fai così perché lo dico io, perché sono l’insegnante”.
Occorre riuscire a far fare “le cose” cioè senza comandarle. I modi esistono.
Secondo esempio. Il boss
Negli anni ottanta, ricevo un incarico dalla regione Lombardia, allora lavoravo in un carcere, al Beccaria, il carcere minorile di Milano. L’incarico riguardava una ricerca su come si arriva a diventare tossicodipendenti, poiché molti ragazzi detenuti erano tali.
E quindi intervisto una ventina di ragazzi di allora, siamo sempre al tempo della droga intesa per lo più come eroina. Oggi, mutatis mutandis, il problema è sempre lo stesso. Vi riporto un’intervista a rappresentarne anche altre molto simili. Immaginatela così.
– Hai comiciato a “farti” a che età?
– Ho cominciato a 13 anni a farmi di eroina.
– E come è successo ?
– E’ successo che il gruppo ha detto adesso è ora che ti fai anche tu per essere poi uguale a noi. Siamo andati ai giardinetti, mi hanno messo il laccio emostatico, hanno sciolto nel cucchiaio la roba, e poi mi hanno fatto la pera.
– E come è andata ? Chiedo io
– E’ andata malissimo, Masoni, una cosa bruttissima, si sta male, ho detto basta…
– E quindi l’hai assaggiata, faceva schifo e hai smesso…
– No, no. L’indomani abbiamo provato ancora.
– Ah… E come è andata?
– Peggio che il giorno prima! Mi sembrava di morire, vomito, tremori…
– E quindi hai smesso. Dico per la seconda volta, un po’ seccato. Sei così stupido? Pensavo.
– No, non ho smesso! Ho continuato, finché dopo alcuni giorni, sette, otto, dieci, non mi ricordo, ha cominciato a fare effetto, mi sono sentito bene, e il gruppo mi ha accolto con sé.
Fine della storia.
Morale: la droga non cattura subito. E’ come la sigaretta, chi di voi è fumatore ricorderà la prima sigaretta, la fumi perché sei in mezzo al gruppo, perché vuoi diventare grande, un duro. Ma provoca nausea, giramenti di testa, non è piacevole. Se insisti un po’, inizi ad esserne dipendente.
Domando al ragazzo:
– Faceva schifo, stavi male, perché allora insistere?
– Per entrare nel gruppo, altrimenti non mi prendevano.
Ma certo. Domanda ulteriore:
– E perché è così importante per te pagare un prezzo così alto, perché sai già cosa vuol dire essere dipendente, no? li hai visti in giro i tossici! Perché è così importante per te entrare in quel gruppo?
Risposta, ed è la seconda informazione importante per noi:
– Perché in quel gruppo, possono anche picchiarmi, trattarmi male, sono duri, usano le maniere forti.. ma in quel gruppo mi capiscono. Noi ci capiamo, ci conosciamo, sappiamo come siamo fatti. Loro sanno come sto. Invece a casa e a scuola no.
Informazione vitale. Ci sta comunicando, è un esempio soltanto ma potrei portarvene a centinaia, ci sta comunicando che per loro è importante sentirsi capiti.
Mi fermo un attimo. Non sto dicendo: dobbiamo comprenderli, frase che risuona come una sciocchezza vaga. Non sto dicendo : ho capito perché fai così, ora sì…che puoi farlo.
Non è questo che dico. Prendo atto che mi stanno dicendo : voglio che sappiate come stiamo. Che è cosa molto diversa dall’essere accondiscendenti o banalmente “comprensivi”. Ci stanno dicendo : Voglio che proviate ad assumere per qualche secondo il mio punto di vista e che indossiate la mia pelle. Voglio che sentiate come sto.
Hanno provato in America ad utilizzare questa modalità. Durante un tempo in cui ci fu un calo di iscrizioni al corrispettivo della nostra scuola media, il governo preoccupato, promosse una manovra “americana”, cioè piuttosto costosa: milioni di dollari per fare una campagna annuale che comunicasse ai ragazzi : scuola è bello. Il messaggio insomma avrebbe dovuto essere questo: la scuola è un investimento, è cultura , è costruire il tuo domani.
Milioni buttati via.
Opuscoli, dépliants, spot televisivi, documentari al cinema, conferenze di esperti. Milioni bruciati, le iscrizioni alle scuola “medie” non salivano. Finché dopo un anno, studiando la faccenda a fondo e sperimentando, capirono che, invece, dire ai ragazzi “Guardate, la scuola è pesante, è carica di ingiustizie, con insegnanti spesso parziali, a volte non preparati, con compagni che possono non piacerti e a cui puoi non piacere. Questa scuola, questo pantano sappiamo che è pesante, che a volte è brutta, che ci si sta male ma… va fatta” diventava un messaggio efficace e le iscrizioni aumentavano.

