La solitudine dopo la luce.

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Maurizio Montanari
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L’elettroshock che si praticava molti anni fa non prevedeva l’anestesia ed un scarica inferiore a 5 volt come avviene ai giorni nostri. Ho raccolto diverse testimonianze di chi da quegli elettrodi c’è passato. In maniera anonima ed autorizzata faranno parte di un saggio che tratterà il reinserimento di chi ha conosciuto lo scompenso mentale.

“Quando capitò a me, avevo vent’anni. La scarica elettrica è come un viaggio. Come una finestra che si spalanca di colpo, mentre dormi. Se ti va bene, ti manda luce, tanta che te ne puoi far bastare per mesi. Se ti va male, ti acceca. E resti al buio, per sempre”.

Mi sintetizza così l’effetto delle scariche il vecchio signore che se ne sta seduto, con un
maglione grigio e lungo, mentre mi mostra il giardino di quello che era un vecchio ospedale
psichiatrico. “Uno di noi”, sussurra, “da quel giorno, non ha mai più parlato. Se non il giorno in cui sono venuti a dirgli della morte del fratello”. E’ una delle storie più crudeli sentite in questo angolo di mondo nascosto. Lui venne rinchiuso per molestie e sottoposto a sei scariche.
Essendo solo, nessuno venne mai a chiedere delle sue condizioni.
Invecchiò con la mobilia e l’erba di questo stabile. Dimenticò, a causa dei troppi volt, di
avere un fratello. Lo ricordò solo quando vennero a dirgli che era morto.
Da quel giorno in poi, smise di parlare.
La signora attempata, ma dotata di memoria ferrea, ricorda suo padre, dopo il trattamento.
A suo dire era rimasta, in mezzo alle piaghe del volto e alle membra ricurve, un’umanità inattaccabile. Fermo come una cosa sorda all’acqua, cieca al sole. Immobile come lo sono quegli oggetti violati e gettati nel pattume. La chimica dirigeva i suoi pensieri, i suoi circuiti neuronali semplici e mozzati. Gli occhi roteanti erano il solo ricordo di un uomo che era stato vivo, prima che le scariche di corrente penetrassero nei pensieri più nascosti.
“Io non sapevo cosa fosse un padre pazzo” mi racconta. Non le avevano detto a quale
spettacolo sarebbe andata incontro. Pochi li dentro riconoscevano i familiari. Fu tuttavia uno stupore intimorito e condiviso quello, come mi racconta, che colpì gli infermieri quando
aprirono la porta di legno avvicinando la bambina, che oggi mi racconta il suo passato. Lo
videro alzare la mano livida e passarsi le dita sul capo, come a pettinarsi. Inconsapevole del suo sguardo bruciato, certo di un viso che non era più tale. Tossendo si levò in piedi e
strisciò sul muro cercando nelle pietre la forza per alzarsi. Non volle specchi, solo il vecchio
maglione felpato.
“Aprirono la porta intimoriti e io, lesta, fuggii dalla loro morsa correndo incontro a mio papà
chiamandolo per nome. Mi feci prendere ed alzare, sentendo quell’amore paterno che le
scariche non avevano bruciato”.
In molti casi di ricovero a causa di scompenso psichico, il soggetto paga il prezzo dello
stigma dell’omologazione sociale che, in un certo qual modo, lo intrappola e da lui richiede
esclusivamente gli atteggiamenti da “matto”, disconoscendone e spesso vanificandone le
risorse, le capacità e abilità, in molti casi elevate, che l’individuo possedeva prima che
avvenisse il crollo. Dunque uomini con qualità eccelse in diversi campi professionali,
colpiti da crisi psicotiche acute poi ricucite grazie a buoni trattamenti e a forza di volontà
personale, non riescono in molti casi più a convincere l’Altro della loro possibilità di
riprendere la loro vita precedente, attingendo alla quasi totalità delle cose che sapevano
fare e alle conoscenze delle quali erano venuti in possesso. Questo perché, come mi è
stato detto in seduta, “per quel paese io ero solo quello che era stato ricoverato e niente
più. Tutto quello che io ero prima, e che avrei potuto nuovamente essere, non era
socialmente ammesso”. La società costruisce, basandosi sul tornaconto che trae dal
pregiudizio, un poderoso freno sociale alla riabilitazione e al reinserimento del soggetto
con scompenso psicotico nel legame.

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Psicologo e psicoterapeuta, iscritto all’ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna (n. 1910) ed elenco psicoterapeuti Emilia Romagna Psicoanalista, partecipante alla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi Membro della Eurofederazione di psicoanalisi. Fondatore e responsabile clinico del Centro di Psicoanalisi applicata LiberaParola Già collaboratore con la Scuola Regionale di formazione Specifica in Medicina Generale di Modena e Parma Consulente e membro del Comitato scientifico nazionale della Lega Italiana contro i Disturbi d’ansia, da Agorafobia e da attacchi di panico, LIDAP Docente di psicopatologia, formatore e Coordinatore scientifico del Centro per i disturbi del comportamento alimentare di Bellinzona, presso il Centro My Way Curatore della rubrica Clinico contemporaneo sulla rivista on line di psichiatria, psicologia e psicoanalisi Psychiatryonline.it Responsabile del Progetto di sostegno psicologico alle persone colpite dalla crisi economica realizzato con il Comune di Savignano s/P

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