ADHD: una diagnosi fuori controllo?

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Miriam Gandolfi

Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività è una diagnosi fuori controllo? Ecco cosa ne dice la buona scienza. Miriam Gandolfi, psicologa psicoterapeuta, da anni impegnata su questo fronte, in questo contributo da leggere tutto per essere davvero informati, ci suggerisce di comprendere la complessità del comportamento, piuttosto che ridurre tutto a una causa cerebrale, come oggi si tende a fare.
 

La diagnosi o il sospetto di trovarsi di fronte ad un bambino con un deficit dell’attenzione e dell’autocontrollo viene posta sempre più precocemente. Gli insegnanti di scuola dell’infanzia sono spesso confrontati con questo dubbio e si trovano a condividerlo con i genitori dei piccoli Gianburrasca, proprio quando si avvicina il momento del passaggio alla scuola primaria. È lì, infatti, che la capacità di fissare attività e pensieri e rispettare le regole comportamentali di gruppo diventano una competenza fondamentale non più rimandabile.

Ma cosa ne sappiamo di questo fantasma che tecnici, genitori e insegnati cercano di acchiappare e fermare? Dobbiamo la prima descrizione di bambini distratti e iperattivi al medico tedesco H. Hoffmann (1847). Il suo libro Der Struwwelpeter, tradotto in tutte le lingue ed efficacemente illustrato da lui stesso, non lascia dubbi: le piccole pesti sono sempre esistite. Tradotto in italiano come “Pierino Porcospino”, è ripreso letterariamente con il personaggio di Gianburrasca.

Fino ai primi del ‘900 l’influenza religiosa, ancora molto forte nella concezione della realtà, faceva attribuire a questi bambini caratteristiche morali scadenti. Così il Lancet, la rivista medica ancora oggi più prestigiosa, parla nel 1902 di ‘Deficit del controllo morale’. Si deve alla terribile pandemia di febbre spagnola (1917-1919) un primo passo verso una descrizione scientifica e un tentativo di comprensione del problema. A seguito delle alte febbri, alcuni sopravvissuti, prima assolutamente normali, mostravano segni di iperattività, diminuzione dell’attenzione, distraibilità e impulsività. La scoperta che un comportamento alterato potesse dipendere da un danno documentato del cervello, anziché da una “sostanza morale” o da un malocchio, fu molto importante.

Tuttavia all’epoca lo studio scientifico del sistema nervoso era poco più evoluto di quello della Grecia Ellenistica. È infatti solo dopo i primi decenni del ‘900 che inizia lo studio del comportamento su base sperimentale scientifica, con la nascita di tre diverse discipline: la neurologia, la psicologia e la psichiatria. Ciò che le unisce è la consapevolezza che tutto il corpo, nella sua interezza, e (assieme al) il contesto familiare e sociale giocano un ruolo nel generare i comportamenti. Ciò che le differenzia è il peso da attribuire a ciascuno di questi aspetti nell’insorgere e nel superamento di un comportamento problematico e su come si debba definire il confine tra sano e malato. Da allora ancora oggi il diverso ruolo da assegnare a queste componenti è alla base del dibattito scientifico sul comportamento umano.

Ma torniamo ai Gianburrasca. È grazie al gran numero di feriti causato dalle due guerre mondiali e alle scoperte della fisica (elettricità, radioattività, ecc.) che la neurologia poté osservare e studiare il cervello come mai prima. Nascono le prime teorie secondo cui ogni comportamento è legato ad un’area specifica del cervello. Si ipotizza perciò che i bambini “agitati” e poco “concentrati” abbiano una vera e propria lesione, anche se non ancora individuata. I comportamenti indesiderati sono così considerati gli effetti di una ‘Paralisi Cerebrale Minima’ (MCP). Viene indicata con questo termine nel DSM II pubblicato nel 1968. Benché priva di riscontro sperimentale questa ipotesi “lesionale” rappresenta un altro passo importante, perché fornisce i primi criteri di osservazione standardizzata, con particolare riferimento allo sviluppo psicomotorio del bambino.

