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Quando la diagnosi sa di varechina… e l’esperienza di voglia di vivere – Storia di Sonia
Disturbo bipolare: malattia organica o richiesta inconscia di un aiuto nella risoluzione delle dinamiche disfunzionali familiari? Quello che ho capito e vissuto a seguito di una diagnosi di Disturbo Bipolare.
Mi chiamo Sonia e ho 47 anni.
Fin da piccola, per quello che riesco a ricordare, ho sempre avuto la sensazione di non stare bene per via del fatto che mia madre non era mai una persona affettuosa con me, non la sentivo mai vicina, mi criticava spesso nonostante io facessi di tutto per cercare di essere perfetta e brava affinché lei mi volesse finalmente bene e io potessi finalmente sentire il suo affetto e calore.
Era presente per le cose materiali, ma non affettivamente e sembrava sempre arrabbiata perché era spesso sola ad occuparsi dei figli, anche se verso mio fratello in qualche modo è stata sempre molto più indulgente che con me.
Mio padre invece era molto impegnato nel lavoro e non era molto presente nella quotidianità. Ricordo che avrei voluto vederlo intervenire in mia difesa dagli attacchi di mia madre verso di me, ma non accadeva mai, stava sempre zitto.
Litigavano spesso e il clima non era mai sereno e spensierato, ma molto teso. Sospetto anche che ci siano state delle relazioni extraconiugali, ma non lo hanno mai ammesso.
Oggi sono convinta che la situazione familiare, dopo averci pensato a fondo, sia stata la base del mio disagio psichico.
Fin da piccola, nonostante mi piacesse tanto studiare e la scuola, mi sentivo come una estranea in famiglia, non mi sentivo ascoltata affatto. Per esempio, per attirare l’attenzione sul mio disagio emotivo, quando avevo una bollicina sulla pelle causata da una zanzara, mi grattavo continuamente per molte per settimane fino a provocarmi una cicatrice.
Tuttavia, nessuno sembrava accorgersi che stavo male, forse perché per cercare di avere il loro affetto mi impegnavo tantissimo nella scuola e quindi non sembrava che avessi dei problemi.
Il tutto esplode verso l’adolescenza, quando verso i 15 anni inizio durante l’inverno a mangiare tanto e di nascosto guadagnando peso, ma senza mai vomitare. Invece nell’estate smetto quasi di mangiare fino a perdere tutto il peso.
Questo andrà avanti per 4 anni. Mia mamma trovava gli involucri del cibo che mangiavo di nascosto, ma non mi chiedeva mai niente al proposito. Quindi rimanevo sola a gestirmi questo problema, fino a che capii che dovevo sforzarmi di regolarizzare il mio comportamento e che il vuoto che sentivo non si sarebbe mai riempito col cibo.
In quello stesso periodo inizio a fare uso frequente di hashish. Nessuno dei miei familiari sembra essersene mai accorto e quindi non si è parlato nemmeno di questo, dei pericoli, dei rischi che potevano derivarne.
A volte, per affrontare situazioni stressanti, bevevo liquori, anche in casa quando ero sola, ma nessuno sembrava accorgersene.
Come ho già detto, alla fine non davo problemi, a scuola ero brava e così nessuno sembrava percepire il mio disagio.
Ma un giorno, per attirare l’attenzione dei miei genitori, senza avere l’intenzione di farmi davvero del male, simulai di bere della varechina. Speravo forse che così capissero quanto stavo male e quanto avevo bisogno di sentirli vicini senza ostilità. Le discussioni in casa erano spesso accese. Mia madre mi criticava su tutto Io la sentivo come un nemico e non come un familiare.
Quel giorno si preoccupano che avessi bevuto veramente la varechina e chiamarono un’ambulanza. Rimasi 4 giorni in ospedale in un reparto di disintossicazione. In realtà, come ho detto, non avevo bevuto nulla, volevo solo la loro attenzione.