Quindi non basta dire “E’ pesante, so come si sta” ma occorre aggiungere “ma va fatta”.
Diamo il nome a queste modalità. C’è una dimensione etica. Il “va fatta” è una dimensione etica che va passata, riconosciuta e condivisa.
L’altra dimensione, “leggo le tue ragioni e so come stai”, ha un nome, coniato sessanta anni fa: possiamo chiamarla dimensione “emica”, espressione creata da un vecchio antropologo che usò il termine per la prima volta. Due dimensioni che vanno messe insieme. L’insegnante, l’educatore, lo psicologo, il tutor occorre che accostino queste due competenze: etica ed emica. Se uso soltanto la prima è come se mi mettessi a fare il giudice, se uso soltanto la seconda rischio di dare un grosso contributo alla costruzione dei deficienti. Il magistrato fa un altro mestiere, giudica e basta. Ma il giudizio non fa crescere. Condanna, punisce e per quanto la nostra bella costituzione ci insista in una delle sue rare bolle di ingenuità, non educa. Emicità e eticità, quindi, due modalità da utilizzare insieme da parte di chi vuole educare.
Terzo esempio. il boss taumaturgo

Siamo sempre al Beccaria, ancora interviste ai ragazzi, questa volta su un altro campione: mi chiedono di intervistare ragazzi che hanno smesso di farsi e di capire come han fatto. E mi imbatto in una grande scoperta. Mi sento raccontare questa storia, ve ne prendo una, ma assomigliano tutte, sono le storie dei ragazzi in carcere per spaccio.
“Io volevo smettere, ero un tossico, ormai strafatto, stavo sempre male, però vedevo il boss del mio quartiere, quello che è a capo degli spacciatori, che è un ragazzo fantastico, è un capo, un figo incredibile, intelligente, in gamba, comanda tutti: io volevo stare con lui. Eh.., ma come faccio, loro non prendono i tossici… una volta però mi sono preso coraggio e gliel’ho chiesto,
– Io vorrei stare con voi, spacciare con voi – e lui m’ha detto
– Basta che smetti di farti, perché chi spaccia non può farsi; basta che smetti di farti e vieni a spacciare con noi
– E come faccio? vado in crisi d’astinenza se smetto di farmi!
A quel punto il boss si fa una grossa risata:
– Ma quale crisi ! Sono stronzate! Non c’è nessuna crisi. Guarda, stai male sette giorni esatti, smetti di farti, sentirai un po’ di mal di reni, sudi un po’ di più, un po’ di mal di schiena, un po’ di nausea, setti giorni e poi finito! Altro che crisi!
“ Beh, Masoni, io l’ho fatto: sette giorni esatti, esattamente tutto quello che aveva detto lui, e ne sono uscito.”
Morale: se chi ti dice queste cose, chi ti sta parlando è, per te, affidabile, autorevole, credibile, ciò che dice diventa efficace.
Analizzando il procedimento nei dettagli ciò che accade potrebbe essere descritto così:
1) Il disagio viene categorizzato dalla fonte autorevole (e così “semplificato”) su schemi corrispondenti a sintomi già noti.
2) La teoria che gli viene comunicata per permettergli il cambiamento si basa sulle attribuzioni della cultura o della sottocultura che il ragazzo condivide.
Ora il ragazzo la pensa come la fonte autorevole
si avrà la remissione del sintomo secondo quanto suggerito dal teorema di Thomas: “Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse sono reali nelle loro conseguenze” .
E’ il terzo ingrediente. Occorre che quando si insegna, si spiega, si informa, si comunica sui rischi, si offre conoscenza, dati, ecc., occorre che chi parla sembri a chi ascolta affidabile, credibile. Non è cosa che riguarda i ragazzi e basta. E’ cosa, questa sì quasi metastorica, riguarda l’umanità, questo è il nostro grande motore, è grazie alla fiducia, alle sue credenze, alle fedi, che l’umanità ha difeso strenuamente il presente o ha prodotto grandi mutamenti. Non si cambia perché ci “dimostrano” le cose, ma perché chi le dice diventa credibile, importante, un ipse dixit.
Copernico pubblica alla fine del quattrocento il “De revolutionibus orbium terrarum” e la nuova conoscenza ivi mostrata ci mette due secoli perché diventi senso comune. Lo diventa quando Copernico diventa Copernico.