Ma intorno agli anni ’70 del Novecento essa si rivelerà solo parziale e insufficiente. Infatti, i progressi tecnici e l’affinamento degli strumenti di rilevamento dell’attività cerebrale obbligano a correggere la diagnosi. Grazie a quello che, dagli anni ’70 in poi, viene definito approccio olistico al sistema nervoso e al cervello, viene posta attenzione al funzionamento globale e alle relazioni tra le parti del sistema nervoso. Questo approccio si rivela prezioso quando si è nell’impossibilità di individuare un’area cerebrale specifica responsabile di un comportamento complesso. Se è vero che un danno cerebrale più o meno esteso può produrre come sintomi secondari iperattività, labilità attentiva e scarso autocontrollo, vi sono bambini intelligenti e funzionanti, perfettamente in grado di apprendere ed applicarsi quando e dove lo decidono, nei quali non si trova alcun riscontro lesionale, eppure vengono descritti come iperattivi e disattenti. Come dire è vero che il mal di pancia è un effetto dell’appendice infiammata, ma è vero anche che può essere il sintomo di altre patologie alcune ignote, alcune molto complesse e con prevalenti cause psicologiche come i dolori addominali ricorrenti degli scolari.

Si abbandona così l’idea di Paralisi Cerebrale Minima e si passa a quella più vaga di Disfunzione Cerebrale, sempre supponendo però che ci sia una causa a livello organico. Così nel DSM III (1980) compare il termine Attention Deficit Disorder/Sindrome da Deficit Attentivo (ADD). Questa nuova formulazione introduce la suggestione che ci sia una vera malattia (disorder) dell’inattenzione e che può essere di due tipi: con o senza iperattività. Ma cos’è il DSM e perché è necessario citarlo parlando di deficit dell’attenzione e iperattività?

Il DSM, Manuale Diagnostico Statistico, è dal 1952 uno degli strumenti ufficiali in ambito psichiatrico per decidere se un comportamento è da considerarsi normale o patologico, cioè una malattia psichiatrica. Sottolineo uno, stilato dall’Associazione Americana degli Psichiatri, perché ve ne sono altri, ad esempio l’ICD stilato dalla Organizzazione Mondiale della Sanità e altri stilati da Associazioni Scientifiche e Professionali che studiano il comportamento. Il DSM nell’immaginario collettivo dei profani e di molti tecnici ha assunto la posizione di Bibbia della malattia mentale.

Ma, come denunciano molti psichiatri, psicologi e associazioni professionali, mano a mano che si susseguono le nuove edizioni, il DSM aumenta l’inclusione di comportamenti nella sfera patologica e nell’allargamento delle maglie descrittive, senza fornire però criteri o ipotesi di comprensione dei comportamenti osservati, definiti anomali. Si limita ad indicarne la presunta incidenza statistica. Nella revisione del 1987 (DSM III R) compare per la prima volta l’ADHD definito come “disordine dello sviluppo neuropsichico del bambino e dell’adolescente, caratterizzato da inattenzione, impulsività e iperattività”. In questa edizione le maglie si allargano ancora, perché i criteri necessari per porre la diagnosi scendono da 12 a 8 anche se rimane fisso il criterio che i comportamenti problematici devono comparire entro i 7 anni di vita e durare almeno 6 mesi. Si presume prevalente nei maschi con un rapporto M/F min. 5/1 max 9/1. Nel DSM IV (1994) il quadro resta invariato. Quello stesso anno escono i brevetti per farmaci anti ADHD.

Il padre della sindrome, che da quel momento verrà indicata con questo acronimo, è Leon Eisenberg. Psichiatra stimato, Direttore del Dipartimento di Psichiatria dell’Età Evolutiva della Harvard Medical School dal 2006 al 2009, anno della sua morte, e membro del comitato per la stesura del DSM IV. Tuttavia con il passare del tempo egli realizzò che lo zelo diagnostico aveva preso il sopravvento creando una vera e propria inflazione diagnostica che rischiava di rendere quella diagnosi un contenitore aspecifico inutile, anzi dannoso. Cosi per ben due volte, prima di morire, rilasciò pubbliche dichiarazioni che definivano l’ADHD una malattia “fittizia”.

Ma la storia continua e quando nel 2013, dopo mille difficoltà anche di finanziamento del lavoro dei tecnici coinvolti, esce il DSM-5 compaiono altre importanti modifiche nei criteri diagnostici, modifiche che allargano ulteriormente le maglie diagnostiche. Definito chiaramente come un disturbo (malattia) del neurosviluppo, si alza l’età in cui la “malattia” può comparire fino ai 12 anni, si scende da 8 a 6 criteri necessari e si ipotizza la comorbilità (malattia associata) con lo spettro autistico. La cosa più bizzarra, dal punto di vista scientifico, è che si considera questa malattia presente anche nell’adulto con soli 5 criteri sufficienti per diagnosticarla.

