Diagnosi psichiatriche – Scienza o impressioni?

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Laura Guerra

Pubblichiamo la lettera che il sig. Alberto De Blasi (nome di fantasia, come pure quelli riportati nel testo) ha indirizzato alla sua psichiatra.

Gli psichiatri sono molto rapidi nel fare diagnosi. Ma queste valutazioni poggiano su valide basi scientifiche?

Se l’è chiesto un paziente, che ha poi esposto i suoi dubbi alla psichiatra che lo ha visitato.

Ho scritto questa mail alla dottoressa che mi ha visitato lo scorso marzo. Sono passati tre mesi circa, ma ad oggi nessuna risposta

 

Buon pomeriggio Dott.ssa Parisi,

probabilmente si ricorda di me, però per sicurezza le ricordo che a marzo scorso abbiamo fatto una visita via Skype, dove lei mi ha diagnosticato il disturbo dello spettro bipolare.

Siccome leggo spesso i suoi post su Facebook, dove si domanda per quale motivo la psichiatria non è considerata dal senso comune al pari delle altre branche di medicina o, peggio ancora, rimane attonita dalle discriminazioni che i pazienti subiscono dalla società, io non posso esimermi dal fare alcune considerazioni riguardo ciò.

Questo perché sono anch’io un medico? Ovvio che no, ma essendo stato per qualche tempo in cura presso strutture psichiatriche, una mia idea me la sono fatta.

Partiamo dalla mia visita: lei mi ha diagnosticato il bipolarismo (o disturbo dello spettro bipolare) in cinque minuti, basandosi esclusivamente su quanto io le ho raccontato.

Beh, le posso subito fare un paragone con la gastroenterologia: prima che mi fosse diagnosticata la rettocolite ulcerosa, sono stati fatti alcuni esami, tra cui la colonscopia, rettoscopia e l’esame istologico. I miei sintomi erano il sanguinamento rettale e la stipsi.

Nonostante questo, i dottori che mi hanno visitato non sono arrivati a una diagnosi basandosi sui sintomi. No, hanno predisposto esami precisi, e dato una diagnosi basata su dati oggettivi e riscontrabili.

Perché invece lei (ma aggiungo: il 95% degli psichiatri) è arrivata a una diagnosi perentoria dopo 5 minuti, basandosi esclusivamente sui “sintomi” (cioè, quello che io le ho raccontato)? Se io le avessi detto che sento le voci, parlo con il diavolo o con gli angeli o che fossi convinto di essere Napoleone Bonaparte, lei avrebbe diagnosticato la schizofrenia?

Quello che non mi convince, e continuerò a non capire, è proprio questo dare diagnosi giudicando i pensieri e comportamenti dei soggetti, spesso senza che tali asserzioni siano suffragate da dati scientifici e riscontri oggettivi (analisi, ecografie).

Se il disturbo bipolare è causato da un malfunzionamento organico dei neurotrasmettitori, allora tale tesi deve essere dimostrata in modo empirico, non basata sulle parole. Altrimenti si tratta di una mera “petitio principii”. D’altronde, la stessa “diagnosi” me la fecero i medici dell’SPDC, sempre però basandosi su dei comportamenti e pensieri, non su riscontri oggettivi e non opinabili sul malfunzionamento del mio cervello.

D’altronde, la psichiatra del DSM dove ero seguito (La dott.ssa Gelmini) mi disse a chiare lettere che lei non aveva una visione organica della malattia mentale. A parte che io, personalmente, non ritenevo sincera questa sua asserzione, ciò mette in luce un punto piuttosto debole della psichiatria: un paradigma epistemologico condiviso universalmente.

Se alcuni dicono che i malesseri mentali siano di origine organica, mentre altri lo negano (e qualcuno dice che è un 50 e 50), è chiaro che manca la coerenza epistemologica. E per come la vedo io, una scienza senza una base epistemologica forte non è credibile.

D’altronde, come può esserlo, se qualche tempo fa gli omosessuali venivano rinchiusi in manicomio o nelle apposite strutture perché ritenuti malati?

Riguardo alla discriminazione dei pazienti, io le posso dire che, almeno dal punto di vista pubblico, le cose non funzionano come dovrebbero. Io personalmente ho visto gente parcheggiata da anni nei vari centri diurni e DSM, tenuti a bada con attività spesso al limite del ridicolo o con tirocini retribuiti con un irrisorio rimborso spese sostenuto da cooperative a cui interessa solo il proprio guadagno, senza avere a cuore un reinserimento vero degli utenti nel tessuto sociale.

Ma visto che lei, da quanto ho capito, ha lavorato presso gli SPDC, le chiedo: perché in questi posti, che sono manicomi in formato small, visto che la gente, spesso viene legata o “sedata” (termine orribile indegno pure per le bestie), non c’è altro se non un viavai degli stessi individui?

Perché quando io ci sono stato, ho incontrato persone (a mio avviso normalissime se non “colpevoli” di avere avuto delle difficoltà sociali) che erano degli habituè degli SPDC, dove entravano e uscivano periodicamente?

È chiaro allora che la “cura” da voi somministrata non funziona, né tantomeno è in grado di “guarire” alcunché.  Come si può preoccuparsi della discriminazione dei pazienti, quando l’unica preoccupazione è che vengano sedati e rispediti a casa o nelle comunità per tenerli buoni, fregandosene delle reali motivazioni dietro alla loro “follia”?

Nella mia esperienza, posso però dirle che solo una psichiatra (almeno in apparenza), aveva compreso veramente la situazione, andando oltre l’etichetta del “disturbo bipolare”. Ma come si fa a parlare di non discriminare i pazienti, se poi vengono ridotti a mera “cosa biologica”?

Con questo la ringrazio in anticipo per l’attenzione che mi dedicherà leggendo questa mail, e mi scuso se mi sono un po’ dilungato. Però, ripeto, visti i suoi post animati da sincero interesse per la materia, mi sono sentito di fare queste considerazioni.

Cordiali Saluti, Alberto De Blasi

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