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Essere “causa”, non “effetto”
Durante un incontro tra familiari e persone “direttamente interessate” si è sollevata una questione molto importante riguardo alla sospensione degli psicofarmaci. Ho osservato, in qualità di esperta per esperienza, che spesso le aspettative delle due parti coinvolte non sono allineate. Alcuni familiari mi hanno chiesto cosa intendessi con l’espressione “risalire alle cause”.
Provo a spiegare cosa intendevo per risalire alle cause: ovvero comprendere il significato di quanto è successo e che ha portato alla manifestazione di una “disarmonia”. Questo lo considero come il preludio al soggetto del Recovery o della sospensione degli psicofarmaci.
Ne segue la domanda: Come si è arrivati a dover assumere gli psicofarmaci?
Esplorare una parte della propria storia e individuare come, quando e dove il malessere si è manifestato, è un processo di consapevolezza importante per recuperare l’autonomia. La consapevolezza del proprio contesto, capire cosa ha portato alle terapie farmacologiche e quindi quando e come avviare un processo di sospensione graduale degli psicofarmaci.
Durante il mio lungo percorso di autoconoscenza, iniziato circa 28 anni fa, ho compreso che non si arriva alla risoluzione dei conflitti se non si lavora sulle percezioni di eventi vissuti che hanno creato disagio psichico alla persona.
Credo fermamente che senza una lettura del significato del sintomo, non ci possa essere un vero e proprio Recovery, ovvero un percorso di consapevolezza e di ripresa della propria autonomia per vivere una vita al meglio delle proprie possibilità (1).
Per questo trovo significativa l’espressione “sii causa, non effetto”: è un invito a non vivere in modo passivo, come semplici reazioni a ciò che ci accade, ma a riconoscere il nostro potere di influenzare attivamente le situazioni. Anche se le percezioni soggettive e i significati che attribuiamo agli eventi sono importanti, non siamo solo il risultato delle circostanze. Possediamo sempre una certa libertà di scelta, la possibilità di agire, di cambiare prospettiva, di generare trasformazioni.
Essere “causa” significa assumersi la responsabilità del proprio ruolo all’interno delle relazioni e dei contesti in cui viviamo. Non si tratta di colpevolizzare, ma di riconoscere che ogni persona è parte di una rete di relazioni, e che queste relazioni hanno un impatto reciproco. In questo senso, anche chi manifesta un sintomo non è isolato, ma inserito in un sistema in cui tutti, consapevolmente o meno, contribuiscono a ciò che accade.
Sono sempre più consapevole di quanto il contesto familiare e relazionale eserciti un ruolo determinante sulla vita delle persone. Questa convinzione non deriva solo dalla mia esperienza personale all’interno del mio sistema familiare e relazionale, ma è stata rafforzata anche da quanto appreso dalla dottoressa Miriam Gandolfi, che parla di “Diagnosi contestuale”, riguardante la terapia sistemico-connessionista.
Si tratta di comprendere dove e come si è generato un cambiamento comportamentale, e quale significato ogni individuo coinvolto attribuisce alla situazione che sta vivendo.
Questo può essere doloroso e complesso, ma è il modo più autentico per affrontare e superare il disagio. È un percorso che richiede impegno attivo, non solo da parte del “sintomatico”, ma anche di chi pensa di sostenerlo e supportarlo.
Quindi, voler sospendere gli psicofarmaci non è solo una scelta tecnica, un atto di ribellione o un tentativo di ripararsi dalle conseguenze di un’assunzione a lungo termine di queste sostanze, ma anche un’opportunità per trovare uno spazio di verità e comprensione attraverso un processo di trasformazione profonda, che richiede un lavoro sistematico e sistemico che includa il senso contestuale della realtà dell’individuo.
Familiari e persone “direttamente interessate” vivono esperienze differenti e non si può non tener conto delle aspettative legate alle diverse percezioni. Per questo motivo, una comunicazione chiara ed efficace aiuta a comprendere i conflitti che generano caos e incomprensioni, creando un filo logico e sensato.
Una delle criticità che ho potuto notare nel tempo è che i “diretti interessati” spesso non si sentono spinti né incoraggiati ad esprimere le proprie necessità e preferenze, poiché ci sono spesso persone che si esprimono al loro posto, togliendo loro spazio di partecipazione.
Anche nei gruppi di confronto più ampi, questa componente è scarsa, in quanto la tendenza è di utilizzare i meccanismi relazionali acquisiti nel proprio contesto di vita.
In realtà cosa cercano i familiari?
Spesso i familiari si occupano delle persone con disagio come se fossero i loro “salvatori”, quasi al di fuori della scena e non come figure inserite in un contesto. Più che coinvolti, a volte sembrano “sconvolti”.
Cercano ascolto e comprensione in luoghi ideali e sicuri, dove poter condividere il loro dolore, le loro paure e anche le loro speranze.
Desiderano spazi in cui poter affidare i loro cari, che offrano attenzione, monitoraggio, supporto, tranquillità, accoglienza e riabilitazione, secondo metodi che rispettino le loro convinzioni e aspettative.
Si affannano, si arrovellano, si arrabbiano… È evidente che si impegnano molto in questo senso. Tuttavia, spesso trovano difficile affrontare aspetti relazionali e sistemici della sofferenza del famigliare.
Tendenzialmente, spostano l’attenzione sul “sintomatico”, ignorando che ciò può ostacolare una visione più ampia della situazione.
Mi permetto di essere sincera: ho notato che questa situazione si ripete molto spesso tra chi si dispera per un proprio caro.
Si pensa che “chi manifesta il problema sia il problema”, ma non è sempre così. Le famiglie sono complesse, e a volte ci sono divergenze di opinioni tra genitori o tra altri membri coinvolti. Anche il disinteresse di qualcuno può influire sulla situazione complessiva.
Questo può creare un disallineamento tra le aspettative e la realtà delle responsabilità.
Cosa cercano i diretti interessati?
Cercano equilibrio, armonia, tranquillità, protezione, sostegno, rispetto e dignità.
Vogliono evitare forzature, frustrazioni, coercizioni, e non farsi carico delle ansie e preoccupazioni altrui, oltre alle proprie. Cercano AMORE!
Desiderano punti di riferimento, punti fermi, essere ascoltati, vogliono liberarsi dagli effetti devastanti dei farmaci, trovare qualcuno di cui fidarsi, e non vogliono essere etichettati come “malati” o “malati cronici, a vita come i diabetici”, né essere percepiti come pericolosi o stigmatizzati.
Vogliono che vengano riconosciuti i loro diritti, incluso quello di non dover conformarsi all’immagine che gli altri hanno di loro.
Vorrebbero migliorare la loro qualità di vita in un ambiente che favorisca il benessere emotivo e psicologico.
Se non partiamo da queste riflessioni, tutto il resto sarà dedicato a gestire le conseguenze di azioni fatte anche in buona fede e con le migliori intenzioni, favorendo, in realtà, pratiche dannose.
Tutti subiamo gli effetti di situazioni che, se non gestite con responsabilità e consapevolezza, possono portarci verso soluzioni pericolose per noi stessi e per gli altri. In conclusione, credo che dobbiamo essere “causa” di cambiamento (più attivi e consapevoli), anziché “effetto” (passivi).
Susanna Brunelli
Bibliografia
https://mad-in-italy.com/2019/08/il-recovery-e-gli-specialisti-alla-pari-peer-specialists/
https://www.latteseditori.it/images/SCAR.2_Le_Life_Skills.pdf