Alle dimissioni dall’ospedale mi fanno parlare con uno psichiatra del reparto, che dice ai miei genitori che ho bisogno cure psichiatriche. Quindi, mia madre mi porta da una psichiatra e io inizio le sedute. Mi prescrive un antidepressivo di cui ora non ricordo il nome (forse Citalopram)
In realtà io non volevo un medico ma solo l’attenzione dei miei genitori. Dopo qualche mese smetto le sedute e i farmaci senza dire nulla ai miei genitori. Avevo paura a prenderli, sentivo che il mio corpo li rifiutava.
A questo punto ho 19 anni, riesco a diplomarmi e mi iscrivo all’università. Anche se non ero mai convinta di cosa scegliere, opto per la facoltà di Farmacia (una laurea triennale in Chimica Farmaceutica).
Alcune delle materie erano molto difficili. Dopo un esame che avevo preparato per mesi, ho un crollo: entro in una fase in cui non riesco più neanche ad alzarmi dal letto, non voglio vedere nessuno. Inizio a sentire che il solo modo per liberarmi da questo dolore è morire. Ho 20 anni.
Poi passano questi momenti di dolore ed entro in una fase di maggior energia. Faccio tante cose, mi sento super, mi sento bene, non dormo tanto, prendo caffè e fumo più sigarette. Poi di nuovo arrivano le fasi in cui non ho forze, soffro interiormente, non esco di casa, voglio morire.
Allora inizio una psicoterapia con una psicologa e incomincio un diario. Lei mi incoraggia a parlare della mia infanzia. Sento che è positivo, ma sto ancora male. Vorrei che il disagio sparisse subito.
La psicologa va in maternità e io mi trovo di nuovo sola con questo malessere. Allora tramite il medico di famiglia, i miei genitori trovano una nuova psichiatra. Inizio le visite, accettando di prendere farmaci, pur di far smettere quel dolore.
Lei mi fa un colloquio, nessun esame clinico e dice a me e ai miei genitori che ho una malattia che si chiama Disturbo Bipolare e che dovrò prendere dei farmaci per tutta la vita, proprio come chi ha il diabete e prende insulina.
Nel frattempo avevo letto tanti libri sulla depressione e avevo capito che esistevano diverse teorie e correnti di pensiero, ma nessuna definitiva. Avevo capito che alcuni erano sicuri che servisse la psicoterapia, altri che servissero i farmaci; quindi non ero convinta al 100% della validità di una sola teoria.
Dopo questa diagnosi inizia a darmi dei farmaci: Depakin, Citalopram ed EN al bisogno.
Mi spiega che il mio cervello non funziona bene, ma non si fa mai accenno alla situazione di disagio che io vivevo fin da piccola in casa. Anzi dice ai miei genitori che loro non c’entrano nulla, che è una questione genetica. Io non sono molto convinta di questa impostazione, ma continuo col trattamento, perché stavo veramente male.
La psicoterapeuta che mi seguiva rientra dalla maternità e io le spiego che ho deciso di prendere farmaci., Lei mi dice che se ho preso questa decisione non mi può più seguire e aiutare.
Io resto con la psichiatra. Ma non so neanche io perché. Lei non mi fa parlare, mi da solo farmaci e di fatto non mi sembra di stare meglio. Comunque, il tempo passa e la mia vita continua con questi alti e bassi.
Ad un certo punto inizio a frequentare un ragazzo e dopo circa un anno rimango incinta senza averlo programmato. Per i miei genitori sembra una cosa negativa e mi lascio convincere ad abortire nonostante non fossi pienamente d’accordo di questa scelta.
Durante il periodo della gravidanza, prima di abortire, la psichiatra mi toglie i farmaci perché dice che sono dannosi per il feto.
Il ragazzo con cui stavo comunque resta con me. Dopo qualche mese accade di nuovo che rimango incinta. Anche se ho molta paura sia della reazione dei miei genitori, sia del fatto che non so se sono in grado di fare da mamma, decido di tenere quella che poi sarà mia figlia Alma, oggi 20enne.