Quali sono i criteri di positività? Ne elenco solo alcuni per ogni disturbo.

Disattenzione:

  • spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici;
  • spesso perde gli oggetti necessari per i compiti o le attività quotidiane;
  • spesso è sbadato nelle attività quotidiane.

Iperattività:

  • spesso muove con irrequietezza mani o piedi o si dimena sulla sedia;
  • spesso ha difficoltà a giocare o a dedicarsi a divertimenti in modo tranquillo;
  • spesso parla eccessivamente.

Impulsività:

  • spesso ha difficoltà ad attendere il proprio turno;
  • spesso interrompe gli altri o è invadente nei loro confronti.

Chiunque comprende che misurare una patologia con il termine “spesso” è certamente poco scientifico, così come riuscire a definire l’impulsività, che ci riporta indietro più di un secolo ad una qualità “morale” non meglio specificabile.

Molte sono le voci scientificamente autorevoli che da tempo lanciano l’allarme, come V. Lingiardi, psichiatra, psicanalista, Ordinario di Psicologia Dinamica (La Sapienza di Roma), Otfried Höffe, già Presidente della Commissione Etica Nazionale Svizzera. Su Psychology Today nel 2015 è comparso l’articolo di Marilyn Wedge “Why French Kids don’t have ADHD”. Non ho spazio per tutti, ma ritengo fondamentale la posizione di un personaggio come Allen Frances, psichiatra, Professore Emerito presso il Dipartimento di Psichiatria e Scienze comportamentali della Duke University School of Medicine di Durham, che ha diretto per molti anni. Membro del comitato per il DSM III, Responsabile del comitato per il DSM IV. Nel suo ormai best seller “Primo non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie” (Bollati Boringhieri, 2013), egli spiega i motivi che l’hanno spinto a scendere in campo durante la stesura dell’attuale DSM-5, questa volta rifiutandosi di collaborare alla sua stesura per poter esercitare il ruolo dello scienziato che richiama al rigore etico che una tale professione impone. “IL DSM era diventato troppo potente per il suo stesso bene e per il bene della società. Anche cambiamenti minimi potevano avere un impatto disastroso… adesso, il DSM-5 sembrava chiaramente destinato a fare errori macroscopici… Avevo davanti agli occhi tutta quella gente, mediamente normale, catturata dalle maglie troppo larghe del DSM-5, e pensavo con preoccupazione che molti di loro sarebbero stati sottoposti a cure farmacologiche inutili, con probabili pericolosi effetti collaterali…Ero così sensibile ai possibili rischi di quell’operazione proprio a causa della mia dolorosa esperienza (nella stesura del DSM IV)…: nonostante ci fossimo sforzati di limitare al massimo l’esuberanza diagnostica, il DSM -IV aveva finito per essere usato nel modo sbagliato alimentando la bolla delle nuove diagnosi… Non eravamo riusciti a prevedere o prevenire tre false epidemie di disturbi mentali infantili: Autismo, Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività e Disturbo Bipolare Infantile“. Dunque egli pone senza appello l’ADHD/DDAI nelle “diagnosi inflazionate e fuori controllo” a causa del metodo di osservazione e classificazione scelto.

Ma come spiegarci allora il fenomeno che sta assumendo proporzioni preoccupanti (vedi Nota sotto) e in così rapido aumento? E l’ADHD esiste sì o no? Ogni buon scienziato sa che per ottenere risposte utili è necessario concentrarsi sulla verifica delle proprie ipotesi e degli strumenti che usa per osservare il mondo. Siamo certi di aver capito cos’è l’ADHD? O questa inflazione diagnostica ci sta insegnando qualcosa sugli errori di rilevamento epidemiologico?

Forse invece di cercare di spiegare un comportamento complesso per poter agire sulle condizioni individuali, famigliari, sociali tutte compresenti che lo generano, si preferisce porre un’etichetta che accomuni superficialmente un comportamento osservato, ma senza comprenderlo. Si sceglie di agire puro controllo su ciò che appare, senza pensare agli effetti a lungo termine sul bambino e su tutto il sistema di relazioni che lo include. Invece di cercare di comprendere la complessità dei fenomeni sottostanti si preferisce coltivare l’illusione che la scienza medica trovi una causa iniziale unica e certa in una alterazione molecolare del cervello.

