Senzatetto ma non senza speranza

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Laura Guerra

Fotografia di Mario Scalisi

Abbiamo chiesto a Enrico, un senzatetto di Roma, di raccontarci come affrontano le giornate le persone come lui, le difficoltà che incontrano, specialmente in questo periodo di quarantena per la pandemia causata da COVID-19 (coronavirus). Enrico, prima di diventare senzatetto aveva una famiglia e un lavoro soddisfacente, che con la crisi economica ha perso e così anche la sua situazione famigliare si è disgregata. In questo periodo sono moltissime le persone che come lui hanno perso ciò che avevano e si trovano ad affrontare le difficoltà del vivere in strada.

Lasciamo raccontare ad Enrico la situazione.

 

“A Roma le stime ufficiali dicono che le persone senza fissa dimora sarebbero circa 6.000, ma personalmente penso siano molte di più. Fino a dieci o quindici anni fa i senzatetto erano per la maggior parte immigrati, poi con la crisi economica sono aumentati molto anche gli italiani.

Quando non ci sono situazioni particolari come l’attuale pandemia, per le persone senza fissa dimora il Comune di Roma si muove sostanzialmente per l’emergenza freddo di inverno e l’emergenza caldo d’estate. Durante queste si aprono le varie case di accoglienza come Sant’Egidio, Caritas ecc. e finita l’emergenza ci buttano fuori. Possiamo anche mangiare una o due volte al giorno, a seconda che si tratti di una accoglienza h15 o h24, cioè per 15 ore o 24 ore.

E così siamo sempre fuori e dentro, fuori e dentro, ma non nella stessa casa di accoglienza, in case sempre diverse e ci possono mandare anche a 30 km di distanza dalla zona in cui siamo abituati a stare. Spostarsi da una struttura all’altra è una cosa molto pesante, perché ci si deve muovere con tutti i fagotti, fronteggiando spesso problemi di salute e difficoltà di orientamento che rendono molto faticosi gli spostamenti con i mezzi pubblici.

Per un senzatetto sarebbe importante stare nella stessa zona, perché la conosce, allaccia un minimo di rapporti con la gente del quartiere, sa dove può chiedere un caffè o un panino a fine giornata e gli consente di lasciare i suoi fagotti con le poche cose che possiede e magari scambiare anche un saluto. Questo sistema di sopravvivenza non è possibile quando ci si sposta continuamente.

Salvini, l’anno scorso, ha fatto sgomberare più di 300 persone, tra cui molti bambini e ragazzi, che occupavano abusivamente uno stabile di Primavalle. Famiglie intere con bambini che andavano a scuola nel quartiere sono state sradicate e messe nelle case di accoglienza con zingari e senzatetto, dividendo poi gli uomini dalle donne per cui i nuclei familiari sono stati divisi. Questi provvedimenti creano problemi e disagi a tutti, alle famiglie e ai senzatetto. Per fortuna, dopo quel brutto episodio, la giunta Raggi ha emesso un provvedimento per evitare gli sgomberi prima che sia disponibile una valida sistemazione alternativa.

I senzatetto, dopo un po’ che stanno sulla strada, spesso cominciano bere per alleviare la sofferenza, il senso di precarietà e la profonda solitudine che inevitabilmente arriva. Dopo il problema dell’alcol arrivano i problemi psicologici. Anche le persone più equilibrate sulla strada si scompensano.

A Roma esiste il S.O.S (sala operativa sociale) che aiuta i senzatetto, ma anche loro non fanno più di tanto, diciamo che censiscono le persone in strada, ma l’aiuto è limitato a qualche coperta nei periodi di freddo. Ricordo quest’inverno una persona completamente ubriaca che si era accasciata sui gradini di una chiesa e gli operatori della S.O.S, allertati, sono arrivati ma si sono limitati a buttargli addosso una coperta.

Quando un senzatetto ha problemi di alcol e psichiatrici gli fanno il TSO, lo tengono 3 giorni in ospedale dove lo imbottiscono di psicofarmaci e poi lo sbattono fuori, magari in una zona di Roma dove si trova l’ospedale, lontana dal quartiere dove è abituato a stare e, come ho già precisato, un senzatetto fa fatica ad orientarsi e a tornare al suo quartiere dove aveva un minimo di relazioni sociali.

Un senzatetto, quando arriva ad avere problemi di questo tipo, con alcol o psicofarmaci, dovrebbe essere tenuto un po’ più a lungo in ospedale e magari inviato a una clinica privata (le cliniche private sono quasi tutte convenzionate col sistema sanitario pubblico) per la disintossicazione da alcol e ricevere un po’ di sostegno da permettergli di tirare un po’ il fiato e ristabilirsi. Invece, come si può ben immaginare, alle cliniche queste persone non vengono inviate e si preferisce lasciare i posti a chi possiede una casa ed è più inquadrato socialmente.

Bisogna anche dire che la chiusura dei manicomi non ha dato alle persone con sofferenza psichica un’alternativa abitativa e un aiuto concreto di guarigione, cosicchè si sono ritrovate in strada. Queste persone non vengono più prese in carico da nessuno. Non vengono messi a disposizione strumenti di aiuto e così rimangono in strada.

La situazione attuale, creata dal coronavirus, è insostenibile in quanto ha drasticamente interrotto quelle relazioni sociali e di aiuto che i senzatetto creano coi ristoranti e i bar attualmente tutti chiusi. Non si può nemmeno più chiedere un minimo di elemosina perché non c’è nessuno in giro. I posti letto nei dormitori e le case di accoglienza sono stati ridotti per il rispetto dei canoni di sicurezza (letti distanziati secondo le norme di sicurezza ecc.) e le mense devono adeguare il servizio alle stesse norme.

In sintesi, le difficoltà aumentano per chi si trova già in una situazione molto precaria.

La beffa, oltre al danno, sono le multe date ai senzatetto perché in questo periodo di quarantena stanno fuori e non in casa: MA SE UNO LA CASA NON CE L’HA?

Potrebbe sembrare ridicolo se non fosse assolutamente tragico.

Una speranza e una opportunità di miglioramento arriva ora con la circolare del Ministero del lavoro di fine febbraio che concede il Reddito di cittadinanza anche alle persone senza fissa dimora e io mi sto già interessando per ottenerlo.

Sono senzatetto ma non senza speranza.

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Laura Guerra è laureata in Scienze Biologiche e ha conseguito il dottorato di ricerca in Farmacologia all'Università di Ferrara. Si interessa dei trattamenti psicofarmacologici nel contesto psicosociale del disagio emotivo. Pone particolare attenzione ai problemi dell'eta giovanile e infantile. Ha tradotto il libro di Peter Breggin "La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie". Recentemente ha tradotto il libro di Joanna Moncrieff "Le pillole più amare. La storia inquietante dei farmaci antipsicotici".

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