Da subito, la psichiatra mi toglie i farmaci, al che io inizio a capire che forse questi farmaci fanno male davvero e non so se vorrò prenderli a vita. Durante la gravidanza sto comunque bene, nonostante la costante pesantezza dei miei genitori che non accettano neanche la persona con cui vado a formare la mia nuova famiglia; gli sono molto ostili.
Il fatto di stare meglio durante la gravidanza mi fa capire che forse la teoria del malfunzionamento del cervello non possa essere vera, dal momento che posso stare bene anche senza psicofarmaci.
Dopo la gravidanza, iniziano le prime tensioni tra me e il mio compagno e io inizio di nuovo ad avere le oscillazioni d’umore, ma dovevo comunque lavorare e la responsabilità verso mia figlia mi fa sentire più stabile. Rallento anche le mie visite con la psichiatra, che comunque non mi piaceva.
Sul posto di lavoro, che nel frattempo avevo trovato, iniziano anche i primi problemi. Il lavoro era ben retribuito, lontano da casa, il che già mi pesava. Ma più di tutto mi pesava che i nostri responsabili di reparto ci chiedevano di fare dei falsi sulle analisi di medicinali prodotti dall’azienda, che giornalmente eseguivamo come tecnici di laboratorio. Quindi io ero chiamata a fare dei falsi e a non seguire le procedure di analisi nel modo corretto.
Io invece volevo eseguirle nel modo corretto e iniziò su di me una specie di mobbing durato anni. Non mi venivano affidati compiti di responsabilità, non venivo coinvolta, ero messa da parte. Quindi iniziai ad avere disturbi del sonno e dopo qualche settimana di assenza di sonno ho avuto delle allucinazioni visive.
Allora nuovamente sono stata portata dalla psichiatra che mi ha prescritto il litio. Io lo iniziai a prendere e da subito notai dei tremori. Lo feci presente alla dottoressa e lei mi disse che era la mia immaginazione perché avevo letto il bugiardino. Allora mi sono spaventata, credevo che lei non stesse facendo il mio bene se neanche mi credeva su questo.
Poi per me era molto pesante perché dovevo farmi spesso analisi del sangue per controllare i livello del litio. Inoltre, mi ha prescritto anche un antidepressivo e un ansiolitico.
Io come laureata in farmacia capivo che quelle sostanze non erano leggerissime. Poi non mi sentivo ascoltata ed allora iniziai di nascosto a non prendere niente. Facevo finta di prendere farmaci ma non li prendevo.
Il periodo del litio e di altri farmaci me lo ricordo come se fossi ovattata, come se non sentissi nulla. Inoltre dovevo guidare tanto in autostrada per andare al lavoro e mi sembrava di non avere il pieno controllo del mezzo. Tuttavia, non osavo dire che non prendevo farmaci, perché tutti dopo avermi visto con le allucinazioni si aspettavano che li prendessi.
Mi sentivo in trappola senza via di uscita e allora decisi di smettere di prenderli fino a che non avessi trovato una soluzione.
Iniziai ad interessarmi alle medicine naturali, anche perché la pediatra di mia figlia dava antibiotici in continuazione e io che lavoravo nel settore farmaceutico e ne vedevo da vicino le logiche, mi fidavo sempre meno dei farmaci e delle aziende produttrici.
Iniziai quindi a frequentare alcuni corsi di medicina cinese, aromaterapia, provando via via i vari rimedi sia su di me che su mia figlia. Lei piano piano non prese più antibiotici. Io, nel frattempo, conobbi una psicoterapeuta e decisi di seguire lei, lasciando definitivamente i farmaci e la psichiatra, dovendo comunque lottare contro la convinzione dei miei genitori che erano contrari che li lasciassi. Invece il mio compagno era favorevole.
