Sono qui per portare il mio pensiero che è del tutto personale, maturato nell’arco di venticinque anni, in veste di “famigliare cronica”, potrei ironicamente dire, ma sono stata anche un’utente, nel mio caso, però, potrei dire altrettanto ironicamente “risolta” e “risoluta”.
Nessuno può arrogarsi il potere di disquisire sulla mia auto definizione: mi sono serviti, si proprio così, serviti, 18 mesi di inferno in psichiatria per deprogrammare il mio stato di condizionamento inconsapevole o parzialmente consapevole, consolidato in 54 anni della mia vita da programmi sociali, familiari, culturali e perché no anche religiosi che vengono impartiti a tutti noi. È normale che ciò avvenga, fino a quando si arriva ad uno stato di saturazione dell’anima che non ti permette più di far finta di nulla, una sorta di RIVELAZIONE, cioè uno “smascheramento”, che se si accetta si trasforma in LIBERAZIONE.
Accade quando non ci si sta più dentro e, come si dice, si va fuori di testa.
Può capitare a chiunque, chi più chi meno, quando una serie di eventi avversi ti travolgono come uno tsunami: un trauma, una malattia fisica propria o di un famigliare, eccessivo stress, una situazione che si protrae nel tempo, mobbing, una scelta sbagliata, problemi lavorativi o economici, un fallimento, una perdita, un lutto, condizioni familiari, condizionamenti e imposizioni, qualcosa di trattenuto per lungo tempo, senso di Solitudine.
Non ho lauree, non ho titoli, non ho attestati di lunga durata nel settore della salute mentale, ma ho acquisito delle competenze che mi attribuisco da sola, rimanendo con un concetto sobrio di me stessa.
Non per questo sottovaluto il mio sapere esperienziale. Mi sento determinata e ho conquistato un livello di autostima che mi permette di avere il coraggio di esprimere tutto ciò che sento dentro, dalla gioia alla tristezza; non sono anestetizzata e neppure compensata dai farmaci. Questo non significa che ho fatto tutto da sola e quello che ho ricevuto in termini di relazione, ora, lo voglio restituire e mettermi al servizio degli altri.
È stato fondamentale per arrivare alla mia autodeterminazione, sì perché da soli non si esce dalle sabbie mobili, bisogna entrare in relazione con qualcosa o qualcuno di cui ci si può fidare.
Senza relazione ci si sente soli, e qui tocco il tema della solitudine, punto l’attenzione su questo aspetto, elemento che emerge in ogni contesto di disagio, si può morire di solitudine.
Potrei dire che la relazione è la cura alla solitudine, l’ascolto è la cura alla contenzione, l’accettazione è la cura opposta all’anestetizzazione, l’integrazione e l’inclusione sono la soluzione alla disabilità fisica e psichica, la personalizzazione della cura è necessaria per ottenere buoni risultati, la farmacoterapia va usata con discernimento, il tutto supportato da un ascolto attivo, empatia e tanto tanto tanto Amore, fede, pazienza e una ragionevole speranza, per citare un’espressione del dott. Tibaldi nel suo libro, “LA PRATICA QUOTIDIANA DELLA SPERANZA”
Temo che i servizi territoriali non siano in grado di adempiere ad un compito così impegnativo, che richiede molto tempo da dedicare più che di risorse economiche, che richiede persone veramente capaci più che di presenze che non si contraddistinguono per le loro qualità professionali e umane, che richiede strutture dove si accolgono le persone per fare una vera riabilitazione psichiatrica più che aprire altri luoghi usati come contenitori o parcheggi per persone considerate cronicizzate.
Se dovessi pensare ad un nuovo sistema di Salute mentale, direi che è necessario fare attività che restituiscano alla persona la sua originalità, che qualcuno potrebbe confonderla o chiamarla diversità, aiutare a far uscire il meglio da ogni situazione, rispettare i desideri, i talenti e la sessualità, quest’ultima sottovalutata da molti ma non meno importante, soprattutto per i giovani. Tutto questo prefissando dei tempi che non siano determinati dallo scadere di dati anagrafici o da motivi logistici studiati a tavolino, ma che lascino il tempo necessario per attuare gli obiettivi.
Bisogna restare focalizzati nel trovare soluzioni al disagio e puntare su possibili progetti riabilitativi personalizzati, fino ad arrivare ad un distacco necessario per non creare altre forme di dipendenza psicologica e farmacologica. Al tempo stesso, però, si deve lasciare la porta aperta, senza imporre limiti di età, a chi desidera usufruire dei servizi. Mi riferisco al fatto che gli ultra 65enni si trovano costretti a lasciare le attività dei CSM, nota altamente stonata per chi non è riuscito nel tempo a trovare una completa autonomia.
Sarebbe bello e utile poter contare su un ambiente armonioso, stimolante, accogliente, come fanno le mamme animali che insegnano ai cuccioli, mostrando loro come si fa.
Nel contesto paternalistico che emerge dagli attuali servizi manca proprio l’aspetto del tutto femminile che ha a che fare con la dolcezza, l’accoglienza, l’empatia, la gentilezza, la capacità di ascoltare, osservare e abbracciare, proprio come si dovrebbe fare con i bambini, rispettando la sacralità dell’individuo in tutte le sue forme.
Incentivare momenti di gioia e spensieratezza attraverso le arti e i mestieri e le buone pratiche per stare in salute, da contrapporre all’attuale contesto sociale, così impregnato di paura, rabbia, regole coercitive, separazioni, tristezza, solitudine e dubbi sul futuro, dove non c’è una vera attenzione ai bisogni della persona, al benessere globale, ma solo una forma sterile di sopravvivenza.
La disumanizzazione attuale è deleteria per tutti quando c’è invece un estremo bisogno di solidarietà e fiducia nella vita.
Voglio però concludere con un pensiero di ragionevole speranza: io credo che tutto sia possibile e se vogliamo cambiare le cose noi stessi dobbiamo cambiare per primi, abbiamo tutto ciò che ci serve, ma dobbiamo osare tirarlo fuori.
Susanna Brunelli