Ipotizzare come assodate cause non documentate e documentabili alimenta quella distorsione che definisco “superstizione scientifica“, mentre andrebbe perseguito un approccio alla salute scientificamente ed eticamente rigoroso, tanto più se ci si occupa di bambini in giovanissima età, che con questa etichettatura dovranno convivere per tutta la vita. Dunque chi decide di esercitare professioni che si occupano della cura dei cuccioli e del loro aiutarli a diventare adulti non può esimersi dalla responsabilità di interrogassi e informarsi. Senza dimenticare che anche intorno al mondo della salute e della cura si muovono enormi interessi economici, che ormai caratterizzano globalmente la nostra visione e gestione del mondo. La buona scienza è appunto quella che non sottovaluta questi aspetti e che sottopone sempre alla verifica dei risultati le proprie teorie.

Miriam Gandolfi

www.officinadelpensiero.eu

Nota: ADHD in cifre

  • Italia: 2007 il Dipartimento del Farmaco del Ministero della Sanità in collaborazione con l’Agenzia Italiana del Farmaco pubblica il primo rilevamento. Incidenza media 1%. Ad oggi nazionale: 2%, Piemonte meno del 1%, Alto Adige 5-6%.
  • Europa: media 4%, Francia non accetta il quadro nosografico, Land Baviera inizia a mettere in discussione la diagnosi.
  • Stati Uniti: dal 4% al 11% scarso ( rilevamento del 2012/13)

 

Bibliografia

F. Allen, Primo non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie”. Bollati Boringhieri, Torino, 2013.

E. Bucci, Cattivi Scienziati, “La frode nella ricerca scientifica”. add Editore, Torino, 2015.

M. Gandolfi, “ADHD e “diagnosi chimera” efficaci indicatori dello stato di salute della scienza psicologica”. Ricerca Psicanalitica, 2019 in press.

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Si laurea in Psicologia nel luglio 1976 presso l'Università di Padova e da subito di occupa di temi di integrazione e contrasto alle istituzioni segreganti, ambito che resterà sempre di suo maggior interesse. Infatti nel settembre 1976 accetta di lavorare per il neocostituito Centro Spastici di Bolzano che dopo alcuni anni diventerà il Servizio Provinciale Specialistico per la Riabilitazione dei Neurolesi e Motulesi, occupandosi del superamento delle scuole speciali e degli istituti per adulti incluse le strutture manicomiali. Completa la sua formazione presso il reparto di psicosomatica della Clinica Pediatra dell'Universita di Innsbruck ( 1977) dove si avvicina all'approccio sistemico alla malattia mentale, noto poi come Milan Approch. Proseguirà e concluderà la sua formazione in questo indirizzo a Milano, nel periodo 1980- 1985 divenendo, nel momento della sua fondazione, membro e didatta della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica (S.I.R.T.S.). Dal 1999 al 2018 è docente presso l' Istituto Europeo di Terapia Sistemo-relazionale di Milano.( EIST riconosciuta MIUR nel 2001). Lascia il Servizio pubblico nel 1992 mantenendo attività di formazione e supervisione per vari servizi socio-sanitari pubblici e docenze a contratto universitarie. Dal 2020 è docente a contratto presso l'Universita di Bergamo per il corso di Alta Formazione sui Disturbi Specifici dell'Apprendimento. Dal 1992 è co-titolare del Centro di Psicologia della Comunicazione e dell'Officina del Pensiero ( Bolzano e Trento) dove svolge e coordina attività di ricerca in particolare nell'ambito di autismo, DSA e ADHD , temi su cui ha prodotto pubblicazioni. Si è sempre impegnata anche per valorizzare la categoria professionale degli Psicologi assumendo la carica di Segretario provinciale del sindacato degli psicologi prima della costituzione dell'Ordine Professionale (1989) è poi quella di primo presidente dell'Odine Provinciale Provincia Autonoma di Bolzano. Dr. Miriam Gandolfi Psicologa psicoterapeuta Bolzano/Trento www.officinadelpensiero.eu 0471/261719

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