Quindi iniziai ad indagare di più il mio dolore con la psicoterapia e scoprii che comunque quando stavo male c’era sempre un fattore scatenante, che poggiava sulle basi poco solide che avevo in famiglia. Capii che la famiglia costituiva in realtà uno svantaggio iniziale che mi ritrovavo poi quando avevo delle difficoltà nella vita.
Poi feci anche una terapia familiare col mio compagno perché entrambi avevamo acquisito delle modalità di relazione disfunzionali nelle nostre famiglie, e ripetemmo la terapia qualche anno dopo. Nel frattempo, iniziai ad usare farmaci naturali per gli attacchi di panico e per i momenti difficili. E non peggioravo, anzi…
Sul lavoro arrivai ad uno scontro forte coi miei responsabili sul tema delle falsificazioni, fino a rivolgermi a un legale. Il tutto è terminato con il mio licenziamento, la mia vittoria della causa legale contro l’azienda con susseguente risarcimento, per poi iniziare un nuovo lavoro in una azienda mia e del mio compagno, che tutt’ora svolgo.
Non ho mai capito se sono Bipolare o no. Certo avevo questi sbalzi, questo dolore, ma che io sentivo legato al rapporto disfunzionale coi miei genitori, mentre secondo la psichiatra i genitori non avevano responsabilità, tema a cui loro si sono sempre aggrappati per dirmi che non erano loro a sbagliare ma io malata.
Quello che ho capito è che mettere un’etichetta del genere può fare male se poi non si hanno mezzi veri che non intossicano, per aiutare qualcuno.
Ho capito che non mi piace una medicina e una scienza che non hanno certezze assolute e sulla base della mancanza di certezze stravolgono la vita delle persone con diagnosi, farmaci, con una arroganza che non ascolta la voce di chi soffre.
Mi ricorderò sempre di una volta che andai dalla psichiatra e stavo veramente male, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Lei mi disse che “vedrai, dopo il farmaco non vorrai più parlare, starai bene”.
Mi faceva sentire in trappola, non mi ascoltava, mi ha fatto perdere completamente la fiducia nei medici di igiene mentale e nei loro metodi, oltre che in tutta la classe medica che oggi guardo sempre con sospetto, perché non so mai se svolgono la professione per il paziente o per la propria carriera. Non mi fido più.
Adesso non prendo farmaci da quando avevo 35 anni e ne ho 47. In effetti ho ancora dei momenti con più energia e momenti meno. Ma cerco di compensare col riposo, col capire cosa mi fa perdere energia come le relazioni e situazioni tossiche da cui allora cerco di allontanarmi.
Cerco di guardarmi dentro e capire quando sto male, perché sto male, mi rilasso, faccio dei bagni, sto all’aria aperta, non fumo, non bevo, non uso droghe. Cerco di mangiare in modo sano ed equilibrato e ho anche capito che stando lontana dai miei genitori riesco ad essere molto più serena rispetto a quando li devo vedere.
Per anni mi hanno fatto pesare che non li accudivo, che non stavo abbastanza con loro, che non avevo gratitudine per tutto quello che hanno fatto, facendomi sentire sempre in colpa. Loro non vogliono cambiare atteggiamenti e io ho capito che sto meglio senza vederli e che questa relazione disfunzionale forse è proprio la radice da cui è nato tutto il mio malessere, anche se non ne ho la certezza scientifica.
Credo che la medicina e la scienza dovrebbero indagare i contesti familiari delle persone con questi disturbi molto di più, per capire se esiste un filo conduttore e aiutare davvero queste persone nella loro sofferenza, non solo coi farmaci, ma con tutti i mezzi.
Credo che l’aiuto dovrebbe essere dato da un team di esperti: psicoterapeuta, psichiatra, dietologo (anche aperti alle medicine naturali) per il bene del paziente e non per le case farmaceutiche che devono fatturare perché quotate in borsa. Credo che questo aiuto dovrebbe essere gratuito e accessibile a tutti, altrimenti queste malattie non spariranno.