Qualche anno fa’ era di moda Gödel, quello del teorema della indecidibilità della matematica: ogni saggio un po’ sofisticato citava Gödel: la frase “Come Gödel ha dimostrato” era diventata il prezzemolo dell’intellighenzia europea, ma, sono disposto a scommetterlo, pochissimi avevano letto il teorema di Gödel e di quei pochissimi solo una piccola percentuale l’aveva capito. Non occorre essere convinti: basta che lo dica Gödel, se è già diventato Gödel.
Si fa così con Einstein oggi; hanno fatto così per mille anni con Aristotele…
Allora occorre che chi parla e comunica informazione e conoscenza diventi in qualche modo ancora oggi degno di essere pensato come un ipse dixit.
Abbiamo ora i tre ingredienti importanti: possiamo fare prevenzione:
1) tenendo conto che possiamo comunicare ciò che comunichiamo senza mostrare poteri perché davanti all’aura di potere, al suo odore, al suo olezzo, il ragazzo chiude le porte.
2) Comunicando al ragazzo che sappiamo come sta, che leggiamo il suo mondo; non è facile.
3) Avendo acquisito il ruolo di chi parla in maniera autorevole, di chi ormai per definizione è credibile, cosa anch’essa non facile.
Un‘agenzia il cui compito è prevenire occorre che sappia che occorrono queste tre competenze e che le abbia o che si metta in cammino per averle. Quando le ha è necessario che le metta in atto e che contemporaneamente le comunichi, le passi ( con incontri di condivisione, di sensibilizzazione, di formazione) alla scuola e all’ insegnante.
Ora c’è il terzo passaggio, le presenze competenti di una agenzia di prevenzione ( o di qualunque altro genere, nella scuola) occorre che siano provvisorie. Se la scuola, questa scuola, la scuola dei nostri tempi, la scuola che ha scoperto che i suoi insegnanti devono affiancare le competenze disciplinari a competenze relazionali, se una scuola così, che non ha ancora quelle competenze, chiama un esperto ad aiutarla risolvere i suoi problemi e l’esperto funziona bene, ma poi resta lì, mette radici, la figura credibile e capace di relazione diventa l’esperto, non la scuola; e poiché la scuola è la parte che insegna, avremmo una scuola che insegna senza essere credibile: un pesante colpo di zappa sui propri piedi.
Allora occorre che l’esperto o l’agenzia “esperta”, qualunque sia il tipo di esperienza che porta, stia nella scuola per insegnare, per formare, per condividere con gli insegnanti le sue competenze affinché e fino a che l’istituzione diventi capace di comunicarle e permetterle ai ragazzi.
E poi, se ne vada.
Come fare quindi in pratica? Occorre avere esperti con quelle tre competenze…e per l’adulto, averle, è difficile.
Allora perché non allargare il campo delle nostre sperimentazioni?
Abbiamo già alcune esperienze. Abbiamo messo già a punto alcuni strumenti: l’apprendimento cooperativo tratta proprio di questo. L’insegnante appare come un facilitatore, non è più quello che dice “si fa così”, lo fanno i ragazzi; non c’è più il gruppo classe omologato, ci sono differenze utilizzate in quanto differenze nel tavolo dell’apprendimento cooperativo. Abbiamo la peer education , non potendo insegnare noi, faccio insegnare a chi è credibile, ai coetanei.
Perché non ci ri-inventiamo una peer prevention studiandola e attrezzandola con gli studenti?
Perché non sostenerli in questo? E perché non insegnare e passare loro strumenti anche sofisticati, del sapere adulto nel campo della prevenzione? Compiti nuovi, terreno poco esplorato. Ne parlano in pochi, ma ne parlano già alcune consulte provinciali degli studenti, solo però in riferimento a piccole sperimentazioni in singoli istituti. Allora aiutiamo questi ragazzi a farci aiutare da loro, su dimensioni più vaste, con sperimentazioni comunali, regionali, statali.
Bibliografia
Colecchia N. (a cura di) Adolescenti e prevenzione, disagio, marginalità,devianza, Il pensiero scientifico editore, 1995,Roma
Masoni M.V., La consultazione psicologica nella scuola, Giuffrè Editore, 1999, Milan

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Marco Vinicio Masoni ha svolto e svolge attività di formazione e docenza per i ministeri della Giustizia e dell’Istruzione, associazioni, aziende, singole scuole ed enti locali. Si occupa attualmente, oltre che della psicoterapia nel privato e di supervisione, di progetti di contrasto al disagio e di promozione del benessere nella scuola. È supervisore di sei comunità terapeutiche ed è stato consulente scientifico della Direzione Centrale per l’Orientamento della Regione Friuli Venezia Giulia e di numerosi enti locali. È autore di numerosi libri e dirige la collana “t’inSEGNO” per l’editore Fabbrica dei Segni. È docente della scuola di specializzazione in Psicoterapia Interazionista

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